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Riccardo Luraschi, piacentino, classe 1960, ex responsabile delle pagine pubbliredazionali del Il sole 24 ore, ormai fa lo scrittore a tempo pieno. Ma non fatevi ingannare: Riccardo non è tipo da poltrona e scrivania. In passato si è cimentato con lunghi viaggi-trekking in Nuova Guinea, Indonesia, Perù, Ladakh, Nepal. Come se questo non bastasse, appoggiandosi a varie missioni è stato in Kenya, in Tanzania, in Uganda. Negli anni ottanta ha vissuto per quattro mesi a New York ed ha pure fatto parte di una delegazione industriale in Niger, come interprete dal francese. Con lui ci vorrebbe un intero ciclo di interviste per scalfire la superficie.
Arrivato in finale alla 31° edizione del Premio Italo Calvino, si è guadagnato la menzione speciale della giuria e il suo manoscritto, intitolato Il faraone, è stato pubblicato il 31 gennaio da Castelvecchi Editore.
Non è facile riassumere in poche righe un esordio del genere: si tratta di un romanzo intenso, scritto in maniera esemplare, sorretto da personaggi rotondi e da un intreccio serrato, strizzando l’occhio al panorama politico, economico e sociale che fino a pochi anni fa ha contraddistinto il nostro Paese. Sbirciare tra le righe in cerca di riferimenti è compito e privilegio riservato al lettore, merito di un autore che sa condurre il gioco da vero maestro, nascosto dietro alle quinte.

Il tuo è un romanzo molto corposo, per cui direi di procedere con ordine e di partire subito dai personaggi. Numero uno: Enrico Bertelli. Può essere considerato la voce narrante?
Bertelli non è, tecnicamente, la voce narrante, perché il romanzo è narrato in terza persona. Però è colui che osserva l’azione, è suo il punto di vista principale. Enrico Bertelli è un grigio e diligente funzionario della “macchina mondiale”, dell’industria, un tecnocrate senza potere né autonomia, che si sente sicuro solo quando ubbidisce, quando lavora al servizio dell’azienda. Con le donne è timido e rinunciatario, ne ha paura perché ha paura della vita, della selvaggia imprevedibilità della vita. Un’espressione calzante della sua timidezza, della sua remissività, è il suo parlare esitante, inceppato, con le frasi lasciate a metà. È il personaggio perfetto, dunque, per introdurci nel mondo del ricco, potente e spregiudicato Maspero. È con gli occhi di Bertelli, infatti, che vediamo Maspero e la sua corte, i giochi di potere, la lotta senza esclusione di colpi per arrivare in cima.

Numero due: il faraone. Chi è Maspero?
Maspero è il self-made man che possiede un’illimitata fiducia in se stesso, un uomo d’azione candidamente amorale, un “idealista” (gli idealisti possono essere molto pericolosi) che non ha paura di rischiare ed è spinto continuamente dal proprio demone a intervenire sulla realtà per cambiarla. Per lui “la vita va vissuta a rotta di collo, come un’avventura, come il cinema”. Ora vuole il potere politico per cambiare l’Italia e farne un Paese che “vive di desiderio, nel desiderio”. Per lui ho scelto il nome Maspero perché mi sembrava che suonasse bene, perché dà un’idea di determinazione e rapidità, di fulmineo passaggio dal pensiero all’azione, un po’ come il Napoleone di Manzoni ne Il cinque maggio (“di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno”). Come per Bertelli, non ho veramente “costruito” il personaggio ma ho proceduto per intuizioni, per piccole illuminazioni, prendendo qualcosa dalla cronaca berlusconiana e qualcosa dal ricordo di imprenditori che ho conosciuto di persona, reinventando tutto però, provando a immaginare come potesse muoversi e parlare un individuo simile.

Bertelli, un quasi destinato alla sconfitta. Maspero, un quasi destinato al successo. In quale modo servono l’uno all’altro?
Certamente nel romanzo Bertelli e Maspero sono complementari e l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. È il vecchio e sempre valido gioco delle coppie letterarie, da Ettore e Achille a Don Chisciotte e Sancho Panza, o anche a Jekyll e Hide. Bertelli è affascinato e sedotto da Maspero. Maspero, d’altra parte, ha bisogno di Bertelli non solo perché quest’ultimo è un bravissimo contabile, ma anche perché è lo specchio in cui vede riflesse l’efficacia e la potenza dei suoi progetti politici; a lui Maspero confida le proprie idee, gli obiettivi, l’ansia di conquista. Diciamo che la coppia Bertelli-Maspero potrebbe rientrare nella dialettica servo-padrone di Hegel. Anche nella vita reale i potenti e coloro che puntano alla potenza non possono fare a meno dei Bertelli, dei più deboli. Un potente non può esistere senza i sudditi, i soggiogati perché il potere, appunto, è sempre potere “su” qualcuno.

Nel tuo romanzo non mancano le donne, ma hanno quasi tutte un ruolo marginale, quasi decorativo, tranne forse Eleonora. Come sono le donne che hai disegnato per il faraone?
Qualche amico mi ha detto che nel romanzo si sente della misoginia (stranamente, le donne che hanno letto il romanzo la misoginia non l’hanno notata). Ma non credo sia questo il punto. Il mondo rappresentato nel romanzo è un mondo “maschile”, in cui le donne ricoprono ruoli gregari (segretarie, “mogli di”, ragazze-squillo), ma questo non ha niente a che fare con i miei sentimenti verso le donne. Un mondo letterario deve essere coerente in se stesso, deve “tenersi assieme”. Qui la necessità di coerenza imponeva che alla corte di Maspero le donne ricoprissero un ruolo marginale, subalterno o anche da mercenarie. Il “grande gioco” del potere, della conquista del potere è riservato agli uomini, a uomini convinti che le donne debbano essere solo mogli, madri, segretarie o “riposo del guerriero”. Bertelli, dal canto suo, come ho detto, dalle donne è spaventato, dunque la sua visione dell’”altra metà del cielo” è oscurata, distorta da questo blocco psicologico. Tutto ciò non impedisce, come giustamente fai rilevare tu, che nel romanzo ci sia ameno una figura femminile che spicca, diversa dalle altre: Eleonora, la moglie di Maspero, impetuosa e passionale, forte, capace di tenere testa al marito. Non dimenticherei nemmeno Eva Rea (nome e cognome non sono casuali: Eva è la prima donna, la tentazione, il peccato originale; Rea nella mitologia greca è la “grande madre”, la personificazione delle forze della natura), che può rappresentare la forza attrattiva del sesso, una forma di potere che si intreccia con il potere politico-economico.

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Perché hai scritto questo romanzo? Cosa ti ha spinto a scegliere proprio questo tema e questi personaggi?
Non lo so. Davvero, non so perché ho scritto questo romanzo. Tutto è nato dall’immagine notturna della torre delle telecomunicazioni che sorge dalla campagna, simbolo di potenza tecnologica che raggiunge ogni uomo in ogni luogo. Guidato da questa immagine e con in mente un certo ritmo stilistico e narrativo, ho scritto la prima frase del libro. Da quella, poi, si è dipanato tutto il romanzo, giorno per giorno, senza mai sapere – se non a grandi linee – cosa avrei scritto il giorno dopo. Anche i personaggi si sono sviluppati a poco a poco, non sono stati progettati. Forse le motivazioni più profonde di questo romanzo vengono dai miei vent’anni di lavoro per Il Sole 24 Ore, vent’anni in cui ho visitato centinaia di aziende di ogni settore e dimensione. Ho conosciuto da vicino il mondo dell’industria: da lì, forse, è nato in me un senso di “spaesamento”, di angoscia, di alienazione di fronte allo sviluppo poderoso della tecnologia che sta cambiando il mondo rapidamente e che – pur creando cose meravigliose – relega l’uomo in un angolo. Ecco, questo forse è il sentimento sottostante al libro.

Hai utilizzato un linguaggio ricchissimo, articolato, dove registri alti e colti si mescolano a registri gergali lombardi e perfino a espressioni triviali. È un linguaggio molto calibrato, che contribuisce a definire ogni personaggio. Quanto lavoro c’è dietro un linguaggio così?
La lingua del romanzo è un’ibridazione della tradizione letteraria italiana con certe espressioni gergali, dialettali o popolari. Alcune di queste espressioni le ho nelle orecchie da quando ero bambino, avendole sentite da mio padre, mia madre o mia nonna, o per strada, nei bar ecc. Lo stile è un’alternanza di comico-realistico e stile “alto”. Ogni volta che lo stile “alto”, drammatico, idealistico sembra imporsi, interviene il comico ad abbassare tutto al livello della realtà quotidiana più bassa e magmatica. Tutto ciò, comunque, non è frutto di una scelta deliberata e ponderata ma si è imposto naturalmente, istintivamente. Penso che lo stile comico, che spesso nel romanzo sfocia in una trasfigurazione, una deformazione un po’ grottesca della realtà, sia una difesa contro quello smarrimento, quell’angoscia di fronte al mondo contemporaneo di cui parlavo prima. Naturalmente, come dici benissimo tu, i vari registri stilistici e linguistici servono anche a delineare i diversi caratteri. Ciò avviene attraverso il discorso indiretto libero, una forma che mi ha consentito appunto di ritrarre certi personaggi usando le loro espressioni, i loro codici linguistici, quindi caratterizzandoli fortemente, dando loro una “voce” ben riconoscibile. Penso alle pagine in cui Motta ripercorre la storia del suo rapporto con Maspero e si convince a ostacolarne, per il bene dell’azienda, la discesa nell’agone politico. Oppure al generale De Simone e a sua moglie, caratterizzati da una lingua ricca di espressioni napoletane.

Qual è stata la cosa più difficile nella scrittura di questo romanzo?
Tutto è stato difficile nello scrivere questo romanzo. E niente è stato difficile. Dipendeva dal momento. Certi giorni andava tutto benissimo perché semplicemente seguivo il brusio, la “musica” che avevo in testa. Si potrebbe ricorrere a quella parola antiquata, ormai rifiutata come goffa e un po’ ridicola: ispirazione. Beh, quando non ero “ispirato” scrivere era un peso enorme, diventava quasi impossibile. Erano giorni in cui disperavo di arrivare alla fine, tanto più che non sapevo gli sviluppi futuri della trama, dato che inventavo volta per volta. Per cui, rispondendo alla tua domanda, il cammino non è stato lineare ma a strappi: un percorso a ostacoli durato cinque anni. Con questo non vorrei dare un’impressione di sofferenza. No di certo: i momenti bellissimi, quelli di felicità creativa, hanno sempre superato per quantità e intensità gli episodi di “stagnazione”.

Perché hai scelto di inviare il manoscritto al Premio Italo Calvino?
Finito il romanzo, l’ho inviato a qualche editore senza ricevere risposte, tranne una risposta negativa da Adelphi. Ho pensato al Calvino perché è un’istituzione di grande serietà e prestigio: un risultato positivo lì, pensavo, mi avrebbe probabilmente consentito di accedere alla pubblicazione. E così è stato. L’esperienza del Calvino è stata non solo gratificante ma, in un certo senso, commovente. Mi ha commosso vedere la considerazione, il riguardo, la cura riservata ai testi, a tutti i testi, un atteggiamento da cui traspare l’amore sincero per la letteratura, in un tempo in cui, anche nella sfera letteraria, spesso prevale il marketing, la pubblicità, la “fuffa”. Penso che il Calvino sia un’istituzione preziosa, da difendere, un baluardo contro la deriva che porta a una letteratura omogeneizzata, banalizzata.

Infine sei arrivato al lavoro editoriale. È stato come te lo aspettavi?
Per fortuna ho trovato un editore “puro”, che fa l’editore per passione, per pubblicare libri che considera belli o importanti. Pietro D’Amore è stato subito entusiasta del romanzo, lo ha voluto fortemente, così com’era. Dunque non ho vissuto l’amarezza di certi scrittori la cui opera viene stravolta da uno o più editor. Per me l’editing è stato il necessario lavoro di ripulitura del testo, con l’eliminazione delle ripetizioni, delle sviste, etc. Naturalmente l’editor ha suggerito anche qualche variante, qualche piccola modifica che io ho potuto accogliere o rifiutare in libertà. In alcuni casi ho accettato i suggerimenti. Nel complesso ho avuto un’esperienza molto positiva, a tratti entusiasmante. Cos’ho imparato? Che nel rivedere un testo ai fini della pubblicazione mille occhi non bastano, sono pochi; ce ne vogliono diecimila, centomila, un milione.

Adesso cosa farai, continuerai a scrivere? Cosa desideri per il Luraschi scrittore?
Certo che continuerò a scrivere! Scrivere, probabilmente, è l’espressione di una malattia, di una nevrosi, e io non sono ancora guarito. Sul computer ho da tempo sessantasette (67) soggetti per un romanzo ma, naturalmente, il lavoro che ho iniziato il mese scorso è il sessantottesimo. Non so se andrò avanti, se arriverò alla fine, ma ho buone sensazioni. Per il Luraschi scrittore desidero due cose: esprimere me stesso e rendere felice il maggior numero di lettori. Per felicità letteraria non intendo naturalmente la consolazione o la distrazione dal vivere quotidiano. I libri migliori, i libri grandi ci rendono felici anche quando parlano di tragedie perché il mondo che rappresentano ha un senso, un significato compiuto. La mente umana ha un bisogno disperato di senso, lo ha cercato e lo cerca nel mito, nella religione, nella filosofia, perché la realtà, nel suo divenire, è caotica e assurda. La letteratura, anche quando racconta l’assurdo, penso ad esempio al Processo di Kafka, ha sempre un senso: il fatto stesso di raccontare conferisce senso alla cosa raccontata, e questo getta un po’ di luce sulla nostra esistenza. Mi auguro che questo libro e i prossimi, se arriverò a scriverli e a pubblicarli, regalino anche a un solo lettore un centesimo della felicità che io ho provato leggendo La Certosa di Parma, Le Illusioni Perdute, Guerra e Pace, Le Anime Morte, o La Ricerca del Tempo Perduto, o I Promessi Sposi. Se ciò accadrà, allora non avrò scritto invano.

Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May

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