L’orrore sottopelle
Roman Senčin e L’ultimo degli Eltyšev
Lazzaro guardava, senza intenzione di dir qualcosa,
senza proposito di nulla celare: guardava soltanto:
glaciale, con infinita apatia astratto da cosa vivente
(Leonid Andreev, Lazzaro, trad. Clemente Rebora)“Ma”: la terribile parola della disperazione.
(Tommaso Landolfi)
Parole tremende ne ho tradotte tante, negli ultimi vent’anni. Parole che raccontavano storie di lager, storie di guerre recenti e passate, storie di violenze fisiche in ogni declinazione.
Poi l’anno scorso è arrivato Roman Senčin. Lo conoscevo, avevo letto alcuni suoi racconti, un altro suo romanzo. Non quello che mi proponevano.
La prima lettura – lo confesso – è stata veloce (c’erano le bozze di Anna Karenina che pretendevano tutto il mio tempo), la prima impressione buona, ma senza punti esclamativi.
La musica, come spesso accade, è cambiata drasticamente quando ho iniziato a lavorarci.
L’ultimo degli Eltyšev è un romanzo spaventoso, terribile, agghiacciante (e potrete immaginare quanto, se derogo bulimicamente alla regola aurea pontiggesca di limitare gli aggettivi). Di un orrore, però, che non è mai sbattuto in faccia, mai gridato né affisso sui manifesti. L’orrore di Senčin è rettileo, sottocutaneo. Entra piano piano nei pori, li ostruisce e lì resta per un bel po’.
Senza pietà. E senza pietas.
Il crollo progressivo e inesorabile della famiglia Eltyšev, che deve lasciare la città e una vita (faticosamente) decorosa per trasferirsi in un paesino di campagna dove tutto (proprio tutto!) andrà a catafascio, è descritto con scrupolo chirurgico, con freddezza chimica, con distacco – come definirlo? …venatorio, forse. Venatorio sì: Senčin è come il cacciatore che aspetta ore e ore senza un movimento la preda che si è scelto. Senza un’alzata di ciglio, senza un respiro che non sia controllato, con rispetto per l’animale, ma senza alcuna partecipazione al suo destino.
Forse per questo fino alle ultime righe (arrivateci, alle ultime righe, per favore!) chi legge non riesce a provare compassione per nessuno dei personaggi. Solo per Valentina, forse, la moglie, ma mai del tutto nemmeno per lei. Non c’è compassione né altro sentimento che tenga, in questa storia. Ma fin dalle prime righe c’è la sensazione indistinta e inarginabile che nulla di buono potrà accadere.
E nulla di buono, difatti, accade.
Mai, nel romanzo di Senčin, sopraggiunge “l’oppio assurdo dell’ottimismo”, come lo definiva Vasilij Grossman. Mai i personaggi trovano una via d’uscita, o anche solo una modesta scappatoia. Sempre sono ignorati, delusi, traditi, truffati da chi hanno intorno. “Mi dispiace per loro” ha commentato lo scrittore in un’intervista, “ma non so come aiutarli”…
Non li aiuta nemmeno con le parole, Roman Senčin. Per lui una critica letteraria russa ha usato l’espressione “scrittura zero”: niente fronzoli, niente immagini, niente metafore. Non è una lingua nuova, la sua, è piuttosto un “grado zero” della scrittura: chirurgica (di nuovo), asettica e perciò di assimilazione lenta, ma potentissima. È lievito, quasi: agisce nel tempo, gonfia la sua efficacia se lasciata scaldare.
È, in più, una scrittura che sa sottrarsi alle descrizioni (poco, quasi nulla, è detto dell’aspetto fisico dei protagonisti e degli altri personaggi, liquidati con un paio di tratti di matita grassa) o che, al contrario, alle descrizioni – dettagliatissime, soffocanti quasi – indulge: penso alla narrazione centellinata, ma meticolosa in ogni dettaglio della (non)costruzione della casa nuova, e penso soprattutto all’epica (non saprei come altro definirla) del lavaggio-piatti, descritto in ogni faticosa, improba fase del suo compimento. Come a sottolineare anche in questa sottrazione-moltiplicazione lessicale che le persone, gli esseri umani nulla contano, nulla possono contro quanto hanno intorno e li fagocita.
Rendere la lingua di Senčin non è stata una passeggiata. Proprio perché il confine fra scarno e sciatto è sempre labile, proprio perché il gelo nasconde in realtà una materia calda che non andava raffreddata insieme alla lingua. Il distacco doveva essere reso – come dirlo, di nuovo? – a temperatura corporea, in un equilibrio delicato e fragile fra la disperazione e il vuoto di sentimenti. Una parola è poca e due sono troppe, diceva sempre mio nonno, lasciandomi a pensare – bambina – a quale potesse essere la cosa giusta da fare.
È stato un po’ così anche per le pagine di Roman Senčin.
Del resto, che lo si chiami “nuovo realismo”, “realismo post-sovietico” o “realismo” tout court, viene da credere a Sergej Beljakov: studieremo la Russia dei decenni a cavallo del Duemila sui romanzi di Senčin, così come studiamo la Francia dell’Ottocento su quelli di Balzac e Zola. Senza scomodare i grossi nomi, non siamo comunque lontani dal vero.
Le stesse sensazioni che mi stanno arrivando dalle pagine di questo libro, peraltro molto bello. Grazie
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Grazie, Claudia!
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