Ghirri
Infinito, Luigi Ghirri, 1974

Un infinito imparare

There is no end to what we can learn. The book out there
Tells us as much, and was never written with us in mind.
Mark Strand, Blizzard of One

Da piccola collezionavo parole. Riempivo quaderni di elenchi, in colonne ordinate, a colori diversi secondo un mio codice di cui ora non ricordo nulla, fin dalle elementari. Del liceo ricordo pagine e pagine di parole latine. Per il resto ero stata una studente svagata e testarda – studiavo solo le materie che mi interessavano e soltanto se i professori mi erano simpatici – fino alla scuola interpreti, quando avevo iniziato a collezionare anche parole inglesi e francesi e quel bottino mi piaceva ancora di più perché pensavo che forse in futuro mi sarebbe servito a tracciare delle mappe. Gli argomenti erano i più disparati. Per l’esame di fine anno da interprete parlamentare, i tre temi di simultanea erano così bizzarri che me li ricordo ancora con precisione: “Metodologie innovative per la cura dell’ulcera peptica”, “Strategie per favorire la ventilazione nell’architettura araba degli Emirati”, e l’inarrivabile “Tecniche di allevamento ovino della razza finnica nei paesi del Nord”). In quegli anni – in cui magicamente ero diventata una specie di secchiona – ho capito che tutto, ma proprio tutto è utile per il traduttore. E ogni anno buttavo via i quaderni di parole, gonfi, spessi. Tutti quanti. Non ne ho tenuto neanche uno, e quella è stata l’unica e ultima collezione che abbia mai fatto. Appena ho iniziato a tradurre, ho smesso di annotare parole.
Guarda caso mio fratello, che insegna storia dell’economia, è collezionista ed esperto di collezionismo (per esempio qui), di hoarding, e anche di bibliofilia, tassidermia, e varie ossessioni e manie , oltre a essere appassionato di pratiche di archiviazione, musei e dei trivia più eccentrici (dai tatuaggi papali agli asili per i pet). Ci siamo molto simpatici – rarità tra fratelli – non tanto per carattere o stile di vita, ma soprattutto perché siamo follemente curiosi.
Questo lungo preambolo è utile, soprattutto a me, per spiegare perché tradurre Ongoingness/Andanza, come ho scritto nella nota, mi rendesse così nervosa, all’inizio. Mi faceva paura tutto quel desiderio dell’autrice di annotare, accumulare, di catalogare memoria. Mi pareva anche un esorcismo facile e sotto sotto invidiabile per evitare l’oblio quotidiano e, ovviamente, l’oblio perenne. Lo stesso effetto mi avevano fatto parecchi anni fa, la prima volta che le avevo viste, alcune foto di Ghirri. Soprattutto la serie Infinito, un progetto del 1974, 365 foto di cielo in sequenza temporale (pubblicato poi nel 2001 da Meltemi), “un possibile atlante cromatico del cielo, 365 possibili cieli”, come lo aveva descritto lo stesso Ghirri. Nessun giorno senza un cielo. Mi piaceva tantissimo, ma mi metteva ansia, come mio fratello che conserva tutto, come le parole di Manguso. Ma non erano foto, non bastava guardarle, dovevo proprio tradurle.

Però non vorrei parlare di questo, visto che l’ho già fatto nella nota. Piuttosto, mi interessa la fase due, cioè quello che ho imparato – proprio come alla scuola interpreti avevo imparato tutto di ovini e ulcere e architettura nei climi desertici – da questa traduzione. Dopo tanti anni passati a fare il falsario – no, non mi sento autore, non ho trame da inventare –, mi interessano sempre meno i dettagli del processo, anche perché come ha scritto Bonnefoy, “Forse, dopo tutto, è così che bisogna tradurre, con l’oscura coscienza cioè che in ogni traduzione non si è che se stessi, nel nostro proprio giorno e che questa transitorietà avvolge tuttavia una testimonianza.”
Invece mi affascina sempre di più l’elaborazione del processo, cioè come la traduzione viene poi interiorizzata, come faccio tesoro di quello che imparo, spesso in modo inconsapevole, almeno all’inizio. Non capita sempre, ma in alcuni casi forse è meglio di una seduta psicanalitica.
Traducendo Andanza, e appunto, attuando al principio una strategia di fuga, uno strano balletto, ho forse imparato a stare relativamente ferma, a non scappare di fronte a quelle parole fatte di tempo che mi agitavano.

Il titolo è nato grazie a Eugenia. L’ha scovato lei, oltre ad aver rivisto le pagine con me piano piano, senza permettermi di scappare. Era come tradurre una lunga poesia senza rima ma con tanto ritmo, e abbiamo giocato a ping pong con le bozze fino a esserne soddisfatte. È stata una partita lunga, sette, otto bozze per ventisette cartelle. Però mi sono divertita in quella fase, tanto che forse, per la prima volta, ho salvato tutte le numerose versioni, non solo nella memoria. Allentare la tensione, smettere di sfuggire alla fuga del tempo, è stato quasi liberatorio.
In pratica, mentre la Manguso ha imparato a eliminare scrivendo, e ha ridotto un diario di ottocentomila parole, tenuto per venticinque anni, a poche pagine dense, io ho iniziato a conservare, a riempire (poco) i cassetti, a salvare le foto, a raccogliere le piccole cose che ho scritto negli anni. Magari poi mi stuferò, ma mi rendo conto che è uno degli incantesimi della traduzione. Come guardare nell’obbiettivo e camminare in un paese in un certo modo, come mi ha insegnato Teju Cole, o vedere gli animali con occhio più disincantato, grazie a Megan Mayhew Bergman, o individuare gli intrecci di corpo e mente con Siri Hustvedt, o “esplorare il proprio temperamento andando alla ricerca della verità”, grazie a Iris Murdoch. Senza parlare di tutti i luoghi che ho visitato (o rivisitato) insieme agli scrittori che ho tradotto. Insomma, tante cosette utili, forse, nella vita oltre che nella traduzione.

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