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L’azzardo della traduzione

Partiamo da un assunto, semplice: ci sono opere traducibili e altre intraducibili. Intraducibili non perché sia del tutto impossibile farlo (è annunciata una nuova impresa di Enrico Terrinoni che sta mettendo in italiano il Finnegans Wake, auguri!), offrendo al lettore, magari con il supporto di note, un contenuto plausibile e l’idea di cosa ci abbia proposto l’autore. Penso alla Commedia di Dante in altre lingue:

Au miliau de chemin de notre vie

Je me retrouvai par un forêt obscure

car la voie droit était perdue.

Oppure:

Midway upon the journey of our lifeI found myself within a forest dark,For the straightforward pathway had been lost.

La prima versione è quella di Jacqueline Risset, recente (Flammarion), la seconda è quella classica di Henry Wadsworth Longfellow. Immaginare che la diritta via si possa trasformare in straightforward pathway è impresa, per noi italiani, veramente ardua, e lo stesso accade quando siamo noi stessi a portare nella nostra lingua testi così complessi. Penso soltanto alla disputa tra Edmund Wilson e Vladimir Nabokov sulla traduzione dell’Eugenio Onegin da parte di quest’ultimo, in quattro volumi, come quel poderoso apparato introduttivo ed esplicativo che resta un modello straordinario, ma che pure causò la fine di un’amicizia basata sulla stima reciproca.

Insomma, in molti casi si tratta di una sfida improba, e, a titolo esemplificativo, prendo il celebre incipit de Il cimitero marino di Paul Valéry:

Ce toit tranquille, où marchent des colombes,

entre les pins palpite, entre les tombes;

Sembra tutto già chiaro, nel suo compiuto originale, ma vediamo come viene trattato in italiano. Nello splendido volume dei Meridiani dedicato alle opere scelte del poeta di Sète, curato da Maria Teresa Giaveri, viene riprodotto con:

Un tetto calmo, invaso da colombe,

Palpita tra i pini, tra le tombe;

Se prendo la versione Einaudi, di Mario Tutino, i due versi diventano:

Quel tetto quieto corso da colombe

Palpita di tra i pini, tra le tombe;

Ed ecco Patrizia Valduga, per Mondadori:

Il tetto quieto ai passi di colombe

In mezzo ai pini palpita, e alle tombe;

Per finire con Diego Valeri, per Feltrinelli:

Quel tetto tranquillo, ove colombe

camminano, tra i pini,

palpita tra le tombe;

Diego Valeri era poeta ed era giusto si prendesse qualche libertà, ma la sua traduzione è la peggiore, perché sembra che siano le colombe a camminare tra i pini. Peggio anche di quel Palpita di tra i pini, nella versione Einaudi. Riprodurre la perfezione formale di Valery, il dodecasillabo in cui il poeta condensa quella che egli stesso chiama “la materia di Cette”, cioè del luogo, Sète, in cui l’opera è ambientata, è impresa persa in partenza, e va lodato chiunque vi si confronti. Però, ogni traduzione finisce per lasciare insoddisfatti, come non mi soddisferebbe nemmeno la mia versione, che affrontai per studio e riflessione:

Quel tetto quieto, su cui vanno colombe,

Palpita in mezzo ai pini, e tra le tombe;

I motivi dell’insoddisfazione sono diversi, perché seguendo la fonte non si può parlare di un tetto, ma di quel tetto, cioè di uno preciso, dietro il quale il poeta sta guardando e che anche noi possiamo ritrovare, ancora oggi, se ci rechiamo a Sète e ci mettiamo rivolti al mare, dove il cimitero si affaccia. Quel tetto è tranquillo, perché tale è tutta la situazione, e non si potrebbe mai usare l’aggettivo calmo in quanto viene usato dal poeta pochi versi dopo, in chiusura della prima strofa e addirittura in relazione agli dèi:

qu’un long regard sur le calme des dieux!

Inoltre, la superficie del tetto non è invasa dalle colombe, il tetto non è corso da questi uccelli candidi. Le colombe, invece, vi camminano sopra con la stessa tranquillità generale invocata dal poeta, quella che ritroviamo poco dopo nel verso che rappresenta il cuore e l’intero motivo dell’opera, dove è indicata l’idea del ritorno, atemporale, di qualcosa che si riproduce sempre nello stesso modo (toujours recommencée), come se si trattasse della natura morta di un quadro pronto sempre a riprendere vita. Perciò ecco l’infanzia, il luogo natale, davanti alle tombe del cimitero, ecco la luce, abbagliante, ecco il mare, eterna fonte del sapere, ecco gli dèi…

Tradurre la prosa, appare di primo approccio più semplice. Almeno non c’è il vincolo del verso, non c’è l’obbligo di chiedersi se sia meglio rispettare la metrica, la rima o il contenuto. Però, il primo, vero problema del traduttore è partire dalla piena comprensione del testo in oggetto, prima di riproporlo in un italiano fluido e corretto. Sembra una cosa ovvia, ma non sempre lo è. Traducendo Stevenson o Conrad, mi sono imbattuto in scene di mare e navigazione di straordinaria complessità. Mi sono chiesto come abbia potuto cavarsela Cesare Pavese, alle prese con Moby Dick, senza essere un esperto di mare e senza poter accedere agli strumenti di cui disponiamo oggi. Su Internet si può trovare un vocabolario inglese-italiano usato nei commerci via mare alla fine del XIX secolo, che può essere utilissimo per districarsi in una descrizione circostanziata come erano quelle di questi autori. Se Conrad fa compiere una manovra a una barca, è quella precisa manovra, e non si può essere approssimativi nel tradurla. Se parla di brig, brigantino, cosa intende, è diverso dal brigantine, oppure è il brigantino a palo, quello che in inglese è chiamato barque?

Quando, nel romanzo Il salvataggio, uscito lo scorso anno per Nutrimenti nella mia traduzione, ho dovuto mettere in italiano la descrizione delle coste in cui naufraga lo yacht americano, episodio chiave dell’opera, ho potuto trovare attraverso Google Maps l’esatto luogo in cui Conrad, che navigò a lungo in quelle acque, ha collocato la scena. E facendolo, aprendo una mappa satellitare, ho potuto vedere come sono articolate tali coste, come i fiumi s’intersecano con i mari, in cosa consistesse realmente, quindi, un insediamento dell’epoca.

In un’opera di Stevenson che sto finendo di tradurre in questi giorni, in uscita in autunno, e in cui lo scrittore, nato a Edimburgo, usa spesso nei dialoghi il gaelico scozzese, rendendo veramente ostica la loro comprensione, a un certo punto il protagonista afferra lo zio by the skirt. In precedenti traduzioni è stato scritto che lo prende per la camicia, senza perdere comunque il realismo della scena, ma il termine skirt va invece tradotto con gonna, o gonnellino, e in scozzese indica una parte del kilt, il tipico abbigliamento locale. Se non si fa indossare a quell’uomo quel preciso costume, peraltro molto comune nell’Ottocento, si priva il lettore di un’immagine non secondaria, e si tradisce in modo evidente il testo di Stevenson.

Diverso è il discorso quando si vuole rispettare lo stile dell’autore, e qui ritorno all’intraducibilità della poesia. I periodi troppo involuti di Conrad, i suoi micidiali incisi, i continui punto e virgola di Stevenson, renderebbero questi testi in italiano, appassionanti per il loro contenuto, noiosi. Il lettore rischierebbe di perdervisi dentro, e allora la scelta va fatta: una traduzione brutta e fedele, o bella e infedele? Non ho dubbi, per quanto mi riguarda scelgo la seconda possibilità, a costo di tradire l’originale. Alcuni paragrafi di Conrad occupano una pagina intera, magari senza un punto: se non li si spezza si rischia di far chiudere il libro al lettore. E anche nell’affrontare i termini di Stevenson in gaelico, la mia scelta è stata netta, subito dopo averli decifrati: cosa c’era da fare, mettere al suo posto un dialetto italiano, e quale? Inventarsi una nuova lingua? Ho preferito rinunciare a qualsiasi invenzione, concentrandomi sulla storia, perché era la cosa saliente: o mettevo a rischio la potenza della narrazione per inseguire lo stile (peraltro il mio stile, non quello dell’autore, nella piena libertà dell’interpretazione), oppure facevo a meno di qualcosa che non avrei mai potuto riprodurre. E spero che il lettore me ne sarà riconoscente.

A proposito, Edmund Wilson non usò alcuna parafrasi, nei confronti di Nabokov, e dopo aver portato un’infinità di dati a favore della propria critica definì “terribile” la traduzione dell’Onegin, e giudicò l’interpretazione che ne fece l’autore di Lolita il suo “fiasco più grave”. Dispute tra letterati, forse, pignolerie tra monomaniaci, e chissà chi dei due avesse ragione, magari entrambi. È certo però che il servizio al lettore, e di conseguenza alla cultura, non permette alcun tipo di scappatoia di comodo, solo scelte, circostanziate, e assunzione di responsabilità.