di Stefano Trucco
Dicevamo di come la narrazione della Seconda Guerra Mondiale, del Nazismo e dell’Olocausto fosse diventato un genere letterario e cinematografico come il Western. Quindi con alcune conseguenze più o meno necessarie, la peggiore delle quali è il fallimento.
Di recente, in un articolo su Minima&Moralia, Luca Pantarotto raccontava di come la letteratura americana, nominalmente la più avanzata e aggiornata, in realtà si fosse in gran parte tenuta alla larga da Internet e dalla rivoluzione digitale, e che quando aveva affrontato il tema avesse spesso e volentieri fallito. Il mutamento è stato così veloce da essere difficile da gestire narrativamente, anche da gente che nella vita quotidiana non ha particolari difficoltà a usare personal computer, cellulari e smartphone. E questo non valeva solo per gli scrittori ‘letterari’, ma anche per i mestieranti di genere: nei newsgroup americani d’inizio secolo si leggevano accorate discussioni su come i telefonini rendessero impraticabili tante utili situazioni standard, come il perdersi in una foresta o in una città straniera (sì, dici che manca il campo o ti si scarica, ma quante volte puoi farlo prima che diventi un cliché che ti azzera immediatamente la sospensione dell’incredulità?). Così, sempre più spesso romanzi, film e serie tivù si rifugiano in un passato vicino e tecnologicamente più gestibile.
Oggi, nella cultura pop, vanno di moda gli anni Ottanta ma se si vuole essere seri e soprattutto essere presi sul serio e possibilmente candidati a qualche premio letterario o Oscar, bisogna tornare agli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Ma se si pretende di dire delle cose sull’oggi usando il passato, si cade nelle fin troppo facili trappole del romanzo storico.
Le trappole del romanzo storico sono di vario tipo: stilistiche (in che lingua facciamo parlare i personaggi e quanto dobbiamo stare attenti agli anacronismi?), strutturali (quanto dobbiamo spiegare degli eventi politici o della struttura sociale, correndo il rischio dello spiegone/infodump?) e psicologici (quanto quelle persone sono simili a noi e quanto invece sono diverse e distanti?). Il pericolo più ovvio, a parte gli errori veri e propri di chi non è storico di professione, è quello di mettere in scena noi e i nostri amici in costume e diciamo le solite cose ma stavolta in un castello con il fossato e i servi della gleba (e magari pure le streghe e, perché no, i draghi). Notare come tutti questi caratteri siano in comune col genere-ombra del romanzo storico, cioè la fantascienza.
Tutti tranne uno, che è il problema ineludibile del genere e che vale anche per chi ha fatto i compiti con cura e sa evitare gli errori più comuni: cioè il fatto che si sa come va a finire.
È facile trovare romanzi storici in cui il protagonista o un personaggio che fa da voce del coro dimostrano un’incredibile preveggenza e sa già che l’Impero diventerà cristiano, che i Musulmani saranno fermati a Poitiers, che l’Invincibile Armada sarà sconfitta, che la Rivoluzione divorerà i suoi figli, che il Vecchio Sud non ha speranze, che i nazisti alla fine saranno sconfitti. Come nella vecchia gag del chierico medievale che scrive sulla pergamena che ‘Oggi è cominciata la Guerra dei Cento Anni’.
Uno scrittore abbastanza intelligente eviterà di rendere i suoi personaggi troppo intelligenti (ovvero, intelligenti quanto crede di essere lui): che facciano la cosa giusta, d’accordo, come altri al loro posto già fecero, ma che non si comportino come se avessero già letto il finale. Ma lui, l’autore, non può non saperlo e così pure i suoi lettori. Oddio, con la decadenza della conoscenza storica non è difficile trovare periodi pittoreschi e violenti che si conoscono a malapena e guerre piene di suspense di cui si ignora il vincitore. Certo però non si può fare con la Seconda Guerra Mondiale, forse l’ultimo evento del suo genere in cui si possano citare i principali leader ed eventi senza bisogno di troppe note a piè pagina.
Si sa come è andata a finire; si sa chi erano i buoni e i chi cattivi; si possono prendere in esame i casi moralmente dubbi e le contraddizioni; si hanno a disposizione vari set di personaggi da usare come carte di Magic: il Borghese Spaventato, il Nobile Decaduto, l’Intellettuale Incerto, il Contadino Apatico, l’Operaio Politicizzato, l’Artista Apolitico, l’Ebreo (così, senza aggettivi), il Nazista, il Comunista, il Liberale, il Socialdemocratico, il Cattolico – e tutti i corrispettivi femminili, come al solito un po’ meno, anche se si può contare su un tipo oggi praticamente scomparso, la Femme Fatale tipo Garbo/Dietrich. Se siamo a New York nel 1929 sappiamo che sta per arrivare la Grande Depressione, se siamo a Berlino nel 1932 sappiamo che sta per arrivare Hitler, se siamo a Mosca nel 1934 sappiamo che sta per arrivare il Terrore, se siamo a Roma nel 1942 sappiamo che sta per arrivare il 1943…
È notoriamente più facile prevedere il passato che il futuro, come notava saggiamente il grande Yogi Berra. Considerate per esempio i romanzi scritti negli anni Trenta, soprattutto quelli che pretendevano di occuparsi dei conflitti politici e sociali del tempo, quelli di attualità. Come sono incerti i loro giudizi sulle persone, come sfocate le loro preoccupazioni, come sembrano tanto spesso mancare il bersaglio. Potrei citare almeno tre romanzi inglesi degli anni Trenta in cui si immagina Winston Churchill a capo di un governo fascista in Gran Bretagna, e altrettanti in cui si parla dell’aviazione italiana come particolarmente potente e temibile. Per non parlare delle violente denunce dei mercanti d’armi come causa della futura guerra mondiale. E la certezza che le democrazie ormai in declino dovevano scegliere inevitabilmente fra fascismo e comunismo. Chiaro che i romanzi scritti decenni dopo paiano più focalizzati, più precisi, più moralmente sicuri di sé. Loro sì che centrano il punto, rispetto a quei poveri scrittori persi nelle nebbie del loro tempo.
(Non che anche negli anni Trenta non si ricorresse mai al passato come metafora del presente ma, come dire, la cosa non era del tutto rispettabile, dal punto di vista critico. Era considerato un po’ come fuggire dalle proprie responsabilità. Il romanzo storico diventa un genere criticamente rispettabile solo parecchio tempo dopo, fra la Yourcenar e Umberto Eco).
Così l’abitudine di usare gli anni Trenta/Quaranta come metafora/paradigma/esempio etc. per il presente, almeno a partire dagli anni Ottanta, portava con sé il rischio del finale già scritto e una pericolosa compiacenza. Di fronte ai messaggi confusi e contraddittori del presente, il rifugio nelle facili certezze del passato con la pretesa di occuparsi, in realtà, del presente ha finito per rivelarsi controproducente – e qui vi chiedo di immaginare da voi stessi tutta una serie di paralleli fra l’oggi e quegli anni che a me paiono evidenti.
Affrontare con gli strumenti propri dell’artista i dilemmi e le possibilità del presente avrebbe portato il rischio di sbagliare. Quello specifico passato non solo era stato ampiamente raccontato ma anche altrettanto ampiamente spiegato e interpretato: i testi erano lì in commercio e nella biblioteca o scaricabili in pdf, scremati e classificati dal passare del tempo, e non richiedevano troppo pensare. Le metafore erano lì, nel cassetto delle posate. Solo che dopo aver paragonato Reagan a Hitler e poi i due Bush a Hitler quando arrivava il momento di paragonare Trump a Hitler si scopriva che il coltello non tagliava più.
Il romanzo storico, il genere il cui compito è mettere in scena contemporaneamente la relatività dei valori e la sostanziale unità dell’Uomo (e più recentemente della Donna) nel corso dei Millenni funziona male come avvertimento e gli errori si ripetono lo stesso, anche quando si conoscono.
Detto questo, torniamo al meraviglioso Lonesome Dove di Larry McMurtry. Se il western non funziona più da set di metafore politico/sociali di pronto uso, può essere ancora impiegato, con tutti i suoi passaggi e luoghi comuni, per creare personaggi che facciano da modello alla realtà, cioè quella che per me è la vera natura del romanzo. Il capolavoro dello scrittore texano restituisce una narrazione epica aggiornata allo scetticismo della modernità – un’Odissea di eroi che non credono veramente a quel che stanno facendo, che infatti non ne vale affatto la pena, ma sono disposti a morire nel tentativo. Di recente, parlando del notevole (se pure imperfetto) romanzo di Antonio Scurati su Mussolini, M., notavo come si trattasse del romanzo balzachiano che da troppo tempo mancava alla narrativa italiana, il ritratto dell’uomo ambizioso che vuole arrivare a tutti i costi, tipico di tanti romanzi dell’Ottocento francese, in primis quelli di Honoré de Balzac e Guy de Maupassant, riportando nella nostra narrativa ciò che riempie la nostra cronaca. È anche chiaro che, dal punto di vista pratico, non potrà avere alcuna influenza.
Proprio per questo il passo successivo, se proprio si vuole intervenire nella realtà, sarà di provare a fare la stessa cosa ma prendendo il rischio del presente.
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