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Nicola Nucci, toscano, classe 1987, è esattamente come non te lo aspetti.

Alto, espressione tra lo svagato e lo spaurito, con la testa qui ma anche altrove. Se glielo chiedi, risponde che lavora come impiegato amministrativo, salvo poi scoprire che in realtà il suo vero mestiere è quello di sceneggiatore (teatrale, televisivo, cinematografico); ma è anche un visual artist, un poeta, un musicista, un paroliere. Conversare con lui è un’esperienza fluviale da cui si riemerge sempre con più domande che risposte.

È un artista vero, di quelli che fanno arte e vedono l’arte in ogni cosa, dai binari di una ferrovia alle pareti scrostate dei palazzoni abbandonati in periferia, perciò non stupisce che un personaggio come lui abbia attirato l’attenzione del Premio Italo Calvino. Il suo manoscritto è stato selezionato tra i finalisti della 31°edizione e nel giro di pochi mesi è arrivato alla pubblicazione grazie alla Dalia edizioni.

Trovami un modo semplice per uscirne è un lungo dialogo tra due ragazzi che si confrontano tra loro senza soluzione di continuità: donne, musica, vita, sogni, aspettative, paure, tutto mescolato assieme in una sorta di delirio solo apparentemente sconclusionato, dentro al quale chiunque può trovare qualche traccia di se stesso. Anche noi eravamo così da giovani? Ma soprattutto: lo siamo ancora, nei meandri più nascosti che ci guardiamo bene dal confessare?

Il tuo romanzo è in pratica un dialogo tra due ragazzi protagonisti, senza prosa descrittiva.

Come mai questa forma particolare?

Volevo mescolare le carte. Non lo so, tipo disorientare il lettore. Farlo immedesimare con la storia di questi due flippati che… Può darsi ci sia riuscito. Quasi sicuramente no. Mica sono tanto sicuro eh. Chi lo sa. Come un’accozzaglia di stili narrativi differenti. Teatro, chat, slang giovanile… c’è un po’ di tutto. Mi sono inventato una specie di linguaggio. Una sorta di caos organizzato, capito? Poi non lo so: tutto quanto centrifugato in un loop a carattere concentrico o qualcosa del genere.

Perché l’hai diviso in quattro parti?

Per non stancare il lettore. Per fornirgli dei salvagenti qua e là. Per dare lustro alla bravissima illustratrice Martina “Momusso”. Per sbizzarrirci con la grafica e il resto. Per impedire cali di concentrazione. Per strizzare l’occhiolino ad ogni tipo di mentalità. Per pulire un po’ il sentiero. Per dividere in settori il fluire della storia. Sarò sincero: inizialmente mica l’avevo pensato così eh. È solo che le modifiche proposte ne hanno addirittura potenziato la forza. Le ho accettate ben volentieri.

Chi sono i due giovani protagonisti? Riusciresti a descriverli?

Giuro che non lo so. Guarda: se lo sapessi… E invece no. Oggi mi sembrano una cosa, domani tutt’altro. Non sai quante volte ho provato a inquadrarli. Nottate intere. Tabula rasa. Niente. Vediamo… Due ragazzi comuni. Uno dei due potrebbe persino essere… Mica mi somiglia per niente, vero? E allora ok, sono due ventenni. Due “giovincelli” che ci danno dentro con la rivoluzione ma ecco, sono un attimo confusi e allora si perdono dietro a montagne di fumo, caroselli di femmine, simposi di rivoluzioni moderne… E mica è detto che raggiungano la meta. Una cosa: e se fossero le due parti che animano uno stesso individuo?

In tutto il testo c’è una grande attenzione alla musicalità delle parole, al ritmo delle battute. Quale tipo di lavoro hai fatto per arrivare a questo risultato? È stato difficile?

Un po’ sì. Ma è stato divertente. Un lavoro più da sceneggiatore che da scrittore. Va be’: un sacco di registri, la storia di tutti quei controsensi, quel vuoto esistenziale che ti inghiotte, cristo, ti inghiotte! E vogliamo parlare di tutti quei bicchierini? Alla fine se ci pensi un attimo Trovami un modo semplice per uscirne non è così tanto dissimile da un concerto. Tutto un gioco di suoni. Sì. Mi sono divertito un sacco. Lo rifarei altre cento volte.

Cover Nucci

Perché non usi mai i nomi propri dei due ragazzi?

Perché i nomi sono sopravvalutati. A cosa servono? Non lo so: a me piacerebbe pensare che una bambina non si ponga né limiti mentali né fisici. Sei piuma, allora puoi essere anche albero, o stella, o cielo che nutrirà sogni e desideri. A me interessa la sostanza. I nomi li lascio ai giudiziari del catasto. Ah no, li hanno sostituiti con dei codici alfanumerici. Allora ok, utilizzo il mio nome per iscrivermi in qualche social network. Ecco, arrivato tardi: il mega-direttore ha già rivenduto il colore dei miei occhi ad una multinazionale che fa lenti a contatto su misura.

Due giovani del nuovo millennio e la rivoluzione. Ma cos’è per loro la “rivoluzione”?

Forse equivale alla mia piccola rivoluzione. E a pensarci bene, molto probabilmente, anche l’espressione “Rivoluzione!” credo sia molto vicina all’idea di rivoluzione che i due protagonisti hanno di tutto questo “ambaradan”, tant’è che la maturano attraverso un percorso di crescita personale lento e doloroso. Tragitto nel quale mettono in forte dubbio la loro famiglia o il modo di intendere il presente. Quindi tornando alla domanda: dipende dagli individui. La rivoluzione ormai è un fatto personale.

Secondo te esiste un “modo semplice per uscirne”?

Ce ne sono un milione. Il più difficile è senz’altro il suicidio. Ma obbliga una messa in discussione talmente forte che… Meglio lasciar perdere. In linea di massima il modo semplice per uscirne è partecipare ad un talent, tingersi i capelli color fucsia, farsi trasportare dalla corrente… Beh, quello è il modo più semplice. Ma siamo sicuri che sia quello giusto? Per me non esistono modi semplici per uscirne. La bellezza è complicata, e lenta, e faticosa, e… Non è che ti salvi dall’oggi al domani.

Come mai hai scelto proprio il Premio Italo Calvino per arrivare alla pubblicazione?

Beh. Il Premio Italo Calvino credo sia il concorso più importante per un esordiente, quindi ci sono arrivato per gradi. Ho iniziato coi piccoli concorsi. Ne ho vinti alcuni. Piano piano ho alzato l’asticella, i risultati mi hanno accompagnato e così, forte di una ventina di risultati favorevoli, mi sono approcciato al primo romanzo. Di fatto il Premio Italo Calvino è stato l’unico vero tentativo che ho fatto. È venuto dopo sette/otto anni di vittorie minori. Dopo tutti questi sacrifici c’era grande paura di bruciarsi. Per fortuna non è andata così.

Un romanzo tanto particolare avrà sicuramente smosso le acque. Com’è stato accolto dagli addetti ai lavori dell’editoria?

Ha ottenuto vari commenti molto positivi e altri sin troppo negativi. La verità è che un romanzo del genere o lo odi o lo ami, e in ogni caso alla follia. Beh, sicuramente sapere che uno dei miei scrittori preferiti (Vincenzo Trama) mi ha paragonato ad autori che lui stesso ha visto crescere (Naspini, Pierantozzi, Giubilei) mi ha dato una grande forza. Poi va bene, le critiche mi hanno riportato coi piedi per terra, ma ci sta. Non c’è un solo punto di vista. Ognuno vede quest’opera come vuole. Se uno non ci trova nulla…

Questa tua storia e i tuoi due ragazzi avranno un seguito?

La volontà di proseguire attraverso un percorso analogo ci sarebbe anche, ma devo vedere un po’ di cose. Ancora devo metabolizzare alcuni processi. Non lo so. Per quanto riguarda le sceneggiature sto già lavorando tanto. Sui romanzi non so. Di fatto ho un sacco di materiale pronto. Vediamo come va questo, ok? Poi ora c’è anche questa cosa dell’Open Call (selezione di narrativa breve per esordienti, ndr.) del Premio Italo Calvino… Sono in semifinale, mi pare. Boh. Non nego però che mi intrigherebbe un sacco anche inchinarmi dinnanzi alla platea e sgusciare fuori dal palcoscenico lasciando tipo una fame boia. Vediamo.

Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May