19° International Jazz Festival of Punta del Este |

Cinquanta album per un centenario: anche l’Europa festeggia il secolo delle registrazioni fonografiche riguardanti i ritmi sincopati proveniente dal Nuovo Mondo: non si sa ancora con esattezza- a differenza di quanto accaduto negli Stati Uniti – quale sia il primo disco jazz europeo; certo è che fin da subito il Vecchio Continente guarda con interesse al sound afroamericano, a cominciare da alcuni grandi compositori (in particolare russi e tedeschi) i quali inseriscono stilemi jazz nelle loro partiture. Ma già prima della Seconda Guerra Mondiale esistono esempi di jazz autoctono (lo swing gitan) di autentica originalità, benché lo sviluppo maggiore di un jazz europeo in senso qualitativo (ma anche per numero di album pubblicati) avverrà soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Ecco quindi una breve guida ai 50 CD che meglio rappresentano un’identità jazzistica europea dalle origini a oggi.

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1926

Ernst Krenek, Jonny Spielt Auf (Decca)

La jazz-opera risulta un teatro emozionante in un modo familiare per chi oggi segue ad esempio i musical di Andrew Lloyd Webber. Dopo un vuoto di oltre sessant’anni, lo sdoganamento definitivo avviene nel 1993 quando l’etichetta inglese Decca registra per la collana ‘Musica degenerata’ una nuova versione del melodramma sincopato grazie a un cast tutto tedesco comprende i cantanti Alessandra Marc, Marita Posselt, Heinz Kruse, Michael Kraus, Krister St. Hill, coro e orchestra da Lipsia ovvero Leipzig Opernchor e Gewandhausorchester Leipzig, sotto la direzione musicale di Lothar Zagrosek.

1928

Kurt Weill & Bertolt Brecht, Die Dreigroschenoper. L’opera da tre soldi (CBS)

Il musicista e il drammaturgo tedeschi usano l’intrattenimento per lanciare messaggi politici complessi, mescolando dixieland e musical di intrattenimento, come pure l’opera lirica e sacrale. Non a caso Lied der Seeräuber, Jenny, Morität von Mecky Messer e Wovon lebt der Mensch sono da tempo hit, evergreen, cover, persino standard del jazz moderno, facenti parte di quel ristretto numero di melodie che ancor oggi si canticchiano dappertutto, benché siano addirittura ventisei le song presenti. L’exploit de L’Opera da tre soldi è quindi merito anche delle felici invenzioni musicali che vanno a completare il discorso drammaturgico mediante sonorità rarefatte e corrosive che ben si adattano alle funzioni stranianti di ironici commenti ai testi letterari. Il successo musicale viene confermato anche se estrapolato dagli ambiti teatrali e inserito in quello più immediato e ‘superficiale’ della folk music e dell’hot jazz ai quali Weill intende razionalmente collegarsi. La ricchezza artistica di temi a volte stridenti, vagamente atonali oppure quasi dodecafonici che spesso vengono accostati a motivetti perfettamente godibili, rendono i song di Weill così popolari da essere fin da subito proposti nel cabaret o in concerto da orchestrine leggere o da autentiche jazz band, dunque anche fuori dal contesto originario. Le versioni discografiche de L’opera da tre soldi non sono abbondanti e forse la migliore – in quanto supervisionata dalla cantante/attrice Lotte Lenja compagna e collaboratrice dello stesso Brecht – resta quella registrata l’11 novembre 1958 a due anni dalla morte del drammaturgo al Afifo Studio (Tempelhof, Berlino) sotto la direzione musicale di Wilhelm Brückner-Rüggeberg.

 

1934

Dmitri Shostakovic, Jazz Suite n.1 (RCA) 1934

Il grande compositore sovietico non resiste alle lusinghe del jazz che approda in Russia attorno al 1922, riscuotendo immediati successi. Tuttavia il lavoro di Shostakovich è un abile compromesso tra partitura classica e suggestioni leggere persino circensi. Come registrazione, per la Jazz Suite n. 1, va segnalato infine il CD Shostakovich (BMG Classic, 1996) con il bollino RCA Victor Red Seal comprendente nell’ordine anche Ballet Suite n.1 (1950), Ballet Suite n. 2 (1952) e la versione ‘errata’ della Jazz Suite n. 2, il tutto sotto la direzione di Dmitri Kitaenko per la Radio-Sinfonie-Orchester Frankfurt. Alla fine è jazz o non è jazz? La risposta è che è comunque un disco utile a capire tante cose (inerenti il jazz, la Russia, il Novecento, i rapporti con la musica colta).

 

1934-1938

Quintette du Hot Club de France, Special Quintette A Cordes Du Hot Club De France Volume 1 (Decca)

Nel cd si trova un nutrito campionario del repertorio che all’epoca Django e compagni realizzano in studio nel giro di tre anni e propongono dal vivo nei club della Rive Gauche durante lo stesso periodo: a parte qualche bizzarria (come un pezzo ricavato da Listz), ci sono le loro fascinose composizioni accanto a jazz standard famosi e a temi risalenti all’epoca hot vestiti dalle azzeccate parafrasi del quintetto, tra le migliori in quanto a brillantezza e genialità sia nel lavoro di gruppi sia nelle parti degli assolo distribuite ovviamente tra Django e Stéphane. Ars Ciò che rende unica, originale, appetitoso, interessantissimo lo Special Quintette A Cordes Du Hot Club De France Volume 1 è la lucida musicalità avvertibile in ogni singola performance: si tratta di uno swing gitan entusiasta, comunicativo e irruente che si appiglia ovviamente sula personalità stupefacente del chitarrista – elemento in tutti i sensi trainante di una formazione che in tre anni ha pochi cambi in fondo secondari – la cui tecnica strumentale sposata a un’inesauribile artisticità trovano perfetta rispondenza nel’agile elegante violino di Grappelli.

 

1935-1940

Gorni Kramer, Jazz In Italy In The 30s And 40s (Riviera Jazz Records)

In questa antologia di ben ventisei brani spicca su tutti, per fama e originalità, Crapa Pelada, ma dopo la prima versione di questo hit d’epoca, Gorni vuole ripeterne il successo pubblicando tra il 1937 e il 1938 Tulilem Blem Blum e Teresina ven de bas, entrambi cantati in dialetto milanese e arricchiti con parti scat di Romeo Alvaro e dello stesso Kramer e con due assolo eccellenti rispettivamente alla fisarmonica e alla tromba. Ma il disco comprende anche pagine interessanti in cui tutti si tutti si esibiscono in assolo oppure un classico dall’hot jazz After You’ve Gone – edito però nel 78 giri con l’autarchico titolo italiano Dopo l’addio – ottimamente eseguito dal fisarmonicista con la sola sezione ritmica. Si riascolta invece dopo tanti anni La canzone della commessa facente parte delle incisioni effettuate durante l’ingaggio nel milanese Embassy Club: al pianoforte stavolta c’è Ezio Levi, storicamente il primo critico jazz italiano e autore, assieme al paroliere Giancarlo Testoni del primo libro sul jazz in Italia (Introduzione alla vera musica di Jazz del 1938). Alla fine dunque Jazz In Italy In The 30s And 40s,va gustato tutto a cominciare dagli standard americani celeberrimi, ma tradotti con buffi titoli – Bimbo adorato, Carovana,  Che bel tipo, Con l’amore mi puoi scaldare, Dopo l’addio, Polvere di stelle, Sussurro, Un po’ di simpatia, Vado in centro, Voi – per godersi altresì Kramer con l’Orchestra Circolo Ambasciata e con The Three Niggers Of Brodway, nonché assieme a I Suoi Solisti, via via Romero Alvaro, Piero Cottiglieri, Cosimo Di Ceglie, Nino Impallomeni, Aldo Rossi, Luciano Zuccheri.

1941-1943

Pippo Starnazza, Quintetto del Delirio (Riviera Jazz Records)

Se si vogliono conoscere le radici del rock demenziale (lo sa bene Freak Antoni), occorre assolutamente risentire le 26 tracce incise perlopiù tra il giugno 1941 e il marzo ’43 a Milano dal vocalist e batterista Luigi Radaelli, che prende il buffo soprannome per i frequenti squà squà improvvasti durante i canti scat: con il suo quintetto (in realtà una vera orchestra) proponeva infatti autentico jazz con testi in italiano tra non-sense e surrealismo che, paradossalmente, vennero censurati in radio non per americanismo, ma perché troppo ‘deliranti’. Tra le rime e gli acuti di una Marchesa sinforosa o un Giovanotto matto si ascoltano pure ottimi assolo dei vari Almangano, Camera, Di Ceglie, Cottiglieri, Majoli.

1946

Igor Stravinsky, Ebony Concerto (CBS)

L’Ebony Concerto in quattro movimenti – Allegro moderato. Andante. Moderato. Con moto – è scritto per clarinetto solo e per una jazz band consistente in due sax contralti, due sax tenori, un sax baritono, un clarinetto basso, un corno, cinque trombe, tre tromboni, pianoforte, arpa, chitarra, contrabbasso, tom-tom, piatti e tamburi; tromba e arpa vengono aggiunte al normale assesto della big band di Woody Herman. Il 19 agosto 1946, il giorno dopo l’esecuzione del pezzo su “Columbia Workshop” di una trasmissione nazionale, Woody Herman (a cui l’opera è dedicata) con Stravinsky registra il concerto a Hollywood, California. Alla fine del 1950 Woody ne fa un secondo, con la registrazione stereo nel Belock Studio al Bayside di New York, definendolo “un pezzo molto delicato e molto triste”. Il 27 aprile 1965, Stravinskij registrerà una nuova versione dell’Ebony Concerto per la CBS con un altro grande clarinettista di epoca swing Benny Goodman e con la Columbia Jazz Ensemble, ma oggi per riassaporare l’originale, c’è la versione su CD a nome Woody Herman Orchestra comprendente altresì Symphony In Three Movements e Petrouchka con la London Symphony Orchestra diretta da Sir Eugene Goossens.

 

1949-1958

Sidney Bechet, In Switzerland / En Suisse (United Music Foundation)

Resta quella di Bechet, dal 1949 al 1959 – qui documentata con le tournée del 1949, 1950, 1951, 1953, 1954, 1954, 1958 – una testimonianza profondamente europea: le band francesi e svizzere fanno del loro meglio non solo nell’assecondare l’estro di Bechet, ma anche per garantire (o garantirsi) un avvicinamento all’hot jazz tra filologia e creatività, ripetendo all’infinito (tre-quattro volte nei quattro cd) gli ultra classici di un repertorio volutamente ristretto, per esaltarne la popolarità anche extra-jazzistica, come nel caso di Saint Louis Blues, Muskrat Ramblers, Summertime, Royal Garden Blues, Basin Street Blues, ogni volta uguali e al contempo diversi da sera a sera, come vuole il canone del jazz, che persino nell’austera Confederazione Elvetica trova un’accoglienza calorosissima, preludendo forse a ciò che, rispettivamente venti e trent’anni dopo, saranno Montreux e Ascona, per il jazz popolare e per quello di tradizione. Il leader al clarinetto (o al sax soprano) è di volta in volta accompagnato dall’Orchestre de Piere Braslavsky, da Les Rhytmes de Radio-Genève, da Claude Luter et son orchestre, da Charles Lewis al pianoforte, dall’Orchestre de André Réwéliotty e dall’Orchestre Claude Aubert, tutte francesi o svizzere.

 

1951-1954

Lars Gullin, Danny’s Dream (Metronome)

Ventotto brani incisi in quartetto, quintetto, ottetto, lungo tre anni, con nove diverse formazioni, tra cui spiccano i nomi di Rolf Berg (chitarra), Arne Domnérus (sax alto), Bengt Hallberg (pianoforte), Carl Henrik Norin (sax tenore), Ake Persson (trombone). I pezzi in Danny’s Dream sono quasi tutti original scritti dallo stesso Lars che mostra una vena compositiva briosa, a proprio agio però nelle ballad e nei mid-tempo: ma la scioltezza tematica e lo scavo introspettivo sono inoltre da collegare al generale imprinting a metà strada – come quasi tutto il jazz svedese dei quegli anni – fra il bebop e il cool jazz. Riascoltando tutte queste incisioni, forse oggi si resta più colpiti, in brani come ad esempio la stessa title track per il tema, Merlin per l’assolo, Brazil per la stravaganza, That’s It per il lirismo Igloo per la svedesità, per gli argentei equilibrismi sui due-tre standard, restando impressionati soprattutto dal Gullin baritonista dalla voce inconfondibile, dal fraseggio fluido, dal colore intenso che anticipa addirittura la meteora del geniale Serge Chaloff. Certo, Lars è debitore, stilisticamente parlando, di quanto avviene subito dopo il bebop, dal Miles David di The Birth Of The Cool al pianoless quartet di Gerry Mulligan (con cui condivide pure lo strumento), ma il suono fresco dello svedese, tra il 1951 è il 1954, resta qualcosa di diverso da tutti gli altri. Per tale originalità la carriera di Gullin ha una svolta repentina proprio nel 1954, quando la rivista americana ‘Downbeat’ lo elegge nuovo miglior talento internazionale.

 

1954-1958

Boris Vian, Le deserteur (Philips)

Dovendo selezionare un disco esemplare per questo genialissimo artista poliedrico, la scelta ricade sull’LP postumo della Philips (1965) comunemente noto quale Le déserteur, perché questa e altre tre canzoni sono evidenziate in copertina sotto il nome dell’autore; in realtà in questa riedizione del 33 giri a 25 cm di Chansons possibile ou impossibles (1956) il titolo non esiste, ma vengono aggiunti quattro brani in più. Va subito detto che si tratta di un disco di canzoni sia pur tutte arrangiate con gusto jazzy: Vian ne scrive ben 535 (comprese le poesie cantate) in un lasso di tempo assai ristretto, circa quattro anni dal 1954 al 1958, ma nel disco ne vengono selezionate solo quattordici tra cui la title track, Je bois, Fais-moi mal Johnny, Just le temps de vivre, Je suis snob.

 

1955-1959

Fred Buscaglione, 16 successi di Fred Buscaglione (Cetra)

In quell’Italietta del pre-boom non ancora invasa dal giovanilismo rockettaro, il cantante torinese impone il suo jazz da night con un vigoroso personaggio a metà fra la parodia e il cabaret, quasi un concretato surreale di tutte le mitologie americane classiche, il duro, il playboy, il cinema, il fumetto, il whiskey, il blues, il dixieland: fin dall’aspetto fisico sembra imitare i divi maschili hollywoodiani in un curioso incrocio fra Clark Gable e Douglas Fairbacks, mentre nella voce e nel canto è rigorosamente ‘negro’ con un’emissione roca, bassa, profonda e un senso incredibile del ritmo e dello swing. Anche le scelte musicali sono rispettose di questo stile di vita: le musiche sovente composte da Buscaglione rieccheggiano il jazz classico e tradizionale con una poderosa e allegra sezione di fiati che quasi anticipa il rhythm’n’blues; le storie che racconta, a livello di testi (scritti per lo più da Leo Chiosso) sono invece incentrate sul remake del fuorilegge e del dongiovanni: un bullo dal cuore tenero, anche qui in largo anticipo sulle tendenze demenziali molto più banalizzanti e assai meno raffinate. Eri piccola così, Che bambola!, Il dritto di Chicago, Love in Portofino, Guarda che luna, Whisky facile, Che notte, Teresa non sparare, i brani più jazz di una fortunatissima raccolta postuma (1960).

 

1957

Giorgio Gaslini, Tempo e relazione (Soul Note)

Questo capolavoro in origine è un vinile pubblicato da Giorgio Gaslini nel 1957 come E.P. (e ristampato in CD assieme alle prime incisioni del pianista e a tutta la jazz music da lui registrata, tra il 1948 e il 1964,  prima del successo cosmopolita di Nuovi sentimenti – New Feelings) e resta un documento fondamentale nella storia dei rapporti tra jazz e musica classica e forse, in assoluto, il primo esempio, in ordine di tempo, di ricerca consapevole di un’identità jazzistica europea che non tradisca il sound afroamericano, senza però rifarsi necessariamente ai modelli e alle mode più superficiali di quest’ultimo. In Tempo e relazione infatti non è il compositore ad avvicinarsi al jazz, bensì un musicista totale (come andrà a definirsi anni dopo lo stesso Gaslini) che, conoscendo a perfezione le pratiche di quasi tutti i linguaggi sonori contemporanei, tenta una fusione, un connubio, uno sposalizio tra jazz e dodecafonia: e l’ottetto del pianista gioca infatti sui delicati equilibri fra parti scritte e improvvisate, regole e sovversioni, anche grazie all’uso sapiente dei colori e delle sfumature degli strumenti impiegati nel jazz ma indirizzati verso i timbri e le (dis)-armonie dell’avanguardia colta, quasi si tratti di un messaggio astratto indirizzato alle tante contemporaneità. Tempo e relazione – nel 1997 viene ripubblicata sui doppio CD dall’italiana Soul Note assieme ad altre musiche con il titolo Giorgio Gaslini L’integrale N. 1 (1948-53) N. 2 (1964).

 

1959

Basso Valdambrini Octet, New Sounds From Italy (Verve)

Il disco, pur oggettivamente vivendo di riflesso di echi e invenzioni dei solisti d’Oltreoceano, persegue in maniera altrettanto onesta, felice, veritiera, il proprio ideale di ragione estetica e disciplina inventiva, cedendo solo in parte alle lusinghe di illustri predecessori come i coolster o i West Coast Men. Tuttavia i californiani d’Italia, per intuito più di Oscar Valdambrini (la mente artistica) che di Gianni Basso (il braccio jazziale), si affidano a tre arrangiatori europei, già forse alla ricerca dell’identità che fa da filo conduttore a questo libro: il primo  risulta il pianista e bandleader svizzero George Gruntz, il secondo è l’eclettico compositore Piero Umiliani, il terzo infine resta lo svedese Lars Gullin; si tratta di scelte felicissime che sfociano a loro volta in azzeccati trattamenti di standard e original, in maniere talvolta laboriose o sovvrabbondanti, ma per fortuna (anzi, per consapevolezza) estranee a rimasticature o convenzioni. Ma la bellezza e la riuscita di New Sounds From Italy non si limitano al ruolo (pur decisivo) degli arrangiatori medesimi, perché sono altresì da rapportare all’obiettivo maturità conseguita dai jazzmen tricolori sia presenti a livello solistico sia impiegati quali comprimari: in particolare Masetti e ovviamente Basso e Valdambrini nel primo caso; Donadio e Pezzotta nel secondo, mentre gli esperti Sellani, Cerri e l’americano Pratt fanno da trait d’union con una ritmica tranquilla ma efficace.

 

1960

Joe Harriott Quintet, Free Form (Gott Disc)

Free Form è già il prefigurare la new thing o free jazz dell’intero decennio. E tutto questo avviene senza che Harriott abbia il minimo sentore che, al di là dell’Atlantico, lavora a un disco simile, con altra fortuna, tale Ornette Coleman, di cui ha potuto ascoltare solo The Shape Of Jazz To Come dell’anno prima. Tra lo storico Free Jazz colemaniano per double quartet e Free Form in quintetto (Shake Keane, Pat Smythe, Coleridge Goode, Phil Seaman, oltre il leader) le analogie sono minime: al di là di sperimentalismo, astrazione, atonalità, il free di Harriott è più vicino al recupero proprio della forma, non solo evidenziata dalle strutture di otto brani (contro la sola lunga performance ornettiana), ma da un accentuato senso melodico e da un intenso lirismo di ascendenza parkeriana, sia pur stravolto da brevi assolo improvvisi, cambi di tempo subitanei, spezzettamento del fraseggio repentino. Anziché perpetuare la poetica free, Harriott subito dopo Abstract (1961) si rivolge all’Oriente: e Indo-Suite (1966) o Indo-Jazz Fusion I e II (’67-’68) anticipano già tutto: Coltrane, i Beatles, la Mahavisnhu Orchestra, il bollywood sound, la world music…

 

1964

Monica Zetterlung & Bill Evans, Waltz For Debby (Universal)

Definito dalla critica statunitense una “stranezza nel catalogo di Bill Evans”, l’album si guadagna parimenti la fiducia e l’apprezzamento di molti altri jazzologi come lo giudicano come una partita “apparentemente perfetta”. In effetti la proverbiale liricità del pianista si adatta magnificamente alla sofisticata freschezza della bellissima vocalist svedese Monica Zetterlung. C’è tuttavia distacco o freddezza nella registrazione, ma è arduo decifrarne la ragione, se sia colpa della tecnologia o se si tratti di una scelta esecutiva, quando i microfoni sono nel bel mezzo dei musicisti nello studio. A parte questo ‘inconveniente’ la selezione delle melodia e il decoro della session risultano molto belle anche nella scaletta, dall’apertura quasi classica su Come Rain Or Come Shine attraverso la ballata svedese con A Beautiful Rose o la struggente immedesimazione di Once Upon a Summertime, per rilassarsi nello spoglio finale notturno su On naten; ed è come se la Zetterlund canti con Evans da una vita, anziché concedersi questo solo album; da parte sua, il pianista è molto rilassato, consentendo ai testi delle canzoni di nutrirsi delle proprie riflessioni su semplici, ma eleganti armoni. La citata ‘svedese’ Monica Vals – forse il capolavoro del long playing –  è un’autentica delizia perché la voce della Zetterlund diventa un altro strumento, con assolo sopra il pianismo di Evans con una selezione mozzafiato di accordi stratificati.

1964

Rolling Stones, The Rolling Stones (Decca)

Il gruppo rende omaggio alle proprie influenze formative a cominciare da Jimmy Reed con Honest I Do, che rimane la loro unica cover del grande bluesman del Mississippi. C’è spazio pure al jazz con una versione rockeggiante tiratissima di Route 66, resa celebre da Nat King Cole, ma già modernizzata da Chuck Berry, del quale non può mancare un tributo: è Carol, inclusa poi nel definitivo canzoniere rollingstoniano. E, dulcis in fundo, un classico del r’n b quale Walking The Dog di Rufus Thomas viene a completare un disco utile, all’epoca, ad aprire inediti orizzonti per la musica inglese, giovanile, ribellistica.

 

1964

Jan Johansson, Jazz på Svenska (Megafon / Heptagon)

Dodici sono le originali versioni in chiave folk jazz di vecchie canzoni popolari svedesi in un album particolarissimo, molto ben accolto nella madre patria e con un impatto significativo sull’immediato e futuro sviluppo del jazz scandinavo o nordic jazz. Il pianista insomma all’inizio dei Sixties – in un momento in cui gli altri improvvisatori della scena svedese reiterano o imitano i modelli americani o comunque tentano di sviluppare un proprio percorso all’interno del free jazz – sembra invece attratto dalla musica della sua nativa Svezia. Convinto della bontà dell’assunto, dal 1962 al 1964 Johansson pubblica tre EP, che vengono poi riuniti in Jazz på Svenska. I brani selezionati appartengono a svariate tipologie, a cominciare da balli vivaci (Berg-Kristis Polka), per far qui di riferimento a musicisti leggendari come Höök Olle o Larshöga Jonke o a determinati luoghi (come Älvdalen o Utanmyra) o interi territori (la Svezia Medelpad). Il duo interpreta i brani con uno stile da musica da camera, mescolando il respiro di Bach alle sottigliezze di Grieg, senza mai venir meno alle aperture dell’improvvisazione tematica. Johansson suona con arcana leggiadria e al contempo con autorità incredibile; si ascoltino al proposito anche Gammal bröllopsmarsh, Leksands skänklåt o la stessa Gånglek från Älvdalen. Il pianista ha sempre la situazione sotto controllo dagli incipit decisi agli assolo quasi programmatici, rivelando uno stile innato di estrema gentilezza, benché all’apparenza un po’ svanito (forse dall’aplomb bluesy); Johansson inoltre swinga con un tocco di incredibile positiva autosufficienza, rimanendo nel linguaggio della semplicità (grazie agli scambi minore/maggiore talvolta evidenziati), aggiungendo ulteriore scorrevolezza nelle melodie amorevolmente  ornate. In tal senso Jazz på Svenska è un disco pienamente consapevole di come si debba trattare il folk nel jazz e viceversa.

 

1965

Krzyzstof Komeda, Astigmatic (Power Bros Records)

In questo capolavoro non solo del Polish Jazz e di tutto quello Oltrecortina, ma anche dell’intero sound contemporaneo il pianista polacco è alla testa di un quintetto talentuosissimo, con la front line locale e la sezione ritmica internazionale: da un lato infatti il biondo pianista all’epoca trentaquattrenne fiuta il talento dei giovani, anzitutto lancia al sax contralto un jazzman destinato a un roseo futuro artistico: Zbigniew Namysłowski, al tempo venticinquenne o giù di lì; non pago del ruolo di talent scout, convoca un’altra scoperta: alla tromba Tomasz Stańko, ancor più giovane e se possibile ancor più talentuoso, è già il fuoriclasse destinato a imporsi fuori dai patrii confini fino a diventare il jazzista cosmopolita per eccellenza. Dall’altro lato Komeda chiama da ‘fuori cortina’ lo svedese Rune Carlsson alla batteria il tedesco Günter Lenz al contrabbasso, rispettivamente di venticinque e ventisette anni.  Krzyzstof si conferma sia la mente sia il regista del gruppo e della situazione e in particolare attraverso la suite che dà il titolo all’album riesce a un’inventarsi un’opera fra le più febbrili dell’intera storia jazzistica con una maturità espressiva che risultato tanto più impressionante quanto più riferita alla verde età dei ‘primattori’ medesimi.

 

1966

John Mayall, Blues Breakers With Eric Clapton (Decca)

Favolosa è la sequenza di quest’album che alterna tre brani firmati dal leader, uno Clapton e a Mayall e gli altri otto dai più beni nomi della storia musicale afroamericana da Ray Charles a Robert Johnson, da Otis Rush a Bill Dixon, da Mose Allison a L.C. Frazier, da Little Walter allo stesso Freddie King ovviamente. Il lato A propone infatti All Your Love,Hideaway, Little Girl, Another Man, Double Crossing Time, What’d I Say. Il lato B riguarda Key to Love, Parchman Farm, Have You Heard, Ramblin’ On My Mind, Steppin’ Out, It Ain’t Right. La riuscita riguarda anche la coesione del gruppo dove la front line con Mayall (voce, organo, pianoforte, armonica a bocca) e Clapton (chitarra elettrica) resta unica nell’intesa perfetta e nelle invenzioni continue, persino nel rapportarsi con una sezione ritmica tirati sisma grazie a John McVie al basso elettrico e Huhie Flint alla batteria. Nell’ellepì sono altresì coinvolti, in alcuni brani, quattro jazzisti (già esponenti di punta di un nuovo british style) come John Almond (sax baritono), Alan Skidmore (sax tenore) e Dennis Hailey (tromba).

1967

Alexander Von Schlippenbach, Globe Unity (BASF)

Per quest’opera – da cui prenderà il nome la big band che la esegue – commissionata dal Südwestfunk, il leader pianista si appoggia ai principi rivoluzionari della musica nuova, che apprende stando vicino al compositore Bernd Alois Zimmermann: ogni materiale impiegato dal pianista e bandleader in quest’unico lungo pezzo deriva da una serie dodecafonica a sua volta dominata dalle terze. Anche gli assolo talvolta marziali degli strumenti a fiato sono annessi senza tregua a questo materiale tematico, fino a creare insomma coerenza e unità (la”Unity”nel titolo). La composizione ha inoltre quali forze motrici la sezione ritmica raddoppiata con due contrebassisti e con due batteristi.

 

1967

Jan Johansson, Jazz på Ryska (Heptgaon)

Esiste in commercio un CD dal titolo Folkvisor che del grande pianista svedese  raccoglie due album originali, forse i più mnoti: Jazz på Svenska e questo, dedicati rispettivamente alla rielaborazione del folklore svedese (per duo piano/contrabbasso) e russo (per trio e sestetto). Quasi antesignano della world music, nell’usare jazzisticamente materiale popolaresco, Johansson (1931) al pianoforte rivela altresì uno moderno stile mainstream, che però qui cionserva solo in parte le felici intuizioni del padellone tutto svedese, forse perché il repertoriopopolare  russo non è poi così vicino.

 

1968

Brian Auger And The Trinity & Julie Driscoll, Open (Polydor)

L’album è di certo un tributo al jazz nella prima facciata, un po’ meno nella seconda (dove imperano gli stilemi soul); ed è soprattutto un caso abbastanza unico in Inghilterra, qualcosa insomma che ispirerà il movimento acid jazz di fine Millennio. In Open tutto sembra appunto ‘aperto’ a livello estetico: il lato A dell’album è dunque tutto per Brian che, virtuoso dell’hammond B-3′ apre con un jazz standard del chitarrista Wes Montgomery (In And Out) per lanciarsi quindi in quattro sue composizioni jazzy, tra cui un piano solo (Lament For Miss Baker), un canto bluesy (Black Cat), altri due strumentali boppeggianti (Isola natale e Goodbye Jungle Telegraph). Sul lato B è Julie a farla da padrona tra un blues classico (Tramp di Lowell Fulson), un moderno gospel (Why degli Staple Singers), una cover di psichedelia cantautoriale (Seasons Of The Witch di Donovan), un pezzo scritto da lei con Auger (A Kind Of Love In) e un song condiviso con il bassista (Break It Up).

1968

Pedro Iturralde & Paco De Lucia, Flamenco Jazz (BASF)

Nel contesto di un hard bop spinto, si inseriscono gli assolo di sax alto e i virtuosismi di chitarra flamenca, tanto sui due lunghi brani come Valeta de tu viento ed El Vito (composti entrambi dal tenorista)  quanto nelle tracce più brevi ispirate alle due canzoni di Manuel de Falla, Cancion de la pena de amor e Cancion del fuego fatuo. In tal senso Flamenco Jazz è un album riuscito perché l’integrazione artistico-musicale esiste anzitutto grazie al profondo radicamento della cultura spagnola nella vita e nella poetica dei due leader: non solo la scelta di un autore classico, ma soprattutto i due temi originari, si mantengono, sia pur modernamente, nel solco della tradizione iberica. In più il discorso jazz porta con sé un amalgama e una sovrapposizione che funzionano perfettamente sia con i ritmi pacati della ballad sia nei guizzanti azzardi free-boppistici. A guidare la squadra – con Dino Piana (trombone), Paul Grassi (pianoforte), Erich Peter (contrabbasso), Peer Wyboris (batteria) al loro posto – sia soprattutto Iturralde con i molti interventi coltraniano-rollinsiani, affiancati talvolta ai duetti gitani con De Lucia (protagonista anche di un paio di interventi esaltanti).

 

1970

Soft Machine, Third (CBS)

Il terzo dei Soft Machine simboleggia l’apice dello stile particolarissimo di una band che, dopo la fuoriuscita dei geniali Kevin Ayers e David Aellen si incentra sulla coesione fra Robert Wyatt, Mike Ratledge, Hugh Hopper, Elton Dean più vari ospiti. In quest’opera il quartetto si avvia verso una decisa sperimentazione, in cui si comincia quindi a shakerare lo psycho-rock e il dada-pop dei due album precedenti con specifici elementi del jazz modale, free, hard bop ispirandosi più o meno direttamente al divino Miles Davis: infatti risultano le analogie con le new directions inventate dal trombettista a New York con un altro doppio seminale Bitches Brew registrato nell’agosto 1969 e uscito quando i Soft Machine sono ancora negli studios. Benché a tratti oggi suoni un po’ vintage Third resta un album stupendo anche nella capacità di cogliere i segni del tempo, soprattutto per quel che concerne, da parte dei Soft Machine, la voglia di avvicinarsi al jazz in chiave elettrica, costruendo però l’album con la tecnica pop-rock, come rivoluzionariamente sperimentata da Sgt. Pepper dei Beatles, ossia riunendo o sovrapponendo qua e là i materiali di studio captati alla perfezione e le registrazioni live talvolta in mono o di bassa qualità, con un esito ancor oggi sorprendente.

 

1970

Soft Machine, 5 (CBS)

Il quinto dei Soft Machine simboleggia forse l’apice del jazz particolarissimo di una band che, dopo la fuoriuscita dei geniali Kevin Ayers e David Aellen, Robert Wyatt, ora i soli Mike Ratledge (tastiere), Hugh Hopper (basso), Elton Dean (fiati) più Phil Howard e John Marshall alternarsi alla batteria In quest’opera il quartetto si avvia verso una decisa sperimentazione, in cui si comincia quindi ad allontanarsi dal Canterbury Sound rockeggiante degli album precedenti con specifici elementi del jazz modale, free, hard bop ispirandosi più o meno direttamente ai rivali americani Weather Report. Benché a tratti oggi suoni un po’ datao il Fifth dalla nerissima copertina monocroma resta un album stupendo anche nella capacità di cogliere i segni del tempo, soprattutto per quel che concerne, da parte degli stessi Soft Machine, la voglia di avvicinarsi al jazz in chiave elettrica, costruendo però l’album ancora con una tecnica pop-rock, come rivoluzionariamente sperimentata da Sgt. Pepper dei Beatles in avanti.

1970

Martial Solal Trio, Sans Tambour Ni Trompette (RCA)

Egregiamente spalleggiato da due soli contrabbassisti – e come allude ironicamente il titolo, che però dicono sia tratto da un racconto di Tristan Bernard – senza la batteria e i fiati di ogni tipica jazz band, Solal, all’epoca quarantatreenne, firma dunque un autentico capolavoro: l’interplay è particolarmente riuscito fra il pianista e Jenny-Clarke, ritenuto il maggior virtuoso francese allo strumento, in grado di penetrare con sensibilità, determinazione, compiutezza, le idee del leader e l’atmosfera del long playing, personalizzandola altresì con toccate all’archetto di acuta soavità e di intelligente pregnanza; di contro, il pur bravo Rovère rimane quasi chiuso nel ruolo sostanziale di mero accomodatore, comunque utilissimo in un progetto molto avanzato, dove la sperimentazione sulle note improvvisate si combina alla naturalezza del linguaggio acustico. A fruire i quattro brani di lunghezza variabile tra i cinque e gli undici minuti si ha la sensazione di percepire qualcosa di mirabilmente ludico sotto ogni prospettiva estetico-musicale: via via Sequence tenante, Accalmie, Unisson, Morceau n2 offrono melodie e variazioni tanto avvincenti quanto suggestive, il cui profondo valore consiste nel ricercato equilibrio tra sottile compiacimento dotto e forte rigore jazzistico: sembra quasi che le opere pianistiche impressioniste di Claude Debussy e lo geniale swing articolato di Art Tatum. Martial è solipsisticamente alla ricerca di sound individuale, con uno sguardo alla storia afroamericana, ma rivolto al contempo a trovare un’identità al jazz europeo.

 

1971

Keith Tippett’s Centepede, Septober Energy (RCA Neon)

Questa suite in quattro parti – una per facciata dei long playing originari – agita a Londra gli ambienti del jazz e del rock, in cui viene ascoltata con attenzione e discussa a lungo. Non va dimenticato, come già visto, che Tippett collabora, qualche anno prima, ai migliori album dei King Crimson, ritenuti i maestri dell’art rock e che lo stesso Robert Fripp – leader e inventore dei Re Cremisi’ – è seduto alla consolle in studio. Questa alchimia si riflette forse ancor più chiaramente nella seconda parte, scandita da forti battiti, e giudicata all’epoca troppo rock oppure troppo incentrata su assoli e improvvisazioni, a seconda dei puristi in campi diversi; ma in tal senso i Centepede si ispirano di proposito alla quintessenza dei due mondi – il rock e il jazz – fino a concretizzare una miscela ideale, non a caso battezzata british jazz fusion.

 

1971

Chris McGregor, Brotherhood Of Breath (RCA Neon)

L’album a distanza di anni resta forse il manifesto teorico e il risultato pratico dei Sudafricani in esilio in grado insomma di esprimere ad esempio un’ideale via di mezzo tra i Centipede di Keith Tippett e l’Art Ensemble Of Chicago grazie ad atmosfere sonore gioiosamente caotiche, con satirici assolo introduttivi, irridenti sortite individuali in dialettica al lavoro collettivo, ironizzanti segnali militareschi, fino a creare una singolare new thing dove ance e ottoni riescono anche a suonare parti scritte, inglobando persino citazioni dalla samba,dagli zulu, dalle orchestrine americane degli anni Cinquanta. Registrato a Londra nell’estate-autunno 1970 per la Ogun (poi ristampa Fledg’ling), Brotherhood Of Breath sarà anche il nome della band del pianista bianco sudafricano Chris McGregor negli anni successivi.

1972

Jean-Luc Ponty Experience, Open Strings (BASF)

Nel vinile originario, a la facciata A comprende la suite Flipping in tre parti (in tutto venti minuti) scritta in origine per il cinema e interpretata in solo da Ponty qualche mese prima ai Berlin Jazz Days e ripetuta l’anno dopo al Jazz Now e ai Giochi Olimpici, benché la versione su disco in quintetto diventi più ricca e movimentata. La title track occupa invece il primo quarto d’ora del lato B, mentre la chiusa riguarda i quattro delicati minuti di Sad Ballad . Mentre registra l’album, intervistato, Ponty ritiene che Open Strings sia un grande titolo per un album jazz, poiché ‘corde aperte’ significa suonare uno strumento a corde (un violino, non a caso) senza appoggiare forzatamente le dita su di esso per fare una nota.

1972

Michel Portal Unit, À Châteauvallon 72 (EmArcy)

Con il leader ai sassofoni, al clarinetto, al bandonéon, Bernard Vitet alla tromba e al violino, Beb Guérin e Léon Francioli ai contrabbassi, Pierre Favre alle percussioni e in alcuni momenti la voce di Tamia, l’Unit di Châteauvallon 72 mostra anzitutto la piena ricchezza dei suoi musicisti. Più sorprendente ancora, questa registrazione, dopo tanti anni, offre un’idea della fantasia al potere della salita in potenza di questa improvvisazione in diretta, convincendo in particolare per lo straordinario domino e l’immaginifica creatività del Michel Portal leader e multistrumentista: e sono qualità che l’ottantunenne jazzista di Bayonne mantiene durante i quattro successivi decenni, come manifesta via via negli album con Martial Solal e Richard Galliano, Jack DeJohnette e Claude Barthélemy.

 

1973

Jan Garbarek / Arild Andersen / Edward Vesala, Tryptykon (ECM)

Qui il sassofonista norvegese Jan Garbarek è ancora innamorato del free ‘ubriaco’ di Ornette Coleman e Albert Ayler; e dimostra tale amore in ogni soloco di Triptykon, forse da ritenersi, già dal titolo e dai nomi appaiati in copertina, un album collettivo, benché l’uso di ben quattro diversi strumenti (soprano, tenore, flauto, clarinetto basso) rispetto alla classica unicità ritmica del danese Arild Andersen al contrabbasso e del finlandese Edward Vesala (prematuramente scomparso) alle percussioni, faccia del primo il trascinatore del gruppo. Triptykon  appare dunque come un disco di Coleman o di Ayler suonato da scandinavi, benché sia dal grido ayleriano in particolare che l’allora giovane pluristrumentista eredita la propensione a rielaborare i brani folk come accade nell’ultimo pezzo, Bruremarsj (che però sembra la parafrasi della colemaniana Lonely Woman); Triptykon alterna però composizioni collettive, fra tre pezzi brevi lirici (Selje, Sang, Etu Hei!) e tre lunghe movimentate improvvisazioni (Rim, J.E.V. e la title track).

 

1973

Perigeo, Abbiamo tutti un blues da piangere (RCA)

Questo 33 giri che vince il Premio della Critica Discografica come miglior album jazz possiede un linguaggio vicino al rock grazie all’insistenza timbrica e ai volumi alti compensati da frequenti ritornelli tanto sognanti quanto orecchiabili: il tutto quasi a mandare in pezzi certa leziosità jazziale che a sua volta si ancora al purismo e alla tradizione. Il Perigeo volta dunque le spalle al free e all’hard bop per seguire delle proprie new directions con idee chiarissime al proposito: si tratta insomma di proseguire nella contaminazione, avendo il rock quale punto iniziale per approfondire le sfumature funky, favorendo alla fine una miscela sonora – ieri e oggi chiamata progressive – dove i virtuosismi e le individualità sono a freno a favore di un gioco collettivo che fa emergere anche un gusto precipuamente italiano per talune dolcezze melodiche. Giovanni Tommaso, Tony Sidney, Franco D’Andrea agli strumenti elettrici e talvolta acustici (rispettivamente basso, chitarra, piano), Bruno Biriaco alla batteria e alle percussioni e Claudio Fasoli ai sax tenore e soprano si confermano dunque, non solo i componenti ma gli artefici di un gruppo immenso, che, grazie a questo, al precedente e ai tre album successivi  resta insuperato nel panorama italiano che si muove tra prog e jazzrock gli anni Settanta.

1974

John Stevens’ Spontaneous Music Ensemble, Quintessence 1 (Emanem)

Nell’album le tante note dolci, in apparenza secondarie, di colpo risultano diventano fondamentali, grazie all’interazione dei musicisti che va ben oltre non il facile giochetto semplice giochetto del botta e risposta. Si tratta però di un approccio sonoro che porta a richiedere la massima concentrazione, potendosi muoversi solo lentamente, sul filo del rasoio. Da qui emergono le ‘voci’ del leader John Stevens (percussioni e cornetta), di Evan Parker e Trevor Watts (entrambi sax soprano), di Derek Bailey (chitarra elettrica), di Kent Carter (violoncello e contrabbasso); e di conseguenza lo Spontaneous Music Ensemble approda alla “Quintessenza” dell’improvvisazione collettiva il più liberamente possibile pur essendo segnato, allo stesso tempo, da una estrema sensibilità proprio nel favorire la tensione creativa tra il singolo e il gruppo.

 

1975

Derek Bailey, Improvisation (Cramps)

Con questo ellepì Bailey rinuncia momentaneamente agli assunti ideologici (in particolare con il trombonista Paul Rutherford e con il contrabbassista Barry Guy dà vita al trio Iskra 1903), per farsi anche più teorico: va ricordato infatti che in quegli anni Derek sta elaborando il libro Improvisation (1980) che è a tutt’oggi – assieme a Musica totale di Giorgio Gaslini – l’unico autentico tentativo di teoria sonora da parte di un jazzista europeo, alla ricerca di una genuina identità (che in questo caso travalica addirittura il dato geografico). In Improvisation – agli strumenti sia acustico sia in particolare elettrico – il jazzman britannico affronta anche l’annosa questione di come rapportarsi al mezzo fonografico, lavorando su un pezzo che suona da oltre tre anni, riprendendolo con quattordici brevi citazioni: otto su chitarra elettrica, cinque sull’acustica a sei corde e uno su uno strumento a diciannove. Il progetto viene incluso in una apposita collana di un’etichetta milanese nata con il prog rock, accanto ai lavori di Fernando Grillo e dei baschi Arza Aniak, in cui si dissezionano le potenzialità fisico-materiche dei singoli strumenti.

 

1975

Mario Schiano, Partenza di Pulcinella per la luna (RCA)

In questo studio album irripetibile dal vivo (in effetti non vi sono storicamente versioni live o tournée o concerti attorno a esso), Pulcinella si aggira in uno spettacolo di varietà sonoro, che, dopo un lungo vocalizzo femminile, inizia con la presentazione dei musicisti all’americana in un inglese volutamente storpiato e termina con la voce da scugnizzo dei vicoli malfamati: in mezzo c’è la rilettura del ‘californiano’ (lo stile jazz, derivato dal cool, prediletto vent’anni prima dallo ‘storico’ saxman del californiano, qui ironicamente chiamato come guest star) accanto a momenti new thing, a echi mediterranei, persino a pastiche alla Ennio Morricone. All’epoca resta, per un napoletano verace come Mario, l’unico modo per fare un jazz veramente alternativo.

1976

Willem Breuker Kollektief, The European Scene. Live At The Donaueschingen Music Festival (MPS)

Nel disco – come dagli altri primi album di questa bizzarra formazione olandese – sono due gli aspetti complementari a distinguere in primis il Willem Breuker Kollektief dagli altri gruppi sembra: da un lato si ascolta l’umorismo sovversivo radicata nella funzione dichiaratamente politica della musica stessa, dall’altro si nota una dura critica della società contemporanea attraverso il medium sonoro. Breuker sa ricollegare e rinnovare tutto questo attraverso le canzoni di Hanns Eisler popolari in apparenza, ma, dietro un ascolto adornianamente vigile, rivelatrici di una oggettiva artistica complessità. Ma c’è addirittura la dadaistica Parade di Erik Satie la cui costruzione ispirata da vari stili serve da modello socioculturale alla filosofia musicale di Willem e del Kollektiev. Persino la musica leggera e quella circense risultano ulteriori riferimenti, prendendo de facto – con undici orchestrali debuttanti – misure e accenti senza leggi e senza ordini. Dal punto di vista tecnico il vinile The European Scene – sottotitolo Live At The Donaueschingen Music Festival nell’edizione del 1975 per la tedesca MPS – comprende tre quarti d’ora di musica e in scaletta sul lato A Ouverture ‘La Plagiata’, Streaming, Luiermuziek, Logical, PLO-Marsch e sul lato B Trauermusik Aus “Keetje Tippel”, Szenenwechsel-Musik Aus “La Plagiata, Riette, Nietzsche Aan Te Doen.

 

1976

Lars Gullin, Aeros Aromatic Atomica Suite(EMI)

Il maudit svedese nella prima fase della carriera, contrassegnata da un bebop originalissimo, è in anticipo sul cool jazz e su Gerry Mulligan, con un baritonismo lirico e fluidissimo. Dopo queste incisioni, Gullin (1928) viene scoperto dagli americani e suona, tra gli altri, con Chet Baker, James Moody, Art Farmer, Archie Sheep. Poi una malattia alla gola, lo costringe a passare al pianoforte, sul quale, prima di morire a 48 anni comporrà la notevole Aeros Aromatic Atomica Suite, che diventa l’omonimo concept album, simbolo di un jazz svedese indomito e aperte e inedite soluzioni.

1977

Shakti, A Handful of Beauty (CBS)

Questo secondo album del quintetto capitanato dal chitarrista inglese Mahavisnu John McLaughlin che vuole accanto a sé quattro strumentisti classici indiani, ovvero Zakir Hussain (tabla), L. Shankar (violino) e “Vikku” Vinayakram (Ghatham e Mridangam), Ramnad Raghavan (Mridangam) arriva a comporre un’originalissima avventura che vede il leader spostare consapevolmente il proprio baricentro artistico sul confronto paritetico Oriente/Occidente, India/Inghilterra. Come anche per il primo omonimo Shakti e il successivo Natural Elements – nonché i quattro CD della reunion dal 1997 a oggi – A Handful of Beauty risulta davvero una fortunata mescolanza di prog jazz e cultura indiana che include da un lato la chitarra acustica del leader, dall’altro una grande varietà di strumenti di musica classica indiana (talvolta come il violino prossimi alle tradizioni colte occidentali). Il risultato offre, come  nel vinile d’esordio della band, improvvisazioni serrate, assolo espansi, suonate collettive, con parecchie intuitive obliquità, soprattutto nelle interazioni tra melodie sacre (o misticheggianti) e i ritmi tipici del raga classico.

1977

Trilogue, Trilogue Live! (BASF)

L’album che sembra, per la naturalezza del sound, una spontanea jam session fra musicisti incontratisi casualmente, è in realtà qualcosa di voluto, a tavolino, dal musicologo Joachim Berendt per un disco nella collana da lui diretta e per alcuni concerti, riproposti anche con le immagini televisive. L’impatto complessivo, riassaporato oggigiorno, conferma le positive impressioni suscitate dalla musica stessa: l’imprinting ritmico funkeggiante, con il set raddoppiato di piatti, tamburi, casse, percussioni di Alphonse Mouzon ruba visivamente l’intera scena al cospetto della sobrietà performativa di Jaco Pastorius ovviamente al basso elettrico e di un attillato, magrissimo Albert Mangelsdorff al trombone; quest’ultimo allora quarantottenne e protagonista della scena tedesca, si conferma lo straordinario improvvisatore dalla tecnica portentosa nei timbri, nel colore, nei glissandi, nei due suoni emessi contemporaneamente. È dunque Mangelsdorff il vero principale riferimento, almeno per due motivi: da un lato egli risulta l’autentico mattatore del ‘Dialogo a Tre’, con cinque brani su cinque da lui firmati; dall’altro Albert resta vicino al sound della ritmica, fin quasi a inventare una sorta di free-fusion dalla struttura articolata e dalla comunicativa robusta ed essenziale.

1981

Paolo Conte, Paris milonga (RCA)

Fra tutti gli album quello che rappresenta al meglio la canzone jazzata è sine dubio il quarto LP Paris milonga, che, sul piano strettamente musicale spinge ancora più in là un discorso culturale legato al contributo jazzistico – un jazz retrospettivamente prossimo all’hot e allo swing – già accennato nei tre vinili antecedenti; complessivamente si tratta altresì di un lavoro collegabile alla musica latinoamericana, che per il protagonista – che canta, suona piano, vibrafono, sax alto, compone e arrangia ogni pezzo, raduna una vera big band di quindici elementi (diretta dal contrabbassista Pino Calì) – resta parte integrante di un’unica esperienza sonora, relazionabile alle prime sonorità metropolitane. Paris milonga inoltre è il disco che permette a Conte la definitiva consacrazione (oltre essere il primo suo album a venire capillarmente diffuso in Europa), soprattutto per via di un brano come Via con me, divenuto quasi subito l’evergreen per antonomasia del cantautore jazzato, anche grazie al citazionismo esplicito, dalla commistione inglese/italiano, ai riff incalzanti, al ritmo sincopato, che si fa sempre più veloce e incalzante.

1982

Ganelin Trio, Ancora da capo (Leo Records)

Sono all’incirca trenta i dischi a nome Ganelin Trio, con beneficio d’inventario, giacché non esiste una discografia complete al proposito e molti degli LP originari non hanno ancora la ristampa su CD: questo va detto perché la critica ritiene Ancora da capo il capolavoro del gruppo e uno dei lavori decisivi sia per le sonorità contemporanee di fine secolo sia per l’identità del jazz europei: il trio, attorno al quale – oltre il leader pianista Vyacheslav (Slava) Ganelin, classe 1944, nato a Mosca, di origini lituane e dal 1987 emigrato in Israele – ruotano ben cinque musicisti, è qui riunito attorno a Vladamir Tarasov e Vladimir Chekasin, suona dal vivo a Leningrado il 15 novembre 1980, ma aspetta ben due anni prima che la britannica Leo Records glielo pubblichi: è l’atto di nascita da parte di Leo Feigin (alias Aleksei Leonidov) dell’interesse verso il soviet jazz che da Londra si ripercuoterà in tutto il mondo. Ancora da capo vede il terzetto in azione con due performance di circa quaranta minuti ciascuna: sonorità accese, vibranti, erculee, in cui vengono in tutto suonati ben sedici diversi strumenti anche se i ruoli sono chiari: Ganelin simboleggia le tastiere, Tarasov i ritmi, Chekasin i fiati, tutti su una linea paritetica secondo la ferrea ma libertaria idea del free jazz nero, qui applicato con maggior vigorose anche rispetto alle declinazioni nord europee.

1984

George Gruntz, Concert Jazz Band ’83: Theatre (ECM)

Questo disco pare seguire le orme della musica totale lanciata, otto anni prima, da Giorgio Gaslini: diverso è semmai l’atteggiamento mentale, poiché Gruntz sembra più attento al discorso sonoro che ai motivi ideologici, più all’esperienza performativa che alla registrazione discografica. Tutto ciò spiega la presenza di molti album live nella storia della Concert Jazz Band che si propone in Europa e nel mondo con autentici tour de force, come questo documentato – paradossalmente in studio a Ludwigsburg in Germania a luglio – nell’edizione del 1983, come sempre con il leader che procede con un organico variabile formatosi in volta in volta grazie all’appoggio sia di jazzisti continentali sia di ospiti statunitensi (più o meno celebri).

 

1987

Daniel Humair, Surrounded 1964/1987 (Blue Flame Jazz)

Surrounded by (circondato da) Eric Dolphy, Kenny Drew, David Friedman, Johnny Griffin, J.-F. Jenny-Clark, Joachim Kühn, Eddy Louiss, Tete Montoliu, Gerry Mulligan, Michel Portal, Mike Richmond, Martial Solal, Henri Texier, René Thomas, Phil Woods, eccetera, playing (suonando) Parker, Monk, Golson, Dolphy, Portal, Mulligan, Wood e naturalmente Humair: questo il retro copertina di un ‘classico’ dell’eurojazz. Insomma per rendersi conto sia della bravura intrinseca sia dell’importanza anche storica di Daniel in un linguaggio e in un contesto di eurojazz assoluto, questo disco è perfettamente congeniale. Humair di fatto, oltre il ruolo di virtuoso di piatti, tamburi, charleston e grancassa, è tra i pochissimi jazzmen europei che in un quarto di secolo sa rinnovarsi con metodo, lavoro, esercizio, attraversando ogni stile del jazz europeo.

1990

Fred Frith, Step Across The Border (RecRec Music)

Step Across The Border è l’album che più di ogni altro dimostra in modo autorevolmente palese le variegate qualità inventive di Fred Frith, chitarrista e compositore da sempre fiero della propria alterità stilistica: dal disco emerge infatti lo sguardo molteplice, l’orecchio plurisensoriale, il gusto illuminato, nel senso dell’intraprendere molteplici vie sonore  e stratificate prospettive avanguardiste. Step Across The Border si presta quindi a essere ascoltato quale opera seminale di un instancabile esploratore di note e di gesti, di forme e di rumori, di accordi e di dissonanze: si sente anzitutto la lezione dell’art-rock – sviluppata negli anni Settanta assieme al gruppo Henry Cow – accanto a quella del free jazz, in una bizzarra alchemica convivenza tra collage intelligenti e miniature pop, tra momenti ironico-sarcastici e passaggi altamente strutturati. Il CD risulta punteggiato da materiali sonori che esprimono una vivace idealità in un universo riccamente pluralista, all’incrocio tra ordine e caos.

 

2000

Van Morrison / Lonnie Donegan / Chris Barber, The Skiffle Sessions. Live in Belfast (Pointblank)

Sono gli arrangiamenti – curati sempre da un compassato Donegan (chitarra e voce) assieme a un pimpante Morrison (voce), contento in fondo di esibirsi in ‘casa propria’ con una veste insolita – a fare la differenza, puntando tutto o quasi su uno swing incalzante, da cui emergono le voci e le chitarre dei due ‘comandanti’ accanto agli assolo del terzo leader Barber al trombone (benché suoni pure il contrabbasso) o di Nick Payne all’armonica e anche al sax tenore, mentre Paul Henry, Big Jim Sullivan, Nicky Scott, Chris Hunt, Alan Sticky Wiclket offrono il dovuto sostegno ritmico. C’è poi, a valorizzare ulteriormente la performance, l’apparizione del pianista neworlinese Dr. John in due brani: da un lato nella leadbelliana Good Morning Blues a offrire un generoso accompagnamento sia boogie si honky ronk; dall’altro nella celebre Goin’ Home tratta da Antonin Dvorak da parte di un altro trad man quale Ken Colyer. Quindi, a dimostrazione dell’eterogeneità dello skiffle, sul totale dei quindici brani presenti nel CD, svettano due tributi fra di essi in contrasto: da un lato il blues rurale Outskirt Of Town di William Weldom, nell’acustica versione filologicheggiante, dall’altro il country’n’western Muleskinner di Jimmie Rodgers dal velocissimo mood blues-jazzato a riprova che lo skiffle resta in fondo lo stile più ‘afroamericano’ fra quelli europei: eccetto The Ballad Of Jesse James e I Wanna Go Home che posseggono un ruspante animo yankee, ed eccetto le prove autoriali Goodnigh Irene e Dead Or Alive gli altri – ad esempio Alabamy Bound, Midnight Special, It Taked A Worried Man – sono classici ‘negri’  o rimaneggiati come tali nel corso del Novecento – che mettono in evidenza lo spirito collegiale di questa rimpatriata che torna utile per meglio conoscere un fenomeno troppo presto rimosso dalle generazioni sommerse da rock, protest song, rock and roll.

2005

VIENNA ART ORCHESTRA, Swing & Affairs (Universal Austria)

È attiva da quasi trent’anni la big band free capitanata dall’austriaco Mathias Rüegg e ora composta da diciotto musicisti di varia provenienza (statunitensi, europei, australiani, più il mantovano Mauro Negri al clarimetto); dal 1977 a oggi la Vienna ha registrato otto album programmatici, spesso di rara bellezza nell’incrociare sperimentalismo afroamericano e avanguardia colta, ma questo Swing & Affairs sembra al momento il capolavoro o culmine di una ricerca che guarda ora all’arrangiamento classico e alla moderna tradizione dell’orchestra jazz. Brani di Mingus, Dolphy, Monk, Mongo Santamaria, Billy Strayhorn si alternano a rielaborazioni di Satie, Schubert, Strauss e a cinque original dello stesso Rüegg. Settanta minuti di fortissima intensità ritmica, sonora, timbrica che si collegano al piacere dello swing, al rimestrarsi degli stili mood e jungle, in splendidi controcanti, tra assoli e riff, sovversivamente nello spirito radioso (e rabbioso) di Mingus e di Ellington.

 

2006

Amy Winehouse, Back To Black (Island)

Gli elementi black del passato afroamericano (e di quello più recente trasmigrato ad esempio nell’acid jazz inglese) risultano prevalenti e al contempo eterogenei spaziando dal r’n’b al soul, dal funk al boogaloo, dallo ska al reggae, benché alla fine la sensazione sia quella di respirare un’aria salubremente jazzy. Si tratta del resto di un’ipotesi confermata in vita dalla stessa Winehouse quando ad esempio nelle interviste racconta che i primi ascolti infantili sono i diversi LP di Frank Sinatra, acquistati dal padre coroner dilettante di buon livello. Anche quando interrogate sulle maggiori influenze nello stile vocale, Amy fa il nome di una jazz singer – Dinah Washington – nonostante la propensione dei giornalisti ad avvicinarla a Billie Holiday per lo spleen esistenziale o a Sarah Vaughan per il timbro sonoro. A tale proposito Back To Black è un indiretto omaggio proprio a Dinah, Billie e Sarah, anche per via del pieno rispetto delle strutture della forma-canzone tipiche del repertorio delle tre vocalist che quasi mai, come lei, scantonano nello scat o nei virtuosismi, preferendo seguire le norme della pop music classica (e anche contemporanea nel caso di Amy) con un ulteriore vantaggio. La Winehouse, pur bravissima nell’interpretare le cover – l’edizione deluxe postuma di Back To Black comprende infatti pezzi di Sam Cooke, Phil Spector, Toots & The Maytals, The Specials, The Zutons) – è molto valida sia quale compositrice in sé, sia nel saper integrare i testi alle musiche (e viceversa, dato che alterna spesso entrambi i procedimenti).

2008

Rolling Stones, Shine a Light (Polydor)

Si può parlare del maggior gruppo rock di tutti i tempi a proposito di dischi jazz? Certamente sì, per tante buone ragioni: innanzitutto perché rock e jazz non sono incompatibili come fanno credere per anni i rispettivi fans; e poi perché, nel caso dei Rolling Stones, il legame con il blues (che è l’anticamera del jazz) è viscerale, fin dai loro esordi, quando il primo album – The Rolling Stones (1964) – è de facto, per nove dodicesimi, una raccolta di splendide cover di blues classici. Shine a Light che risulta invece il decimo album dal vivo delle Pietre Rotolanti, registrato durante il A Bigger Bang World Tour 2006/2007 è anche la colonna sonora dell’omonimo film Martin Scorsese, dove si vede una band molto bluesy con una sezione di fiati soul e funky.. L’album si avvale inoltre di ospiti come Jack White dei The White Stripes, dell’avvenente Christina Aguilera e del vecchio bluesman Buddy Guy memorabile alla chitarra in Champagne and Reefer di Muddy Waters.

2009

Médéric Collignon, Shangri Tunkhasi-La (Plus Loin Music)

L’originale multistrumentista francese, che suona la pocket trumpet alla Don Cherry, oltre un’infinità di tastiere e percussioni, con il gruppo/progetto Jus De Bocse (un quartetto, cui s’aggiungono quattro corni e un coro femminile) offre un singolarissimo tributo al Miles Davis funk (Interlude, Ife, Early Minor, Billy Preston, Mademoiselle Mabry), allargandosi verso Led Zeppelin (Kashmir) ed Hermeto Pascoal (Nem Um Talvez): brani lunghi, ossessivi, ipnotici, ma anche al limite del virtuosismo, con un debole per il ‘Divino’ psichedelizzante, di cui, in Bitches Brew e Shhh Peaceful è restituito appieno l’informale elettronico.

2012

Paul McCartney, Kisses On The Bottom (Hear Music)

L‘approccio al repertorio è ‘giudizioso’, non pedantemente filologico, ma corretto quanto basta a condividere l’effetto nostalgia: il sir e baronetto della pop music alle prese con il jazz vocale è abbastanza rilassato, come dimostrano un po’ tutti i 14 brani (16 nell’edizione deluxe): My Very Good Friend The Milkman si trasforma in autentico preziosismo da night club; It’s Only Paper Moon viene swingata con romantica dolcezza, mentre la band pare entrare in punta di piedi, poco alla volta; Bye Bye Birdland elimina la consueta lettura saltellante a favore di un ritmo lento e di una significativa presenza degli archi, i quali sostengono la melodia in Always, dove una chitarra accompagna delicatamente: in entrambi i casi, poi, vengono riprese scrupolosamente le due intro (tagliate di solito persino da noti jazz vocalist). Le prove forse più interessanti riguardano, alla fine, sia una sommessa The Glory Of Love sia una simpatica Home (When Shadows Fall) già eseguita,oltre mezzo secolo prima, con i Quarrymen (il gruppo skiffle con il quale debutta). Sorprendono favorevolmente persino i due original My Valentine e Only Our Hearts dal sapore old fashion in quanto composte in modo vintage e rétro, onde creare, anche con il ‘nuovo’, un bell’effetto nostalgia.