Loreta verri blog

Loreta è una giovane donna di appena ventiquattro anni. Nata a Bisceglie, oggi vive a Bologna dove si è laureata in fisica e studia astrofisica. Ma il suo è un cuore a due facce: mentre una pulsa per la scienza e tiene il nasino rivolto all’insù verso le stelle, l’altra si guarda indietro e batte al ritmo della storia e della mitologia greca. Appassionata di libri e di letteratura, è cofondatrice de Il rifugio dell’Ircocervo, rivista letteraria per la quale scrive con lo pseudonimo “Dama con l’unicorno”. Loreta è un frullato – fresco – di passione e talento che spazia senza scomporsi dalla fantascienza alla storia, passando attraverso la solida consapevolezza del tempo e del mondo in cui vive.

Con il suo romanzo Elena di Sparta, finalista della 31° edizione del Premio Italo Calvino e pubblicato dalla casa editrice Baldini+Castoldi, Loreta ci restituisce l’amore per la letteratura greca, per le storie che smettiamo di leggere quando ci lasciamo alle spalle i banchi del liceo. E lo fa reinventando una delle figure più affascinanti e controverse del mito, quella della bellissima Elena, donna desiderata e contesa al punto di scatenare una delle guerre più famose del passato. Eppure esiste un’altra guerra, interiore e segreta, che la Elena di Loreta ha vissuto e combattuto in silenzio per tutta la sua vita e che alla fine diventa, inevitabilmente e coraggiosamente, racconto.

Te lo avranno già chiesto tutti, ma non posso evitarlo: perché hai scelto proprio lei, Elena, tra tutte le figure possibili?

Sono sempre stata affascinata dalla possibilità che la mitologia offre di rielaborare personaggi e vicende universali in una chiave personalizzata e contemporanea: mi interessano moltissimo le variazioni sul mito e fin dal liceo ho provato a calarmi nei panni di diversi personaggi scrivendo dei racconti:ad esempio Euridice e Semele, per citarne almeno due. Poi ho iniziato a interessarmi sempre più a Elena: sentivo che questo personaggio, centrale nell’Iliade eppure quasi sempre muto, aveva una sua versione dei fatti da raccontare. Quando ho iniziato a scrivere, ero mossa dall’esigenza di liberare la figura della più bella del mondo da tutti gli stereotipi che le sono associati: preda della passione, manichino nelle mani di Afrodite, vittima degli eventi. Soprattutto, volevo scollarle di dosso il concetto di colpa, andare oltre la Elena di Troia e raccontare la Elena di Sparta. Questo progetto ha acquisito sempre più chiarezza dopo la lettura di Cassandra di Christa Wolf: lei mi ha ispirato la struttura del romanzo, mentre la voce di Elena è arrivata quando mi sono iscritta alla facoltà di fisica: lontano dalle lettere greche e dal liceo classico, mi sentivo straniera quasi quanto Elena era straniera a Troia.

Al di là del personaggio storico, chi è la Elena che hai scelto di raccontare?

Elena di Sparta non è un romanzo storico: anzi, l’idea iniziale prevedeva una Elena fuori contesto e fuori dal tempo, che raccontava una storia antica e nuova allo stesso tempo. Poi il progetto ha preso la forma di un romanzo e quindi l’ambientazione storica è stata necessaria, ma Elena rimane un personaggio ambiguo: pensa e ragiona come una donna moderna, come penso io. Durante la stesura del testo, anzi, spesso mi è capitato di immaginarla come una mia compagna di studi: Elena è curiosa e fantasticavo che, nel presente, tale curiosità l’avrebbe portata a intraprendere una carriera scientifica. È incantata dalla propria bellezza, che è il suo bene più prezioso, ma è anche decisa ad essere considerata una persona autonoma e intelligente. Vuole il potere e la libertà, ma non intende rinunciare alla sua essenza di donna. Vuole essere apprezzata dagli altri ma non sa come rapportarsi sinceramente con il prossimo, è quasi anaffettiva. Si tratta, insomma, di un personaggio pieno di contraddizioni, è spavalda proprio perché è fondamentalmente sola, insicura e sente di non poter contare su nient’altro se non se stessa. In questo, per me lei è una donna moderna, universale.

Cosa significa per la tua Elena “essere donna”?

Prima di tutto è significativo come “essere donna” sia effettivamente una condizione: non necessariamente un limite, ma comunque qualcosa in più al semplice “essere umana”, quasi che la normalità sia essere uomo e la femminilità porti con sé degli attributi aggiuntivi che possono essere delle armi ma anche dei limiti. E spesso una donna finisce per essere definita e inquadrata negli attributi che la rendono tale: è quel che accade a Elena con la sua bellezza, un dono che lei ama ma che la ingabbia. Lei non accetta l’aut aut tra bellezza e libertà, vorrebbe poter essere una donna bellissima ma dover dar conto della sua bellezza solo a se stessa. Forse la parte difficile dell’”essere donna”, anche per me, è proprio la continua necessità di modellarsi ai ruoli imposti dall’esterno, la sensazione di dover dimostrare di non essere uno stereotipo quando sostengo delle posizioni femministe, lo sforzo da fare per essere presa sul serio se indosso i tacchi e una gonna corta. Sia per me che per Elena il problema sorge insomma quando siamo considerate prima donne e soltanto poi esseri umani.

Il gioco dei ruoli e il gioco della colpa. La Storia in qualche modo colpevolizza Elena, mentre lei invece nel tuo romanzo colpevolizza gli uomini e il loro potere. Sono passati molti secoli da allora, le donne sono cresciute e hanno vinto diverse battaglie: secondo te il gioco dei ruoli e della colpa è finito oppure lo giochiamo ancora?

Nonostante tutto, la colpa continua ad essere quasi sempre delle donne: è da questa percezione che è nata l’esigenza di scrivere la storia di Elena. All’inizio del romanzo, qualcuno dice ad Elena che le donne possono fare solo cose grandi e terribili: per toccare la grandezza, per ottenere ciò che per gli uomini è normale e a portate di mano, le donne sono infatti sempre costrette a macchiarsi di una colpa. Questo mi sembra ancora vero nella società di oggi: la lente con cui si giudicano uomini e donne non è la stessa in moltissimi ambiti, basti pensare alla libertà sessuale – un uomo promiscuo fa il suo dovere, una donna promiscua deve nascondersi e vergognarsi. La colpa delle donne, allora come ora, è quella di non saper rimanere entro un ruolo che qualcun altro ha disegnato per loro. Elena prova a uscire da quel ruolo, e per farlo deve accettare di essere considerata colpevole.

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E poi c’è lui, Menelao: che ruolo ha questo personaggio, questo ascoltatore (se è lui) mai nominato a cui si rivolge la tua Elena?

Elena riesce a stringere un legame vero: per tutta la vita lei cerca di comunicare se stessa agli altri oltre il mito della sua bellezza, ma gli unici che in qualche modo percepiscono e accolgono la sua esigenza sono Cassandra, in parte, e lo stesso Menelao. Questo perché Elena e Menelao sono tutto sommato simili: entrambi sono intrappolati in un ruolo che non hanno scelto, Menelao è re di una città che non gli appartiene ed è costretto a dimostrare una rudezza e una spietatezza che non gli sono naturali per vivere nel mondo degli uomini. Menelao non lo sa, ma ha tutti gli strumenti per capire Elena ed entrare in sintonia con lei, una volta che la guerra è terminata e il tempo delle recriminazioni e delle accuse non ha più senso di esistere.

Secondo te impariamo davvero dalla Storia (e dalle nostre piccole storie), prima che arrivi la vecchiaia?

Sarebbe bello avere una risposta certa. Per me, l’unico modo per imparare dalle mie esperienze e dalla mia storia è sempre stato scriverne. Pensare non basta, perché il pensiero è un dialogo con me stessa, quando scrivo invece ho la sensazione di star raccontando a qualcun altro, anche se nessuno è lì per leggere. Solo quando le parole sono sulla carta, definitivamente fuori di me, riesco a capire le cose con chiarezza, a decidere cosa fare o anche solo a conoscermi un po’ meglio. Per questo, anche per Elena, è così importante raccontare: perché tirar fuori da sé una storia e consegnarla al mondo è, nella mia esperienza, l’unico modo per darle un senso, per imparare qualcosa e per non dimenticare.

Quanto tempo, quanto studio e quanta ricerca è costato questo libro?

La prima stesura è comparsa quasi per magia durante il mio primo anno di università: studiavo e scrivevo quasi tutti i giorni, imponendomi di tenere il ritmo nonostante la stanchezza. In questa prima fase non mi sono neanche preoccupata troppo dell’accuratezza di quello che scrivevo, mi sono solo affidata ai ricordi del liceo e delle letture a tema mitologico. La maggior parte di questa prima versione è stato rimaneggiato, cambiato e rivisto. Ho chiaramente dovuto verificare la correttezza del contesto che avevo costruito, la coerenza dei personaggi e delle situazioni, e sono intervenuta sui punti nevralgici del testo, soprattutto sulla scelta di Elena e sul finale. Questa revisione è stata la parte più difficile, perché dovevo mettere da parte il cuore pulsante della mia idea e concentrarmi sui dettagli, sulla forma, sui brani che mi entusiasmavano meno. È stato però anche il passaggio fondamentale per rendere la mia bozza un vero romanzo: ho imparato che non basta scrivere di getto e all’ispirazione è necessario affiancare tanta pazienza e autocritica. Questo percorso è durato, con alcune pause, quasi due anni, e non sarebbe stato possibile senza i consigli di un paio di lettori in itinere attentissimi e precisi.

E infine il Calvino: perché hai deciso di partecipare?

Qualche tempo fa Vanni Santoni, che guarda caso era anche uno dei giudici della XXXI edizione, ha rilasciato un’intervista per il Rifugio dell’Ircocervo tracciando una sorta di guida all’esordio per aspiranti scrittori: in quel contesto ha consigliato caldamente il Premio Italo Calvino come miglior trampolino di lancio per chi ha un romanzo inedito nel cassetto. Così, quando Elena di Sparta ha assunto una forma più o meno definitiva, ho deciso di provare a inviarlo. Non avevo particolari aspettative, puntavo soprattutto a ricevere la scheda di valutazione. Non ero certa che la mia Elena potesse aver qualcosa da dire ad un pubblico esterno, la consideravo ormai una creatura molto personale, legata a un momento particolare della mia vita che forse era già trascorso, e quindi accettavo serenamente l’idea che rimanesse per sempre nel mio cassetto. Per questo scoprire di essere tra i finalisti è stata un’emozione incredibile e inattesa, e quest’atteggiamento mi ha permesso di vivere la finale e gli stadi successivi  (l’incontro con la mia agente, la firma con Baldini&Castoldi), con gioia ma anche con serenità: non avevo assolutamente nessuna aspettativa di partenza, quindi tutto quel che è successo è stato un di più di cui non potevo che esser grata e di cui forse non coglievo fino in fondo le implicazioni.

Hai affrontato il percorso dell’editing con il medesimo spirito?

Direi di sì. Il lavoro di editing è stato utile e molto sereno: non ci sono stati momenti di particolare difficoltà e non sono state fatte modifiche sostanziali al testo. Ho lavorato sui punti cardine della storia, per chiarire ed esplicitare alcuni concetti fondamentali che nella prima stesura restavano un po’ impliciti.Da questo punto di vista il lavoro con l’editor è stato una prosecuzione professionale e chiaramente ben più precisa di quello che avevo cominciato a fare sulla mia prima stesura. In generale, intervenire sul testo con il supporto di una professionista mi ha dato un punto di vista nuovo sul modo in cui scrivo, sui miei punti di forza e su quello che dovrei migliorare: una miniera preziosa per il futuro.

Riesci a raccontarci l’emozione di stringere tra le mani il lavoro finito, in formato di libro che porta il tuo nome?

Le prime copie del libro sono arrivate, per mia sbadataggine, a casa mia in Puglia mentre io ero a Bologna: un pomeriggio mia madre mi ha chiamata e mi ha detto che era arrivato un pacco per me dalla mia casa editrice, ho capito cos’era successo e le ho chiesto di aprirlo in diretta. Perciò in realtà è stata lei la prima a vedere il mio libro, io ho vissuto quel momento tramite la cronaca telefonica dettagliatissima dell’apertura del pacco. Ricordo l’estraniamento che ho provato quando, emozionatissima, ha iniziato a leggermi l’incipit: forse solo in quel momento ho realizzato che il mio libro esisteva davvero.L’avevo lasciato andare e chiunque poteva sfogliarlo e farne ciò che voleva. La prima sensazione è stata una sorta di paura, di pentimento e di vergogna: come avevo potuto permettere che qualcosa di così mio fosse a disposizione di tutti? Poi, per fortuna, mi sono ripresa e mi sono concessa di essere un po’ felice e vanitosa: le prime settimane non uscivo di casa senza la mia copia di “Elena di Sparta” in borsa, quasi come un talismano, e una volta vinto l’imbarazzo mi sono goduta l’emozione di vedere i miei amici e i miei parenti, soprattutto quelli meno interessati ai libri e alla mitologia, che si cimentavano nella lettura del mio romanzo, ne parlavano e ne ricevevano qualcosa in cambio. Mi ha dato l’impressione di aver creato qualcosa, di essere intervenuta sul mondo in qualche modo, ed è una sensazione bellissima che spero di provare ancora e ancora.

Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May

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