Della mia ormai lontana e impallidita ascendenza ebraica dev’essere filtrata fino a me una cosa sola: il karma dell’erranza, che ho trasmesso anche alla mia sposa insieme all’uso facoltativo del cognome. Questo destino vagabondo non si è manifestato tanto nella forma avventurosa e drammatica del viaggio quanto in quella polverosa e tragicomica del trasloco. Lo scatolone è l’oggetto che meglio di ogni altro simboleggia la nostra irrequietezza fra poco prima dei quaranta e poco dopo i sessant’anni, la nostra vocazione irragionevole a smobilitare conservando, a demolire e ricostruire, a ripopolare di cianfrusaglie la tabula rasa appena conquistata. Lo scatolone, un qualsiasi scatolone, purché abbastanza grande e solido, rinforzato da nastri adesivi sotto le giunture e sugli spigoli, è il recipiente ideale della nostra storia.
Non è difficile immaginare quali caotiche conseguenze il susseguirsi di una dozzina di traslochi in una trentina d’anni possa aver prodotto sulla mia povera biblioteca. E ai traslochi occorre aggiungere l’integrazione nei miei scaffali di gran parte della biblioteca tutt’altro che insignificante dei miei genitori, e ancora la perdita del lavoro e, quindi, dello studio inteso come residenza separata dall’abitazione, cioè di oltre il 50% dello spazio riservato ai libri.

Un primo effetto macroscopico di queste piccole catastrofi è il disordine. I libri, ormai, nei miei scaffali, sono allineati senza nessuna logica, senza nessuna ratio, senza nessuna speranza di essere reperiti in base a una mappatura mentale, sia pure grossolana, della loro posizione. Stanno lì, semplicemente, nell’ordine caotico in cui sono usciti l’ultima volta dagli scatoloni che li contenevano. Ecco una sequenza, da sinistra a destra, scelta a caso: Bonfantini, Un salto nel buio, Feltrinelli 1959; Tolstoj, Resurrezione, vol. I (del vol. II non c’è traccia), Bietti 1933; Dossi, Opere, a cura di C. Linati, Garzanti 1944 (è un volume rilegato di circa 1000 pagine, quarta perla della collana Romanzi e racconti italiani dell’Ottocento); Antonielli, Oppure niente, Mondadori 1971; Le Carré, La spia che venne dal freddo, BUR 1980; Pietro Chiodi, Banditi. Un diario partigiano 1939-1945, Edizioni dell’Unità 2003; Luciano Marrocu, Debrà Libanòs, Il Maestrale 2003 (donatomi credo dall’autore, che abitava a Cagliari, nello stesso palazzo restaurato di Castello in cui io avevo lo studio nei primi anni 2000); T. Middleton e W. Rowley, I lunatici. Tragedia in cinque atti, Avanzini e Torraca editori 1968; Fachinelli, Muraro e Sartori (a cura di), L’erba voglio, Einaudi 1971; Cooper, La morte della famiglia, Einaudi 1972; Cooper, Grammatica del vivere, Feltrinelli 1977; Gruppo Teatro-Gioco-Vita, Io ero l’albero (tu il cavallo), Guaraldi 1972; Arbore & Boncompagni, Il meglio di Alto Gradimento, BUR 1976; Leopardi, I Canti, a cura di Luigi Russo, Sansoni 1963 (è un mio testo scolastico del liceo); Freud, Al di là del principio di piacere, Biblioteca Boringhieri 1986; seguono due volumetti di poesie di tale Arcidio Baldani, un eccentrico personaggio che nei primi anni Settanta si poneva a guardia delle sale da concerto e dei teatri più off-off di Milano con una gran pila di libri sotto il braccio, apostrofando gli aspiranti spettatori, uno per uno, con questa scaltra domanda: Legge poesia?; Tommaso Miceli, Poesie in cellophane, I Dispari s.d.; Norman O. Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Tascabili Bompiani 1986; Castaneda, L’isola del tonal, BUR 1975. Mi fermo a questo titolo che, simbolicamente, allude ad associazioni non meno cervellotiche di quelle che legano i miei libri nelle loro improbabili catene.

Il secondo effetto travolgente delle catastrofi subite dalla mia biblioteca consiste in una cronica e – com’è inevitabile – crescente mancanza di spazio. Le nuove acquisizioni non fanno che accumularsi in pile su qualunque superficie liscia, o in una cesta o cassetta della frutta nascosta sotto un mobile, o sui margini di scaffali già abitati da altri libri che si rendono in questo modo invisibili, irraggiungibili e ingiuriati.



È certo lecito domandarsi che funzione possa svolgere, in un contesto di molta sofferenza e poco spazio come quello che ho descritto, il vizio dei doppioni. Per illustrarlo ho scelto due titoli che, chissà perché, mi sembrano gravidi di significato.
Eppure, come bibliotecario, ho i miei meriti. Tali e tanti da poter appiccicare a questa storia sgangherata un lieto fine.
