midwest_map_names_2048x2048.jpgIl Midwest di 50 anni fa: le moderate eppure affascinanti proteste giovanili della provincia americana, ripescate nel racconto di Guido Calogero, filosofo e saggista scomparso nel 1986; allora ne aveva 65 di anni e, in visita alla Notre Dame University nello Stato dell’Indiana, narrava di quei college nel cuore del Paese, scuole ben organizzate ed efficienti, che quindi non potevano offrire agli studenti il destro per protestare a proposito di ciò che veniva offerto loro (“Quanto all’organizzazione dei corsi e degli studi, è difficile che protestino, perché tutto quello di cui i nostri studenti in Italia lamentano la mancanza, loro l’hanno già”).

E dunque, per che cosa protestavano quei giovani della provincia americana? “Non potendo, però, protestare per cose che manchino a loro – scriveva Calogero -, protestano per cose che mancano ad altri”, infilando una dietro l’altra richieste che mescolano il piglio di moderati movimenti per i diritti civili (“Così, per esempio, hanno trovato che troppo esiguo è il numero degli studenti negri, a paragone dei bianchi”) alla richiesta, che ha il profumo della rivoluzione sessuale, di quella che allora era chiamata coeducation, l’apertura cioè dei college agli studenti (o alle studentesse) dell’altro sesso; e Calogero, con squisita precisione, racconta pure come le ragazze la sapessero più lunga dei maschi loro coetanei…

Vi lascio perciò alla lettura di questo vecchio articolo di giornale che condivide la stessa aria di certe pagine dei mitici campus novel.

 

di Guido Calogero

da «La Stampa» di mercoledì 21 Maggio 1969

La fisionomia di una nazione è in primo luogo quella della sua provincia. Nulla di meglio, quindi, per capire quel che succede nelle Università degli Stati Uniti quanto a scontentezza e a contestazione studentesca, che soggiornare per una settimana nel campus di una Università residenziale del Middle West. Di fatto, debbo tenere alcune lezioni alla Notre Dame University, nello Stato dell’Indiana, ma solo a mezz’ora di aereo da Chicago. Università di fondazione cattolica, come dice già il nome, ma nota per il suo buon livello, e per il suo spirito critico piuttosto che confessionale. Anche qui gli studenti faranno sentire la loro voce di protesta?
Quanto all’organizzazione dei corsi e degli studi, è difficile che protestino, perché tutto quello di cui i nostri studenti in Italia lamentano la mancanza, loro l’hanno già. Nessun corso, a rigore, è obbligatorio, tutti sono «offerti» alla loro scelta. Gli studenti otterranno, beninteso, il loro grado accademico solo se ne avranno seguiti in numero sufficiente, nel quadro di un piano di studi che si presenti organico. Non hanno problemi finanziari, o di possibilità di frequenza, perché tutti abitano nei loro collegi residenziali entro il campus, e possono usufruire di speciali quartierini quando abbiano moglie e figli. Non ci sono, praticamente, da sostenere esami, perché quasi tutti i corsi sono più o meno dei seminari, in cui il docente, discutendo per tutto l’anno con un limitato numero di scolari, anche sulla base dei lavori da loro di volta in volta preparati, può dare su ciascuno, alla fine, un giudizio conclusivo basato su una conoscenza personale e non su una singola interrogazione aleatoria. La biblioteca è modernissima, in un grattacielo di quattordici piani, ed offre ogni immaginabile comodità di lavoro e di ricerca. Un apposito volumetto, gratuito, offre tutte le informazioni necessarie a chiunque le desideri.
Insomma, gli studenti si trovano bene, quanto alla loro situazione personale: non meno, in fondo, di quanto mi trovi io in questo Morris Inn, cioè nel piccolo albergo costruito nel campus per gli ospiti, e che trae il nome dal donatore, il quale, com’era prevedibile, è un alumnus, cioè un vecchio alunno dell’Università. Avendo avuto successo nella vita, egli ha pagato con quel dono il proprio debito all’Alma Mater. È un piccolo albergo modello, dalla sobria ma perfetta efficienza degli appartamentini del primo piano alla squisita eleganza delle sale d’incontro e alla raffinata cucina del ristorante al pian terreno, dove i professori ospiti sono tenuti ad invitare liberamente a pranzo e a cena i colleghi che credono, fermo restando che tutto il loro conto sarà pagato dall’Università (altrimenti, come potrebbe attuarsi quella collaborazione culturale e scientifica, per cui sono stati invitati?).
Nulla, d’altronde, c’è di superfluo, soprattutto quanto a servile lavoro umano. Se il professore ospite arriva dall’aeroporto con le valigie, il tassista stesso, qualora egli già non l’avesse imparato, gli indica l’elegante carrellino con cui potrà trasportare da sé le sue valigie dentro l’albergo, e poi all’ascensore, costruito in modo da servire tanto per le persone quanto per i bagagli (che bisogno c’è, infatti, di avere due ascensori distinti, uno per i padroni e l’altro per gli schiavi?).

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Eppure, anche questi studenti protestano. Non potendo, però, protestare per cose che manchino a loro, protestano per cose che mancano ad altri. Così, per esempio, hanno trovato che troppo esiguo è il numero degli studenti negri, a paragone dei bianchi. Hanno consultato le statistiche della popolazione regionale, e hanno scoperto che la percentuale dei negri fra i loro colleghi è assai inferiore alla percentuale dei negri nella popolazione dello Stato dell’Indiana, a cui appartiene la cittadina di South Bend, e la Notre Dame University che ne costituisce una municipalità indipendente, pur essendo una Università privata. Vorrebbero, con l’impaziente generosità dei giovani, che si provvedesse subito a ristabilire l’equilibrio.
Naturalmente gli anziani, cioè le autorità accademiche, hanno buon gioco a ribattere che si può provvedere soltanto a poco a poco, perché purtroppo quello stesso squilibrio quantitativo si manifesta fra i giovani dotati del titolo di studio necessario per entrare all’Università. Il torto fatto ai negri, insomma, è più grave e remoto. Concerne tutta la loro precedente carriera scolastica. Quindi il rimedio deve essere adottato fin da principio, affinché possa più tardi riflettersi anche nelle percentuali della popolazione universitaria.
Gli studenti protestatari capiscono, ma non sono persuasi del tutto. Di qui l’agitazione. Su un piano diverso, ma non troppo, i giovani di una Università soltanto maschile come Notre Dame pongono l’esigenza pedagogica della coeducation. Perché dalla loro Università debbono essere escluse le ragazze?
È vero che, in questi casi, il college maschile o femminile ha per lo più, a poche miglia di distanza, un college dell’altro sesso. E qui il St. Mary’s College è addirittura contiguo, un campus confina con l’altro. Mi torna in mente che, quando molti anni fa visitai Smith College, una delle più famose Università femminili degli Stati Uniti, domandai a un certo momento alla gentile docente, che mi veniva mostrando le meraviglie di quella specie di sportivissimo ed elegantissimo monastero accademico, se quell’atmosfera non determinasse una certa unilateralità psicologica… Non mi lasciò finire, e ridendo m’indicò un edificio che appariva sulla linea dell’orizzonte: «Non si preoccupi, mi disse: quello è il collegio maschile, da cui vengono alle nostre ragazze tutti gli appuntamenti per i week-ends».
Ma forse a Wellesley College — altro splendido collegio universitario femminile sulla riva di un lago, nell’antico e nobile New England, a due passi da Harvard — le ragazze non amano andarsi a trovare i loro amici nell’ambiente cittadino di Cambridge, Massachusetts. E tanto hanno fatto, per l’avvento della coeducation anche nel loro ambiente, che a titolo di prova hanno ottenuto di poter sgombrare uno dei loro dormitori per ospitarvi, durante un week-end, i giovani di un altro collegio… Anche qui, però, la più adulta saggezza delle dirigenti osserva che, mentre Wellesley è famoso come collegio femminile, se lo si aprisse improvvisamente anche ai maschi il livello di questi ultimi risulterebbe nei primi anni senza dubbio inferiore a quello medio dei giovani che aspirano ad iscriversi a Harvard o a Yale o a Columbia: cosicché le ragazze stesse, dopo i primi colloqui, rischierebbero di annoiarsi con colleghi incapaci di interessarle…
Legittime aspirazioni dei giovani, dunque, e prudenza degli anziani. Ma tuttavia non sempre tale da sentirsi sicura di aver ragione. Anche di fronte agli aspetti meno legali, intrinseci a certi metodi della protesta studentesca, non pochi sono i professori che esitano a reagire in senso puramente disciplinare. È questo un altro dei lati più caratteristici, nella presente crisi di crescenza delle Università americane.