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Non sono mai ingenue né scontate le strategie che Umberto Eco mette in atto per profilare i personaggi dei propri romanzi. Non sorprende quindi che l’eroe dell’Isola del giorno prima, Roberto de la Grive, sia posto tutto sotto un particolare sigillo, onirico e sfumato, che investe il modo di allacciare i segni e gli indizi del mondo esterno, la maniera in cui l’autore edifica il mondo narrativo, il tipo di linguaggio adottato e, non ultima, la struttura della fabula. Per far ciò Eco anagramma alcuni spunti generati dalla lettura di Sylvie di Gérard de Nerval, in particolare trasferendone all’Isola il gioco a effetti di nebbia, non solo dotando il dettato di particolari risultati estetici, ma inserendo un reagente chimico di volta in volta capace di fare più evanescente o più chiaro un qualche elemento del testo.
Non mero abbellimento, l’effetto di nebbia configura il carattere del personaggio, confuso e senza oriente, in qualità di “lector” degli indizi della realtà circostante, tanto quanto i ‘paranoici’ eroi del Pendolo di Foucault; ma altre sono le marche che differenziano quelli dal nobile piemontese: se Casaubon e colleghi ricercano verità sempre differite in oggetti altri, Roberto spezza la propria quête o forse neppure la inizia, chiuso in una sorta di universo parallelo che assume la figura del cerchio, della prigione di specchi, della linea che s’inchiocciola. Non è un caso che il De la Grive adoperi, per fare un esempio, le memorie dell’assedio di Casale del 1630 per descrivere il proprio bizzarro naufragio sulla Daphne, e che le sensazioni provate in gioventù servano quindi l’espressione dei sentimenti che ne scuotono la maturità.
Il meccanismo – che del romanzo informa la prima e l’ultima parte[1] – dà rilievo a alcune caratteristiche della strategia interpretativa di Roberto, sostanziandola in catene di rimandi analoghi alla semiosi illimitata di Peirce. Lo stesso narratore spiega l’oscillazione che ritrae, con segni uguali, passato e presente, rimandando al gusto tutto barocco per le similitudini, ma anche per le “elaborate antitesi” che legano eventi fra loro lontani nel tempo e nello spazio. Ma poi continua:

E forse c’è altro ancora. Nella prima parte della sua vita Roberto aveva avuto solo due periodi in cui aveva appreso qualche cosa del mondo e dei modi di abitarlo, intendo i pochi mesi dell’assedio e gli ultimi anni a Parigi: ora stava vivendo la sua terza età di formazione, forse l’ultima, alla fine della quale la maturità sarebbe coincisa con la dissoluzione, e stava cercando di congetturarne il messaggio segreto vedendo il passato come figura del presente[2].

Delucidazione che, oltre all’accenno a un messaggio segreto, sembra rendere esplicito il concetto di “figura” come interpretante: categoria peirciana che si presta a definire i collegamenti temporali operati da Roberto, trovando coesione in un fondamentale elemento del romanzo, l’utilizzo programmatico della metafora, tra le più intime fibre del gusto secentesco per la ‘maraviglia’. Essa aggancia in profondo le radici del testo attraverso due canali o, se vogliamo, due ‘voci’: implicitamente – sebbene il romanzo non sia in prima persona – con le parole stesse di Roberto vergante iperboliche lettere all’amata Signora (in realtà dovute alla penna di Cyrano de Bergerac); a queste s’intreccia il resoconto del narratore che, rapito in una sorta di ‘angoscia dell’influenza’, finisce  a utilizzare anch’egli quel linguaggio metaforico le cui virtù son documentate da un personaggio d’eccellenza, padre Emanuele (nelle intenzioni di Eco, Emanuele Tesauro), comparso in un capitolo che s’intitola come l’opera cardine del gesuita sul concettismo barocco, Il Cannocchiale Aristotelico; e a incrementare la meraviglia del lettore, da testo scritto, l’opera del Tesauro si cambia in strumento meccanico produttore di infinite (o meglio, illimitate) catene di metafore; con esso, padre Emanuele insegna a Roberto un modo di vedere le cose, un sistema conoscitivo basato sull’“Artificiosa Eloquentia”, su una “Trama di Parole”, su una “Idea Perspicace” (p. 84) che incrementa il vigore evocativo di singole parole con altre alle prime unite da lacci sorprendenti, in quanto “se l’Ingegno, e quindi il Sapere, consistono nel legare insieme Notioni remote e trovare Simiglianza in cose dissimili, la Metafora […] è la sola capace di produrre Maraviglia” (pp. 85-6). Rendendo operativi i dettami del Cannocchiale, la Macchina Aristotelica, “il mobile più strano di cui si possa dire” (p. 87), amplifica fino alle conseguenze estreme quella catena di interpretanti che per Roberto è l’unico valido sistema di decodifica.
La Daphne ospita un verziere che raccoglie numerosi esemplari, tra i più belli e meravigliosi, di piante e fiori tolti alle terre esplorate durante la navigazione. Scoperto quasi subito il Serraglio degli Stupori (così il capitolo), sopraggiunge per Roberto l’impasse a battezzare ciò che vede[3]: è l’uomo di fronte alla meraviglia dello sconosciuto, dalla razionalità immota, eppur dinamico, quasi frenetico, coi sensi. Se, infatti, l’esperienza non gli giunge in soccorso – né a Casale, né a Parigi, ha mai visto qualcosa di simile – non può che affidarsi alla vista voltando i dati sensibili in metafore. Il filtro del conosciuto gli mostra allora “foglie che dapprima gli erano parse come la coda di un gambero”, fiori come “un orecchio giallo in cui pareva avessero infilato una pannocchietta” (p. 38), vegetazioni suggestive, “inverosimiglianze convincenti, dilaniate delizie e saporose menzogne” (p. 39) che suggeriscono il falso mentre emanano profumi simili a droghe, un “oppio dei sensi, […] una ronda di putridi elementi che, precipitando in impuri estratti, lo aveva condotto agli antipodi del senno” (p. 40). Nel verziere, che ripete i languori dell’Adone mariniano, incontra poi un’enorme uccelliera, una “grotta delle meraviglie, dove gli animali svolazzando facevano oscillare le gabbie e queste incrociavano i raggi del sole” (p. 41): creature dovute all’intervento di un’entità quasi innaturale, alla mano di un artista, per nominar le quali, una volta ancora, è necessario il ricorso al tropo come strumento di conoscenza, sebbene quello stesso linguaggio metaforico finisca per generare confusione, incapace com’è di coniare semplici denotazioni, e sortendo infine alcuni involontari effetti comici: scorge uccelli come “prelati dall’ampia coda cardinalizia e dal becco a forma di lambicco”, e ci informa che “ingrugniti cavalleggeri, dalle lunghe gambe nervose in uno spazio troppo angusto, nitrivano sdegnati cra-cra-cra” (p. 41). E poi:

In una gabbietta accanto tre fantaccini restavano al suolo, privi d’ali, saltellanti batuffoli di lana infangata, il musetto da sorcio, baffuto alla radice di un lungo becco ricurvo fornito di narici con le quali i mostricini annusavano piluccando i vermi che trovavano sul cammino… (p. 41).

Ancora una lunga serie di metafore (che a ragione si possono rubricare sotto la categoria del concettismo barocco), mirabolanti e sorprendenti per artificiosità, per ingegnosità splendide, ma disagevoli per Roberto, ridotto a vestire suo malgrado i panni del Nomoteta del Cratilo platonico. Come accadrà più oltre per la descrizione del meraviglioso piumaggio della Colomba Color Arancio, egli è angosciato non tanto dall’incapacità, quanto dalla condanna a organizzare attraverso la parola la realtà esterna[4], a strutturare un universo non ancora strutturato (e non strutturabile), a leggere il mondo senza la scorta di alcuno schema già predisposto da altri. Per questo, di fronte alle voliere della Daphne, si sente un

impacciatissimo Adamo, [che] non aveva nomi per quelle cose, se non quelli degli uccelli del suo emisfero; ecco un airone, si diceva, una gru, una quaglia… Ma era come dar dell’oca a un cigno (p. 41).

***

[1] Per questo tipo di costruzione della fabula si veda Eco, Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2002, p. 350, dove l’autore spiega com’è strutturata la sequenza temporale del romanzo: ”…non una sequenza temporale a serpente, come per il Pendolo, ma a un passo-avanti-e-tre-indietro, uno-avanti-e-due-indietro, uno-avanti-e-uno-indietro. Roberto ricorda qualcosa, e intanto qualcosa accade sulla nave. Qualcosa accade sulla nave, e Roberto ricorda qualcosa.”
[2] Umberto Eco, L’isola del giorno prima , Milano, Bompiani, 1994, p. 44. D’ora innanzi indicherò il testo con la sola indicazione della pagina tra parentesi.
[3] L’impasse di Roberto è allegoria di un desiderio sempre frustrato. Ma, se svuotato da implicazioni negative, è semplice segno della malinconia per qualcosa di irraggiungibile, ed è anche effetto-nebbia.
[4] Nelle pagine conclusive verremo a sapere che egli si sente come un “pioniere in una terra ignota” e, di fronte all’immensità del cielo antipode, “non guarda le costellazioni: è condannato a istituirle” (p. 471).

Articolo apparso per la prima volta qui.

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