Quando avevo diciotto anni, l’epoca in cui sbocciavano i miei amori letterari più grandi e duraturi, pensavo a Truman Capote in vestaglia di seta, inondato di una tiepida luce dorata, intento a scrivere tra guanciali nella confortevolissima suite di qualche grand hotel newyorkese. Non lavorava, nella mia immaginazione, ma si limitava a lasciar fluire sulla carta quella sua prosa musicale, elegante e sontuosa, fiabesca e inquietante e sincera, senza fatica, generosamente, come un regalo di Natale. Poi l’ho conosciuto meglio e ho capito che le cose stavano molto diversamente. Come dice un bravo scrittore che conosco citando uno dei suoi maestri, si scrive “coi piedi”: si consumano le suole, si va nei posti. E si suda e si fatica, altro che glamour, e probabilmente si avrebbe voglia di fare tutt’altro, ma scrivere si deve.
Sul finire degli anni Cinquanta, Truman Capote elabora e focalizza sempre meglio una sua teoria sul romanzo della realtà, quello che chiama con felice invenzione «non fiction novel». La tecnica del giornalista e quella del romanziere si muovono – o si muovevano – in due sensi opposti. La prima è orizzontale: si attiene ai fatti, ha in mente il lettore di giornale a cui si rivolge, vive di quotidianità. La seconda è verticale: scava nella psicologia dei personaggi, interpreta, mette a nudo i meccanismi che conducono ai fatti. Applicare questa seconda tecnica a un episodio di cronaca non avrebbe dunque un impatto doppiamente forte?
Perciò Capote dedica molta attenzione alla cronaca: dirà di aver trascorso tre anni a leggere minutamente ogni giorno i giornali per trovare un fatto che gli permettesse di sperimentare la validità artistica della sua teoria. Il punto di arrivo di questa ricerca è un clamoroso episodio di cronaca nera: Herb Clutter, la moglie Bonnie, la figlia Nancy (16 anni) e il figlio Kenyon (15 anni) vengono uccisi senza motivo apparente nella loro casa, una fattoria a Holcomb nei pressi di Garden City, Kansas.
Comincia qui per lo scrittore un lavoro lungo ed estenuante sul piano fisico, mentale ed emotivo, che lo porterà alla realizzazione del suo unico romanzo corposo e articolato (come racconta il bel film Capote del 2005 con Philip Seymour Hoffman, basato sulla biografia Capote di Gerald Clarke – altro libro da me amatissimo). Diventa giornalista e investigatore, si reca sul luogo del delitto e dopo la cattura dei due assassini ha con entrambi lunghi colloqui per ricostruire minutamente gli eventi. Ma quando decide di andare a Holcomb per indagare e raccogliere materiale, l’identità degli assassini è ancora sconosciuta e, per quanto ne sa, potrebbe rimanere tale. Parlando con Alvin Dewey del Kansas Bureau of Investigation, responsabile delle indagini, lo scrittore chiarisce il proprio intento: raccontare una storia della famiglia Clutter fino al momento della strage, che il caso venga risolto oppure no. Raccoglie lettere, estratti di diari, dichiarazioni, interviste. Conversando con la gente del posto, non prende mai appunti per non condizionare i suoi interlocutori e ricavarne la massima sincerità.
Dick Hickock e Perry Smith vengono arrestati alla fine di dicembre del 1959, quando TC ha già pronta la gran parte del materiale per il racconto relativamente breve che aveva in mente. Ma ora la prospettiva è mutata: c’è da mettere mano all’altra metà dell’opera, ricostruire la vicenda e l’ambiente dei carnefici con la stessa cura riservata alle vittime.
Il risultato di sei anni di lavoro si chiamerà In Cold Blood: a true account of a multiple murder and its consequences. Un “sangue freddo” che appartiene sì agli assassini della povera famiglia, ma anche a quelli di stato, quelli legali, che impiccano i colpevoli.
Fin dal principio le due storie sono raccontate in parallelo. Rapidi cambi di scena: i due assassini che viaggiano alla volta del colpo grosso (un presunto tesoro di almeno diecimila dollari rinchiuso nella cassaforte in casa delle vittime, che invece non troveranno), la famiglia Clutter dedita alle occupazioni quotidiane. Il lettore sa da subito che il delitto sta per consumarsi: si chiede quindi non cosa avverrà ma come. Né Perry e Dick né i Clutter sono trattati come semplice oggetto di un reportage, di tutti conosciamo aspetto, abitudini, gusti, trascorsi, amicizie. Amici e conoscenti dei Clutter sono improvvisamente consapevoli di trovarsi in balia di un destino incontrollabile: sono state colpite quattro persone integre e senza colpa agli occhi della comunità. il pericolo riguarda tutti.
Gli assassini sono, anche fisicamente, stravaganti, sproporzionati, in qualche modo deformi, e le fratture sui loro corpi sembrano essere figura di fratture dell’anima, di crepe che si spalancano al centro della normalità.
Capote presenta, senza commentarli, alcuni documenti che riguardano Perry (il suo preferito dei due): un lungo resoconto sulla sua vita, scritto dal padre; una lettera di sua sorella e una di un suo compagno di prigionia. Quella che ne emerge è una personalità complessa, introversa, afflitta da una profonda solitudine. Ed è un uomo che si diletta a leggere, comporre canzoni, disegnare. È come me, sembra dire Truman. È quello che sarei potuto diventare, con un pizzico di sfortuna in più. C’è forse un fondo di ribrezzo in questo senso di fratellanza con il male: facciamo fatica ad accettarlo, ci turba e ci destabilizza. Ma che lo leggeremmo a fare, altrimenti? Nelle creature vive che conosciamo è impossibile non specchiarsi almeno un po’: non è facile fare arrosto un coniglio che abbiamo accarezzato, o condannare a morte un assassino che ci ha trattato da amici.
Sarà infine Perry, dopo l’arresto e la confessione, a raccontare nei dettagli, in un lungo monologo, la notte del delitto. “Era come se io non c’entrassi, come se stessi leggendo una storia.” E ancora: “Chissà perché l’ho fatto. Non mi avevano mai fatto nulla di male. Come certa altra gente. Certa gente che mi ha messo in croce per tutta la vita. Forse è solo che i Clutter erano quelli che dovevano pagare per tutti.”
Capote non indugia sulla morte di Perry e Dick (è il 14 aprile 1965, e lui stesso è presente, sconvolto). L’esecuzione della condanna viene descritta solo attraverso gli occhi chiusi del detective Dewey: “…fino a quando sentì il colpo secco che indica un collo spezzato dalla corda”.
E poi l’ultima pagina: la musica del finale mi ricorda un po’ quello de I morti di Joyce, anche se qui c’è un grande cielo azzurro al posto della neve. La crudezza della storia si stempera in una malinconia che allontana i nudi fatti sullo sfondo e ci lascia con grandi quesiti senza risposta che nulla hanno a che fare con la giustizia eseguita dalla legge, e tutto con il senso – o il non-senso – dell’esistere e del morire.
Un resoconto assolutamente autentico con l’impatto emotivo proprio di un romanzo: questo l’intento dichiarato dello scrittore. Parafrasando Hemingway, diremo che la letteratura, a differenza del giornalismo, ha o dovrebbe avere la capacità di rendere duratura la pregnanza dei fatti: andare oltre l’attualità, conservare i propri significati a prescindere da tempo e luogo, dall’«here and now». A questi carnefici e queste vittime, che altrimenti sarebbero stati presto dimenticati dalle cronache, è stata regalata l’immortalità della letteratura. Forse Capote non ha inventato niente di nuovo; Norman Mailer (va be’, sappiamo quanto i due si amassero…) ha definito questo libro “un fallimento dell’immaginazione”. Ma che importa, visto che Capote è unico, e A sangue freddo resta un libro unico. E un forte NO alla pena di morte, anche se i due colpevoli non potrebbero essere più colpevoli; anzi, forse proprio per questo. È solo un caso se la loro colpa non è la nostra. Ora che li abbiamo conosciuti, in cuor nostro vogliamo perdonarli e vogliamo perdonarci, e piangere le stesse lacrime per tutti gli uccisi.
Dopo A sangue freddo, Truman Capote non riuscirà più a scrivere un libro tutto intero. Questo, forse, non è un caso.
(Truman Capote, A sangue freddo, Garzanti, trad. Mariapaola Ricci Dèttore)
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