Sorcio

“La mia vera tentazione – leggiamo in un’intervista concessa da Simenon a “Médecine et hygiène” nel 1968 – era quella di finire clochard. Ho sempre avuto, in fondo, una specie di “vertigine del clochard”. Non sono lontano dal considerare la condizione del clochard come una sorta di ideale. È evidente che l’autentico clochard è un uomo più completo di noi.”
Il Sorcio, scritto nel febbraio del 1937, ci dimostra che Simenon già la pensava allo stesso modo trent’anni prima. Mette in scena un personaggio a suo modo geniale: Ugo Mosselbach, organista e professore di solfeggio che, in seguito a qualche scandalo ormai dimenticato, ha disertato la società borghese per rinascere, con il soprannome di “Sorcio”, nel mondo anarchico dei barboni che vivono alla giornata tra i lungosenna, i petits bistrots e le celle, tutto sommato molto accoglienti, dei commissariati dei vari arrondissements. Il Sorcio è un conoscitore incomparabile della vita parigina, osservata naturalmente dal suo particolare angolo visuale: sa a che ora la folla sciamerà fuori da un certo teatro, in quale caffè all’aperto si incontrano i turisti più generosi, qual è il momento più propizio per offrire i propri servigi a un autista o al portiere in uniforme di un locale. Il suo campo d’azione sono i quartieri della vita notturna più elegante: gli Champs-Élysées, la rue Royale con i suoi gioiellieri e il mitico ristorante Chez Maxim, il teatro dell’Opéra, place Vendôme. Il primo elemento di fascino del romanzo sta proprio nel contrasto tra la figuretta del protagonista, dignitosamente paludata in abiti cenciosi sempre troppo grandi, e lo splendore di questa Parigi sontuosa e gaudente. In fondo, con il suo ironico sogghigno, Mosselbach non è altro che l’eterno picaro, destinato con la sua sfrontata libertà a mettere in ridicolo l’esistenza convenzionale dei benestanti che lo guardano dall’alto in basso.
La tentazione della ricchezza, però, è irresistibile anche per lui, e irrompe nella sua routine in forma drammatica. Tra l’ambasciata d’Inghilterra e l’Eliseo – la sua zona è sempre quella –, il Sorcio una sera apre la portiera di una lussuosa automobile parcheggiata sotto la pioggia, per chiedere l’elemosina al guidatore. Nel giro di pochi secondi, capisce però che da quel signore in abito da sera non avrà nulla: poco prima qualcuno gli ha sparato ed è un corpo privo di vita quello che scivola a terra, davanti a lui, dal sedile dell’auto. Uomo “più completo di noi”, secondo Simenon, il clochard davanti alla morte ha un atteggiamento pragmatico, senza isterismi. Abbandona al suo destino il cadavere, per il quale tanto non c’è più nulla da fare, e intasca il portafoglio ben gonfio che è caduto dalle sue tasche insieme a una vecchia busta e alla fotografia di una donna. Da questi tre oggetti prende le mosse la vicenda del romanzo: perché il morto aveva con sé una somma così cospicua? Perché conservava la busta di una lettera indirizzata molti anni prima a un certo “Sir Archibald Landsburry”? Chi è la donna che figura nella fotografia?
Il Sorcio medita machiavelliche strategie per riuscire a impadronirsi di quei soldi piovuti dal cielo senza suscitare sospetti. Gli sembra un’idea brillante affidare il denaro alla polizia – omettendo naturalmente le circostanze del ritrovamento – per poterlo riscuotere un anno dopo, nel caso che nessuno lo reclami. Ma la vicenda si complica e l’arcigno ispettore Lognon sospetta – giustamente – che dietro l’improvvisa fortuna toccata al clochard, che è una sua vecchia conoscenza, ci sia qualcosa di poco chiaro. A complicare ulteriormente il tutto, l’elegante cadavere derubato dal Sorcio è scomparso nel nulla… Il barbone e l’ispettore portano avanti due indagini parallele, spiandosi reciprocamente, mentre poco per volta affiorano i contorni di una vicenda complicata che coinvolge le alte sfere della finanza internazionale.
Giustamente il risvolto di copertina definisce Il Sorcio “un Maigret senza Maigret” (Adelphi, trad. di Simona Mambrini, pp. 155, euro 18). In effetti, a cercar di sbrogliare la matassa dell’intreccio compaiono due antichi collaboratori di Maigret: il melanconico ispettore Lognon e Lucas, promosso commissario negli uffici del Quai des Orfèvres. Ma del loro patron non c’è traccia. Dove è finito? Il fatto è che Simenon l’ha mandato in pensione, nel romanzo Maigret del 1934. La Parigi post-Maigret del Sorcio è dunque la stessa nella quale si svolgono i racconti – redatti nel 1938 e pubblicati nel 1941 – di due recenti e bellissimi volumetti adelphiani: L’uomo nudo (2016) e La fioraia di Deauville (2017). Nell’Uomo nudo, come nella Fioraia di Deauville, Maigret è ricordato con affetto, e anche un po’ imitato, da un altro suo antico collaboratore, Torrence, che ha lasciato il Quai des Orfèvres per fondare una fortunata agenzia di polizia privata. Torrence però, benché come Maigret fumi la pipa e abbia un debole per la buona cucina, è ben lontano dalla perspicacia del suo modello. La vera mente dell’Agenzia O è un giovanotto dai capelli rossi, Émile, che agli occhi del pubblico è soltanto un umile impiegato, ma nasconde dietro apparenze modeste un genio investigativo eccezionale.
Con o senza Maigret, la Parigi di Simenon conserva comunque sempre la sua magia. Dopo l’acquazzone estivo sotto il quale è cominciata l’avventura del Sorcio, la città si sveglia come rinnovata:

Era una splendida mattina, con un sole ancora più sfavillante dopo la pioggia della notte. Si sentivano stridere le saracinesche di alcune vetrine e dai caffè arrivava un profumo di croissant caldi.

Anche lo sguardo del clochard, pur così preso dalla sua avventura, ne coglie l’incanto festoso:

Le otto meno dieci… Vedeva l’ora all’orologio della Tour Eiffel, illuminata nonostante non facesse ancora buio. Tra il fogliame degli alberi si acquattavano ombre bluastre. C’era gente ovunque: tantissime coppie di innamorati, famigliole con bambini tenuti per mano e i più piccoli in braccio.

Pubblicato a puntate sul quotidiano di destra “Le Jour” dal 7 marzo al 10 aprile del 1937, Il Sorcio era stato scritto in febbraio, a Porquerolles, l’isola provenzale dove Simenon amava condividere, a volte anche nei mesi invernali, la vita dei pescatori. Uscì in volume nel 1938, da Gallimard, e non ebbe un successo particolarmente clamoroso. Dieci anni dopo, però, il due maggio del 1948, André Gide scriveva a Simenon:

Sulla foto che pubblicherà “France Illustration”, sto leggendo (si distingue molto bene il titolo) Monsieur La Souris.

Il Sorcio aveva trovato almeno un estimatore d’immenso prestigio.