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Alessandro Pierozzi è molte cose: romano, marito, padre di due figlie, nonno di sette nipoti, sindacalista, metalmeccanico, pensionato, scrittore. Non stupisce che abbia così tanto da raccontare.
Con Luce in una notte romana si è meritato la finale della 29° edizione del Premio Italo Calvino e la pubblicazione con PIEMME. Approdato in libreria ad aprile, il romanzo di Pierozzi è arrivato in tempi brevissimi alla seconda ristampa, risultato notevole per un esordiente defilato e poco social come lui. Cosa che la dice lunga sulla qualità del suo lavoro, ma anche su noi lettori, per fortuna.
Nel costruire l’intervista avrei forse dovuto sintetizzare alcune parti, snellire qualche passaggio, limare un po’ il costrutto delle risposte. Avrei potuto, ma ho scelto di non farlo, perché quando Alessandro parla il tempo cambia passo; si potrebbe ascoltarlo per ore senza stancarsi mai. E lui è così che racconta le sue storie, con questo tono, con questo respiro, con questa struttura.
Pierozzi ci consegna senza riserve la sua memoria, che è anche la nostra memoria; per quanto il mondo provi a correre veloce, noi potremo sempre ricordare chi siamo, finché ci saranno voci come la sua.

Partendo da uno sguardo complessivo, è corretto definire “popolare” il tuo romanzo?

Credo di sì. In questo libro ho raccontato due microcosmi: quello di un cortile delle case popolari a Testaccio, dove ho abitato, e quello di una fabbrica metalmeccanica, dove ho lavorato. Se possiamo chiamare “popolo” una comunità di persone all’interno di confini definiti, allora l’umanità che abita i limiti rimpiccioliti, ma perfettamente individuabili, di quel cortile e di quella fabbrica è “popolo”. In questo senso è vero, la mia storia ha un respiro sicuramente popolare.
Secondo me il termine “popolare” definisce ciò che appartiene al “popolo”, che è proprio del “popolo”. È una qualità.
All’epoca del mio racconto, “popolare” significava una civiltà dello stare insieme, un comune sentire di esperienze, di passioni e di speranze. Sui pianerottoli le porte delle case erano aperte, specie d’estate; lo scambio di chiacchiere e di cose era continuo. Perfino i profumi diversi del cucinato risalivano e discendevano le scale, non era difficile indovinarne la qualità e la provenienza. Le fontane e il cortile erano una cassa di risonanza di pettegolezzi e novità.
In estate, quando si apriva la stagione del Teatro dell’Opera di Caracalla, il muraglione sovrastante il palcoscenico si riempiva di amanti del bel canto. Famiglie intere vi si accalcavano sopra. E molte, come la nostra, si portavano la cena. C’era un gran vociare, una “pipinara”, ma quando iniziava lo spettacolo si faceva un silenzio nel quale avresti sentito volare una mosca. Era, quella spiaccicata sul muraglione delle Terme di Caracalla, una moltitudine di gente, tutta povera in canna. Senza sbagliare l’avresti potuta definire una comunità, insomma “popolo”. E poi c’era, fortissima, la speranza in tempi migliori.
E tutto questo io racconto.
Oggi di tutto questo è rimasto poco, forse niente.

Nel 1949, anno in cui si svolgono le vicende narrate, tu avevi otto anni. Come hai vissuto quel periodo e come lo ricordi?

La struttura portante del romanzo è la memoria, di luoghi, di persone e di avvenimenti. È la memoria dei racconti di mia madre, di mio padre, di mia zia, dei miei fratelli, il tutto ricomposto nella mia memoria di quei racconti e di quei fatti. Perché in quel fine anno 1949 io ero lì, al centro della scena. C’è, nella mia storia, il bisogno di ricreare un modo di vivere e di sentire. È un mondo che non c’è più, ma è bene sapere che c’è stato.
Negli appartamenti di quelle case popolari non c’era acqua corrente. L’acqua, sempre insufficiente, si raccoglieva nei cassoni. Il cesso era una tazza. Non c’era vasca da bagno. Le fontane stavano nel seminterrato ed era una fatica spossante portare la biancheria da stendere al sesto piano. Si cucinava con la cucina economica, un cubo di laterizi che andava a legna e carbonella. D’estate la casa si riempiva di “bacarozzi”. Non c’era riscaldamento. Mio padre faceva parte dell’élite operaia, ma con il suo salario non si arrivava mai alla fine del mese. Si cenava a caffellatte con la ricotta per andare al cinema. Arzilla e broccoli non era un piatto raffinato, ma una pietanza che costava poco. Di tutto questo ci si accorgeva, ma non più di tanto.
Però in quel 1949 ci fu la serrata e l’occupazione della fabbrica dove lavoravano mio padre e mia zia, e di quello ce ne accorgemmo, eccome se ce ne accorgemmo. Quella storia, sulla pelle della mia famiglia, bruciò sudore e lacrime, perché mio fratello piccolo tra dicembre e gennaio si ammalò di difterite. Stavamo al quinto mese di occupazione, quando ogni risorsa di sopravvivenza era stata bruciata da un pezzo e mia madre non sapeva dove sbattere la testa. Ci venne in aiuto nonno Antonio, che non possedeva una lira, ma aveva ancora abbastanza credito da farsi prestare dei soldi. Fu una battaglia epica, quella dell’occupazione, e ne uscimmo in piedi. Mia sorella ricorda quel periodo con angoscia. Ancora non riesce a digerirlo. Mio fratello maggiore ne parla poco, non ho mai capito se ha dimenticato o voluto dimenticare. Io invece di quei racconti e di quei fatti ho un ricordo mitico; ho raccontato tutto alle mie figlie e oggi lo racconto ai miei nipoti, perché credo che questo sia il compito della memoria.
E fa parte del mio romanzo.

Cover Pierozzi ritratti dal calvino Piemme verri blog

Il tuo libro è pieno di figure femminili forti e ben caratterizzate. Chi sono le donne che racconti e quanto somigliano alle donne della tua vita?

Il mio è un romanzo di donne. Ne sono le protagoniste assolute. E tutte, seppure in modi diversi, prevalgono sul loro ambiente. Giovanna lo fa in modo clamoroso sulle fontane, sulle terrazze, sul cortile, e lo fa coerente con la sua fisicità. Anna lo fa suo malgrado, ma è lei che si impadronisce gradualmente, con delicatezza ma ineluttabilmente, dei meccanismi di governo della propria famiglia. Perfino Rosalba, capricciosa, umorale, è lei che decide sempre, nel bene e nel male scioglie le situazioni, si impone sul nonno, sul marito, addirittura sul cortile e le sue voci. Ma questo vale per tutte le altre figure femminili. È Libera che continuamente rianima il suo uomo, lo sostiene e lo sprona, gli infonde fiducia. È Alessandra, lunatica, imprevedibile, indomabile da qualsiasi uomo, che sprezzante e sarcastica li irride spietata. La stessa Lucia, la sindacalista tutta ideali, quella che viene sconfitta nell’aspra lotta sindacale scaturita dalla serrata dell’OMA, esce dalla scena a testa alta, eroica e fiera.
Sono tutte donne, come si vede, intelligenti, fantasiose, fascinose, trascinanti.
Guardatevi in giro, scoprirete che non esistono soltanto nei romanzi, vi girano attorno.
Quello femminile è un mondo sfaccettato, curioso, litigioso, eroico, fantastico. Mai quieto. Lo osservi e non ti annoi mai. Nel mio percorso da sindacalista ho seguito alcune aziende con prevalente occupazione femminile. Le donne, nei loro rapporti, sono capaci di una profondità e di un’intimità particolarissime. Ti ci sperdi. Sono come quelle giornate in cui piove, poi esce il sole, poi piove ed esce il sole contemporaneamente, e poi ci scappa pure l’arcobaleno. Io ho due figlie: sono un miracolo che non mi stanco di osservare. Ammirato.

I tuoi personaggi sembrano quasi stereotipati, per certi versi: le donne sono bellissime e i sindacalisti ricalcano modelli strutturati. Perché questa scelta?

Premesso che la tipizzazione dei sindacalisti, come la bellezza delle donne, è funzionale al romanzo, l’osservazione è vera soprattutto per gli uomini. Nel romanzo descrivo quattro tipi di sindacalisti, come ne ho incontrati tanti nella mia vita, in fabbrica e fuori della fabbrica. Rodolfo Farina è il sindacalista integerrimo, fedelissimo al partito, che è la sua vita. Sogna la rivoluzione, un mondo migliore per il quale si è battuto da partigiano e che vede sempre più allontanarsi all’orizzonte. Con la sua reazione stizzosa nei confronti di compare Turiddu il sorvegliante, e di Salò il fascista – attenzione, io sono un predatore, vi mangio come niente, è questo il messaggio che manda – ho cercato di umanizzarlo. È l’unico che rende l’onore delle armi a Lucia. Piero Carosi, Piccolo Padre, è il prototipo del sindacalista duttile, pratico, realista. È quello che fa gli accordi possibili, ma è anche quello che nelle masse vede uomini, persone, non brigate di manovra. Gandolfi è il sindacalista opportunista, che utilizza il sindacato a fini di carriera. Lucia è la sindacalista idealista, avanti sui tempi che vive, incompresa dalle stesse lavoratrici per cui si batte. E ognuno di loro svolge il suo ruolo in sintonia con la tipizzazione che gli ho creato.
Nelle donne, là dove la posseggono, la bellezza è una caratteristica indispensabile al personaggio. Senza questo attributo il personaggio non funzionerebbe. È il corrispettivo del canto delle sirene che attira, inesorabile e ammaliatore. Così è la bellezza fresca di Anna, che cattura lo sguardo di Primo e la salva da un futuro di disperazione. È la bellezza singolare e straniante di Giovanna, che risveglia prima l’attenzione di Angelino Bersani, il Buzzichetto, e poi quella di Vergilio. E quella di Rosalba, la Venere in miniatura che, come una mela stregata, fa strage intorno a sé. Lucia, la sindacalista, difficilmente sarebbe stata invidiata per la sua intelligenza, così deve essere anche bella. E infine la bellezza di Alessandra Ogniomo non può che essere clamorosa e prorompente così com’è, per provocare le attenzioni che suscita e non solo nell’ambito della fabbrica, come lei racconta.

Il caseggiato che racconti si trova in Via Rossellini. Questa è soltanto una delle citazioni (mi verrebbe da usare la parola “tributi”) che rimandano al cinema e alla letteratura neorealista. Da quali nomi ti sei sentito ispirato?

Come ho detto, il romanzo è ispirato dalla memoria. È lì che nasce l’esigenza di raccontare. E poi certamente il cinema neorealista, e il Pasolini di Accattone. Sul piano letterario Pratolini, che andrebbe riscoperto. Poi c’è la fantasia, il piacere d’inventare, di costruire situazioni e personaggi. Non posso certo tralasciare i grandi americani: Steinbeck, Dos Passos, Caldwell. Su tutti Hemingway e Faulkner. Li leggevo da ragazzino sui Libri del Pavone e su una Medusa ancora in brossura.

Veniamo alla struttura del testo. Come mai hai pensato di dividerlo in sezioni separate, ciascuna dedicata a un personaggio?

Il motivo per cui, per il mio romanzo, ho scelto una struttura chiusa, è piuttosto banale. La mia età. Ho cominciato a scriverlo nei mesi di ottobre e novembre del 2000. A gennaio del 2001 avrei compiuto sessantuno anni e sarei andato in pensione. Ho pensato che, se nel corso del tempo mi fosse successo qualcosa, avrei lasciato parti leggibili autonomamente come racconti. Così ho scritto senza fretta. Non conosco il panico della pagina bianca. Ho terminato il romanzo nel dicembre del 2014. È stata un’intuizione di Francesca Lang, la mia editor, che mi ha convinto ad aprire la struttura nella forma attuale, leggibile come un romanzo.

E finalmente arriviamo a lei, Giovanna, la protagonista della storia. Come hai costruito il suo personaggio?

Se conoscessi la risposta a questa domanda, avrei scoperto l’origine dell’ispirazione e non avrei più problemi a costruire intrecci e personaggi. Mi torna in mente una ragazzina che osservavo dalla loggetta della casa di Testaccio, mentre tirava calci a un pallone. Lo faceva con applicazione ossessiva, di rimbalzo colpiva sul tempo la palla. Non sbagliava mai. O così mi pare nel ricordo. È quella la matrice da cui si è generata Giovanna? Non so dirlo. Giovanna non esiste in natura. Giovanna è la follia pura. Per me è la meraviglia che stupisce e cattura. Un emblema di leggerezza, un sogno. Un messaggio di libertà. E non mi pare poco.

Come mai alla fine hai deciso di metterti in gioco inviando il romanzo al Premio Italo Calvino?
In realtà non sono stato io a farlo. Appena terminato, il romanzo è finito nel cassetto, come si dice. Da lì lo ha tirato fuori mia figlia Benedetta. Indignatissima per la mia ignavia. È stata lei a farlo viaggiare nel mondo dell’editoria, inviandolo a diversi premi, tra cui il Calvino. Cosa mi aspettavo alla fine? Nulla, ma se corri, da qualche parte devi pure arrivare.

La pubblicazione del libro ha cambiato qualcosa nella tua vita?
No, non è cambiato niente. Se non che mia moglie, le figlie e gli amici adesso mi incalzano perché ne scriva un’altro. Ma dati i miei tempi di produzione, è tutto da vedere.

Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May

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