Tra i molti bei libri (spesso bellissimi) a cui ho avuto la fortuna di lavorare, probabilmente nessuno più di Non dite che non abbiamo niente di Madeleine Thien (che ho tradotto insieme a Maria Baiocchi per i tipi di 66th and 2nd) mi ha offerto l’occasione di riflettere e ragionare sul nostro ineffabile mestiere.
Questo libro particolarissimo si presenta infatti come una sorta di scatole cinesi (è proprio il caso di dirlo): vi si intrecciano infatti non due ma addirittura tre vicende diverse e annodate tra loro, con un dialogo continuo tra Canada e Cina, tra inglese e cinese, tra musica e matematica.
Un dialogo che inizia già dall’autrice, canadese di origini asiatiche, e prosegue con la voce narrate della “cornice”, se così la possiamo definire: Ai-ming/Marie, che incontriamo bambina all’inizio del romanzo, nel 1989, rivela già nel doppio nome la sua condizione di persona nata a Vancouver da genitori cinesi, uno straniamento che si manifesta nella sua incapacità di imparare a leggere e a scrivere nella lingua dei genitori.
Ai-ming dunque racconta la sua storia in inglese, ma la sua storia – o meglio quella della sua famiglia – la apprende da una ragazza diciottenne, Li-ling, scappata dalla Cina all’indomani della Rivolta di Tienanmen. E Li-ling racconta – sempre in inglese – una vicenda che prende le mosse nella Shanghai dei primi anni Cinquanta, all’epoca del Grande Balzo in Avanti, e si snoda nell’ambiente del prestigioso conservatorio di musica di Shanghai fino ad arrivare, seguendo i suoi protagonisti, alla Pechino invasa dai carri armati durante la rivolta di piazza Tienanmen. Nel corso del libro la voce di Ai-ming e quella di Li-ling si intrecciano e si confondono, dando vita a un’armonia a cui fa da contrappunto un misterioso e affascinante manoscritto cinese, il Libro dei Ricordi, che narra un’altra vicenda ancora (finzione? realtà?), a sua volta sottilmente collegata a quella dei protagonisti “reali”.
È dunque di necessità, come dicevo, una narrazione che nasce già bilingue, in cui gli scambi e le commistioni tra l’inglese e il cinese sono continui e inestricabili, e questo benché in molta parte della narrazione nessuno dei personaggi parli o nemmeno conosca l’inglese. Mentre la “vera” narratrice (se di verità si può parlare, in questo libro come nella vita, ci correggerebbe subito Thien) è Ai-ming/Marie, canadese di nascita, cinese di origine, che il cinese peraltro sa poco o niente.
Cosa succede quindi se in questo intreccio viene a inserirsi una terza lingua, l’italiano, e ancora un altro mediatore, l’editore 66th and 2nd e le traduttrici di Non dite che non abbiamo niente?
Succede che ci siamo trovate spesso a rimettere in gioco e in crisi le nostre convinzioni in materia di “teoria della traduzione” (ammesso che nutrissimo delle convinzioni radicate) e in particolare a pensare e ripensare alla decisione se tradurre o meno i nomi, alcuni in inglese e alcuni in cinese, dei protagonisti del romanzo.
Alla fine, dopo molti ripensamenti e ragionamentitra noi due e tra noi e la redazione, abbiamo stabilito di tradurre in italiano tutti i nomi cinesi che nel testo originale erano stati a loro volta tradotti in inglese: un po’ per aiutare il lettore a districarsi nel labirinto di questa complessa ma avvincente saga familiare, un po’ per conservare il carattere favolistico di una narrazione che si richiama esplicitamente ai grandi classici della letteratura cinese.
Così Passero e Gran Madre Coltello respirano fianco a fianco con Kai e BàLute, Da-wei e Quattro Maggio, la Vecchia Gatta e Wen il Sognatore, la dolce Zhuli e la tenera Trottola. E la matematica Ai-ming insegue le tracce del padre musicista sul filo conduttore delle Variazioni Goldberg di Bach ma anche della musica di Prokof’ef e di Ravel, e dello stesso Passero.
Ma la struttura del romanzo ci ha chiesto anche di seguire Madeleine Thien nel suo tentativo di far rivivere sulla carta una tradizione di narrazione orale, con le sue infinite “Variazioni”, i ricordi “sbagliati”, le imprecisioni tipiche di chi racconta una storia ai propri figli, o ai nipoti, o semplicemente ai giovani che ancora credono nell’importanza del ricordare, che ancora credono che “non tutto è destinato a passare”. E come la storia di Da-wei e Quattro Maggio viene continuamente riscritta e impercettibilmente modificata, e in qualche modo modifica a sua volta la vita dei “copisti” che la riscrivono e la modificano, così anche noi, riscrivendo e reinventando in un’altra lingua tutte queste vicende, abbiamo a nostra volta – volenti o nolenti – modificato e inserito nuove “variazioni”, dalle quali probabilmente, anzi certamente, siamo state in qualche modo “cambiate”.
In questa straordinaria e complicata avventura ci hanno aiutati in tanti, e non è certo questo lo spazio per poterli ringraziare, ma loro sanno e sanno che siamo immensamente grate del loro apporto. Mi corre però l’obbligo imprescindibile di citare la redazione di 66thand2nd e in particolare Eleonora Cucurnia, straordinaria responsabile della revisione, senza la cui precisione, pazienza e dedizione oggi questo libro dei ricordi non sarebbe altrettanto bello.