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Roberto Todisco è nato a Napoli nel 1982. Durante il periodo della laurea in lettere moderne ha vissuto per un anno a Venezia, poi ha messo su casa nella città di Portici. Brillante, affabile, molto attivo sul territorio, si occupa di comunicazione digitale e di formazione. Parlando con lui arriva forte la sensazione che ci sia tutto un mondo al di là di questi pochi tratti biografici, si percepisce chiaramente di avere davanti un uomo che ha più di una storia da raccontare. E leggendo il suo romanzo si scopre che lui sa pure raccontarle, le storie.
Non stupisce quindi che il suo Jimmy l’Americano si sia aggiudicato la menzione speciale della giuria nella 30° edizione del Premio Italo Calvino, e che la casa editrice Elliot abbia voluto pubblicarlo nella collana Scatti. Roberto ha saputo creare un intreccio solido e ben dosato, costruito in maniera esemplare, capace di trasportare il lettore proprio là dove il libro intende arrivare. Un percorso ricco di suggestioni e riflessioni che alla fine ci lascia con il più dolce degli stupori, quello che nasce dalla consapevolezza di poter sognare ancora. Per chi volesse incontrarlo, il prossimo 11 maggio sarà ospite del Salone del Libro di Torino, all’interno dello spazio dedicato al PIC.

Partiamo da lui, il tuo protagonista: come hai disegnato Giacomo Tancredi, detto “Jimmy l’Americano”?

Jimmy è nato da un’esigenza, dare voce alla parte dinamica della mia personalità e, di conseguenza, della mia scrittura. Le cose in cui mi ero cimentato fino a quel momento, racconti più o meno lunghi, esploravano uomini molto cerebrali e la maggior parte degli avvenimenti narrati riguardava l’interiorità. Con Jimmy invece ho voluto raccontare fatti, perfino rocamboleschi. Forse per questo ho creato un personaggio così impulsivo, umorale, capace di mettere continuamente sottosopra la propria vita, salvo poi pentirsene ogni volta. Tuttavia, una delle cose che mi hanno dato più soddisfazione è l’evoluzione del protagonista, la sua crescita: lo incontriamo quando è uno studente di medicina interessato solamente alle donne e al cinema, antifascista per irrequietezza più che per ideologia, ma nel corso della storia scopriamo assieme a lui un uomo capace di farsi carico del proprio destino e di quello dei suoi compagni.

Per quanto riguarda l’ambientazione storica ne hai scelta una molto precisa, il periodo fascista, mentre hai volutamente lasciato vaga l’ambientazione geografica. Perché questa scelta?

Il libro inizia nel 1937, probabilmente l’apice della disgraziata avventura fascista, un attimo prima che tutto precipiti verso la guerra. Questa atmosfera da “giorno prima della tempesta” mi affascina. E poi credo che il ventennio, oltre a essere molto interessante per indagare alcuni dei mali che ancora serpeggiano nel nostro Paese, è un ottimo campo di forze per mettere alla prova i personaggi. Come nella vita, ritrovarsi in situazioni straordinarie costringe a tirare fuori tutte le energie, a mettere in discussione i rapporti e le convinzioni, fino a scoprire chi siamo veramente. Cosa avremmo fatto noi di fronte ai soprusi delle camice nere? E come ci saremmo comportati dopo l’emanazione delle leggi razziali?
Se da un lato ho sottoposto i miei personaggi alla grande pressione della storia, dall’altro ho voluto dare loro la possibilità di muoversi in un luogo totalmente libero dal condizionamento della realtà, per questo ho scelto di ambientare la storia in una cittadina immaginaria, anche se collocabile sulla costa vesuviana, vicino Napoli. Marinella diventa così una sorta di Oz, dove Jimmy e gli altri varcano continuamente il confine, avanti e indietro, fra reale e fantastico. Alla fine sceglieranno la libertà dell’immaginazione, pur consapevoli di avere la malvagia Strega dell’Est alle calcagna.

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Al di là della trama, il cuore pulsante del tuo romanzo è la passione. La passione di Jimmy, la passione di Teresa. E, alla base di tutto, la passione dell’autore, cioè la tua.

La passione è il motore di tutto. Non a caso il libro è dedicato a François Truffaut. Come il personaggio interpretato da Jean-Pierre Léaud in Effetto Notte, anche Jimmy sembra chiedersi se le donne siano delle maghe, e in effetti ne è totalmente ammaliato. In tutto quello che fa, dalla relazione con Teresa al cinema, passando attraverso il rapporto con Italo (il marito di Teresa) che nasce come un’indagine, Jimmy è un fissato. Quella di Teresa invece è una passione mediata dalla testa e filtrata dalla morale, per questo è in qualche modo più tormentata. Eppure, anche lei si lascerà pervadere da una forza che non credeva di avere, senza sensi di colpa, gioiosa e vivificatrice. Come accade ai personaggi, tutta l’anima passionale del libro ha una sua evoluzione: inizia vestita da tradimento e pian piano si trasforma in anelito di libertà.

Nella costruzione del romanzo non ti sei limitato a intrecciare storia vera e personaggi immaginari, sei arrivato perfino a inserire nella trama personaggi realmente esistiti, come Greta Garbo. Da dove ti è venuta l’idea?

In un documentario sulla sua vita, ho sentito Philip Roth dire che, quando scrive, ha bisogno di due legnetti di realtà per accendere un fuoco di realtà. Credo che anche per me funzioni così. Nella costruzione della trama mi sono divertito a inseguire le coincidenze dei fatti realmente accaduti e a volte ho avuto davvero la sensazione che la storia stessa si presentasse a me nella forma migliore per essere raccontata. L’unica condizione è aver sempre voglia di lasciarsi andare, senza paura di rischiare l’inverosimile, perché la soluzione può nascondersi ovunque. Ti faccio un esempio. In un momento della storia avevo bisogno che i protagonisti riuscissero a mettere le mani su alcune pellicole che a causa dell’autarchia non erano state distribuite in Italia. Serviva un legame diretto fra Hollywood e Marinella. E così, cercando questo legame, ho scoperto che Greta Garbo aveva trascorso un breve soggiorno a Ravello proprio in quegli anni. Era perfetto, non mi restava altro da fare che chiudere gli occhi e buttarmi.

Parli di due legnetti e mi dai lo spunto per sottolineare che in Jimmy l’Americano tutto viene letto attraverso due lenti: la lente del cinema (hollywoodiano) e la lente della letteratura.

Claude Chabrol diceva scherzando che per l’amico Truffaut era stato molto facile fare il regista, dal momento che aveva avuto una giovinezza avventurosa, tormentata e piena di storie da raccontare, mentre per lui, cresciuto in un tranquillo ambiente piccolo borghese, era tutto da inventare da zero. Io sono certamente come Chabrol. Il mio immaginario si è costruito attraverso visioni e letture, e credo che questo sia molto evidente nel romanzo. Il cinema e la letteratura, fra l’altro, sono in qualche modo rappresentati dai due protagonisti maschili. Jimmy è ovviamente il cinema: spettatore compulsivo, nipote di un proiezionista di provincia, frutto di un’educazione sentimentale a base di Louise Brooks e Greta Garbo. Italo invece è il letterato, un giornalista e un uomo abituato a elaborare le proprie esperienze tramite la parola scritta, un reporter così raffinato da essere soprannominato “il Poeta”.

C’è anche un ulteriore dualismo nel tuo romanzo: la marea montante della guerra, aggressiva e caotica, e la quiete isolata della Villa, una sorta di mondo incantato che regala ai personaggi una parentesi di altrove.

Cinema e letteratura si incontrano proprio nella Villa fuori Marinella nella quale, per due volte, i personaggi si rifugiano lontano dalla guerra. L’importanza de Il giardino dei Finzi-Contini nella costruzione dell’atmosfera è fondamentale, sia il film che il libro. Non credo di essere tagliato per raccontare la guerra dall’interno, mi piace piuttosto mostrarne i margini, l’attesa di chi resta a casa ad aspettare o di chi, con lo sguardo per aria, teme i bombardamenti. Mi piace pensare che questa tendenza possa derivare anche dall’influsso letterario di Pavese, scrittore che io amo sopra chiunque altro.
L’isolamento della Villa è essenziale per il senso stesso del romanzo: è la sua realtà sospesa che rende possibile il compiersi del rapporto fra Jimmy, Italo e Teresa, creando uno spazio vuoto in cui i protagonisti riscrivono il proprio mondo e lo fanno, neanche a dirlo, accompagnati dal cinema.

A proposito del triangolo Jimmy-Teresa-Italo, che tipo di rapporto instaurano tra loro i due personaggi maschili? Secondo te si può parlare di amicizia?

Non so se la definirei amicizia, quella fra Jimmy e Italo. Il loro rapporto esiste solo attraverso Teresa, che è l’unico “luogo” nel quale avrebbero mai potuto incontrarsi. Sono due poli di energia che si attraggono e si influenzano. L’evoluzione di Jimmy probabilmente non sarebbe potuta avvenire senza Italo. È il contatto con quest’uomo consapevole e coraggioso che spinge Jimmy a trovare dentro di sé la forza per diventare finalmente il motore della storia. Per contro, Italo impara da Jimmy quel pizzico di follia che lo porterà a fare il gesto che alla fine forse lo trasforma, a dispetto del titolo, nel vero eroe del romanzo.

Per non svelare troppo del romanzo, usciamo dalla sua intrigante atmosfera e caliamoci brevemente nella realtà della tua vita. Com’è stata l’esperienza con il PIC?

Fantastica. Fin dal momento della famigerata telefonata del presidente Mario Marchetti, sono entrato a far parte di una vera comunità. Arrivare in finale al Premio Italo Calvino, oltre ad essere un’opportunità unica (all’improvviso non solo qualcuno sembra interessato a quello che scrivi, ma ti invita al Circolo dei Lettori di Torino per parlarne davanti a scrittori professionisti, editor e giornalisti. Un sogno.), significa poter contare sull’appoggio di persone competenti e appassionate. Per un esordiente è tutto nuovo e la loro guida è importantissima, anche nel gestire gli inevitabili picchi di euforia e depressione che accompagnano lo scrittore sia nel lavoro di editing che nel percorso del libro dopo l’uscita. E poi mi ha dato l’opportunità di conoscere delle persone eccezionali, gli altri finalisti della 30° edizione. Si è creato fin da subito un bel gruppo. Ci sentiamo costantemente, ci teniamo aggiornati e ci sosteniamo l’un l’altro.

Come hai vissuto il percorso che ti ha condotto dal manoscritto al libro pubblicato?

Eccoli, i picchi emotivi a cui accennavo. Sono state vere e proprie montagne russe. Tre giorni dopo la finale ho ricevuto la telefonata di Loretta Santini (la direttrice della Elliot) e nel giro di una settimana mi sono ritrovato a Roma per avviare la nostra collaborazione. Insomma, tutto bellissimo, cominci a credere di aver scritto qualcosa di veramente buono. Poi però arriva il momento in cui ricevi la prima revisione con le note dell’editor e ti viene da piangere. Sono stati molti gli aspetti sui quali siamo intervenuti, rispetto alla versione che ha concorso al Calvino. Dopo lo sconforto iniziale (momento nel quale l’editor si trasforma anche un po’ in un sostegno emotivo) è iniziato un lavoro lungo circa cinque mesi, durante il quale ci siamo immersi a fondo nella storia e nella mia scrittura. Credo che ne siamo riemersi portando in superficie qualcosa di molto migliorato. Soprattutto i personaggi ne hanno guadagnato, secondo me. Sono più completi, mi verrebbe da dire più “belli”. Anche il lavoro sulla lingua è stato intenso: per uno che ha sempre sognato di fare lo scrittore, accapigliarsi su un aggettivo è il massimo della vita. Dopo la comunità del Calvino, in Elliot ho trovato una casa.

E dopo cosa succederà? Farai lo scrittore?

Per rispondere a questa domanda ti racconto un piccolo aneddoto. Da quando è stato pubblicato il libro, mia madre non perde occasione per comunicarlo a tutte le persone che incontra. Così un giorno la cassiera del mio bar di fiducia mi dice: – Ho saputo che lei scrive. – “Lei scrive” mi piace, sembra un’espressione che contiene la giusta dose di prudenza. Di sicuro continuerò a scrivere perché non posso farne a meno; è l’unica maniera che conosco per vivere tutte le potenziali vite che mi porto dentro (risparmiando i soldi dello psicanalista). Se poi farò lo scrittore, questo dipenderà da tanti fattori, a partire dalla presenza di persone disposte a dedicare un po’ del loro tempo alla lettura delle mie parole.

Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May