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Lovecraft è lo scrittore di letteratura d’orrore più citato e imitato al mondo e dalle sue creazioni si è generata una nicchia a sé, chiamata con un termine da lui stesso codificato come “weird”.

Tra i suoi estimatori, ma soprattutto tra chi si è ispirato ed è stato influenzato dalle sue creazioni, ci sono alcuni dei più popolari scrittori del secondo Novecento americano, come Stephen King e Robert Bloch, l’autore di Psycho, ma anche Bret Easton Ellis, Joe Lansdale o Ray Bradbury.

E poi ci sono videogiochi, film, gruppi musicali, e altri autori, tra cui lo stesso Bloch, che hanno continuato a tramandare l’immaginario lovecraftiano per il semplice desiderio di vederlo sopravvivere e rigenerarsi.

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Tutto questo però non lo poteva sospettare lui, Lovecraft, quando nel 1931 portò a termine La maschera di Innsmouth, considerato oggi uno dei suoi capolavori, mentre scriveva a un amico di “aver completato un nuovo racconto… dopo aver praticamente abbandonato l’idea di vendere i miei racconti professionalmente”.

Lovecraft viveva a Providence, era in ristrettezze economiche, stava aumentando il suo disagio e il suo distacco nei confronti del mondo e aveva appena ricevuto l’ennesimo rifiuto per quello che considerava al momento la sua opera migliore, At the mountains of madness (Le montagne della follia).

Era deluso e amareggiato, si può dire anzi spaventato, terrorizzato dal mondo.

Eppure queste delusioni e queste difficoltà, che lo porteranno a quel definitivo isolamento ormai diventato leggenda, gli permetteranno di orchestrare compiutamente il “grandioso congegno” che costituiva il suo universo estetico e letterario. Una reclusione necessaria, possiamo dire una sofferenza fondatrice.

In questi anni trova compiutezza il ciclo del mito di Cthulhu, che è un vero proprio mondo a sé, un universo dentro – o meglio sopra – il mondo. Un universo che si autocita, si auto-genera di racconto in racconto, attraverso i suoi luoghi, i suoi mostri, le sue leggende e i suoi linguaggi, fino a diventare così complesso da rappresentare un’alternativa alla realtà, o qualcosa che vive al di là di essa.

La maschera di Innsmouth è una variazione al mito di Cthulhu, in cui Lovecraft riprende un suo incubo ricorrente, la metamorfosi dalla forma umana, ed è considerato uno dei suoi racconti più terrificanti. È ambientato in un New England immaginario, luogo di partenza di molti suoi incubi letterari, e in particolare nell’antica cittadina portuale di Innsmouth, Massachusetts, misteriosa località all’apparenza abbandonata, centro di oscuri rituali pagani. Una variazione al protagonista-tipo di Lovecraft, che non assomiglia ad altri che a Lovecraft stesso, ci finisce per caso, e lì incomincia la spaventosa avventura che lo porterà a rischiare la vita, ma soprattutto la ragione – una costante che rivela l’insopportabilità soprattutto psichica degli incubi lovecraftiani.

Prima della Maschera di Innsmouth ho tradotto e curato una raccolta di suoi saggi critici (I bambini avranno sempre paura del buio, Nuova Editrice Berti, 2015), che è stato in un certo senso il banco di prova alla scrittura di Lovecraft e mi ha dato la “spavalderia” necessaria per affrontare la narrativa.

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Quando con Cecilia Mutti, direttrice editoriale della Nuova Editrice Berti, si è pensato di colorare di nero la collana delle “Matite”, abbiamo subito pensato a Lovecraft e particolarmente alla Maschera, il suo racconto che ha lasciato l’impressione più prolungata sulla mia fantasia.

È un testo che ha già avuto ottime e filologiche edizioni – su tutte cito quelle tradotte e curate da Gianni Pilo e Giuseppe Lippi, tra i primi studiosi italiani di Lovecraft, ma che poteva rivivere ancora attraverso una nuova traduzione. L’ho affrontato con molta riverenza, quasi con paura, ivi compresa la paura letterale che mi ha preso a volte mentre capoverso per capoverso dipanavo l’architettura lovecraftiana.

Tradurre Lovecraft non è facile, per capire il suo linguaggio occorre conoscere il suo ampissimo universo, i suoi riferimenti interni, le sue creature e le leggende le cui caratteristiche ritornano di testo in testo, inclusa la Maschera.

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Occorre comprendere e anche amare i suoi tic linguistici, che sono un marchio di fabbrica della sua produzione. Quel ripetersi ritmico di aggettivi come obbrobrioso, disgustoso, orrido, orrorifico, nauseabondo, e quel linguaggio aulico, già ampiamente démodé al suo tempo, che ha spesso fatto storcere il naso alla critica, ma che è amatissimo dai suoi lettori. Giunti al termine della Maschera e iniziata la revisione, ad esempio, non è stato sempre facile far digerire all’editor i tic linguistici, le morbosità grafomani di Lovecraft, che io ci tenevo tantissimo a mantenere: in particolare, ricordo che proprio non piaceva “nonagenario” al posto di “novantenne”…

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Ora la collana virata in nero proseguirà con altri titoli volti a riscoprire quei capolavori della letteratura soprannaturale pubblicati tra fine Ottocento e inizio Novecento.  È in preparazione, con mia traduzione, L’isola del Dottor Moreau di Herbert George Wells, un altro caposaldo del genere horror, e poi uscirà un testo di un autore molto amato da Lovecraft, citato anche nel suo L’orrore soprannaturale in letteratura: Il terrore di Arthur Machen, che in un certo senso anticipa certe psicosi hitchockiane (e di Daphne du Maurier) sul rischio di una ribellione animale, divenute celeberrime al cinema.

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Silvia Lumaca traduce dall’inglese e dal francese. Per Nuova Editrice Berti ha tradotto Un principe della Bohème di Honoré de Balzac, I bambini avranno sempre paura del buio e La maschera di Innsmouth di H.P. Lovecraft; sono in preparazione L’isola del dottor Moreau di H.G. Wells e Il terrore di Arthur Machen.

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