
Nata nel giorno di San Valentino, Candy Christian è una studentessa spettacolarmente bella, forse ingenua e sciocca, certo generosa con ogni maschio.
E soprattutto è lo splendido fantoccio che devasta – è il 1958 – con erotica ironia, o ironico erotismo, ogni sacro buco dove, tra i Cinquanta e i Sessanta, erano piantati in America i miti del passato e anche quelli del presente. Terry Southern (creato tra i big per sceneggiature di film come il Dr. Stranamore e Easy Rider) e Mason Hoffenberg scrissero il romanzo a quattro mani e quasi per gioco regalando il primo best seller popolar-pornografico nato spremendo gli umori della beat generation assieme agli altri fluidi della controcultura americana (Ringo Starr volle Southern sulla coperta di Stg. Pepper’s Lonely Heart Club Band, tra Aldous Huxley e Dylan Thomas): Candy, rifiutato negli States e uscito per il furioso Girodias dell’Olympia Press di Parigi (purgato in Italia nel 1965 per Longanesi, film nel 1968 con Ewa Aulin, Brando, Aznavour, Burton e Ringo Starr, e ora nuovamente tradotto da Stefano Medici per Elliot) scompagina paradossalmente le rettitudini della middle-class accanto agli allora neonati miti della rivoluzione cultur-sessuale, tra guru, hippy e psichedelia.
Nell’Animale morente, Philip Roth descrive in maniera retrospettiva quella rivoluzione «che era, al tempo stesso, come il giorno dopo la rivoluzione: un grande idillio. La gente si toglieva le mutande e andava in giro ridendo»; a Candy pure le tolgono spesso, il professore di Etica contemporanea e lo sporcaccione zio Jack, medici infingardi che osannano la masturbazione e gobbi che voltano la loro «croce» in delizia. Così Candy, virando in chiave porno le coordinate psicologiche della donna che dà tutto all’uomo, tra un «Cavoli!» e un «Oh, poverino!» procede tra New York, il Minnesota e l’India, ognuno avvolgendo, senza nulla chiedere, «all’interno dei suoi dolci umori». Non commenta, o quando lo fa ripete ciò che ha appreso da altri, citando Mallarmé, Giovanna d’Arco e il malvagio pianista Svengali, sentendosi sempre insufficiente nella propria ascesi psichica.
Il gioco di Southern e Hoffenber è sottile: Candy è il bellissimo dispositivo che fa esplodere dall’interno le contraddizioni, l’ipocrisia e le prosaicità più sordide, mascherate da slanci altissimi dello spirito, di quell’America aperta e candida che credeva di trovare negli slogan del libero amore la redenzione da ogni male.
Recensione apparsa per la prima volta su “l’Unità” il giorno 11 marzo 2014.