di Mariolina Bertini
Nell’estate del 2001 il Centre Pompidou di Parigi ospitò una grande mostra che veniva da Montréal: Hitchcock et l’art, coîncidences fatales. Era una mostra nutrita di sofisticata erudizione: attraverso più di duecento opere (quadri, incisioni, disegni, illustrazioni, story-boards) metteva in luce come nell’immaginario hitchcockiano confluisse un’eclettica cultura figurativa, nella quale prevaleva la pittura tardo ottocentesca, ma non mancavano le avanguardie e più remote memorie secentesche. Era anche la mostra più divertente che io avessi mai visto: comprendeva un “percorso scenografico”, mirante a immergere il visitatore nell’atmosfera di alcuni film, e una sala semibuia nella quale, da teche illuminate, simili a quelle di una sontuosa gioielleria, emergevano gli oggetti protagonisti di sequenze indimenticabili: la corda di Nodo alla gola, la borsetta bianca di Marion in Psycho, l’accendino di Delitto per delitto, la bottiglia di vino piena di uranio di Notorious…
Nella penombra di quella Wunderkammer, dalla quale non sarei più voluta uscire, mi ronzava insistente nella memoria una frase provocatoria, pronunciata dal mio amico Alfredo Salsano con il suo bell’accento romano che i lunghi anni nella parigina rue Amelot non erano riusciti a smorzare: «Hitchcock non è un autore!»
Specialista di Polanyi e di Marcel Mauss, Alfredo Salsano era anche un grande appassionato di letteratura (fu lui a introdurre Perec nel catalogo Bollati Boringhieri), di cinema, di fotografia , di pittura. La sua insofferenza nei confronti della mia devozione hitchcockiana era in parte un gioco polemico, in parte l’espressione di un gusto personale che lo portava piuttosto verso il cinema di Satyajit Ray e di Godard. Ma mentre contemplavo, nelle vetrinette illuminate che mi circondavano, il bicchiere di latte di Sospetto e il ciondolo con i rubini che brilla al collo di Kim Novak ne La donna che visse due volte, mi sembrò di colpo che le sue parole assumessero un altro significato. Hitchcock, è vero, non è un autore: è molto più che un autore. È la guida che, nascondendosi dietro il velo di un impassibile humour, ci introduce in uno dei mondi immaginari più sconvolgenti della modernità, dove convivono E. A. Poe e Salvador Dalì, l’eros delle Veneri e delle Susanne secentesche e il torbido angelismo dei preraffaelliti, il mélodrame ottocentesco e il classicismo di De Chirico. Non sapevo, in quell’estate del 2001, che, a fornire a quella mia riflessione un orizzonte ben più ampio, quasi vent’anni dopo, sarebbe arrivato un libro: Una visita al Bates Motel di Guido Vitiello (Adelphi, 2019, pp. 251, € 38), vertiginosa indagine sulle allusioni mitologiche e le citazioni pittoriche disseminate da Hitchcock nei fotogrammi di Psycho.
All’origine dell’itinerario nel fascinoso labirinto di immagini in cui Vitiello ci invita a perderci, c’è l’imprecisione di un cronista che il 10 giugno del 1959 annuncia trionfalmente ai lettori dell’”Hollywood Reporter” il titolo del nuovo film che Hitchcock si sta preparando a girare: Psyche! Avete letto bene, Psyche, con la e. Passeranno ben cento giorni prima che l’errore, ripreso da altri giornali, venga corretto. Ma si sarà trattato veramente di un errore? O, come sospetta Vitiello, di una sorta di indiscrezione cifrata dello stesso regista, che si permetteva così di alludere, in forma enigmatica, a certi contenuti impliciti della sua opera in fieri? A favore di questa seconda interpretazione gioca l’apparizione, piuttosto incongrua, di una piccola riproduzione in porcellana di Amore e Psiche del Canova (fig. 1) sul caminetto dello sceriffo Chambers, in una delle scene che preludono allo scioglimento della trama: la scena in cui lo sceriffo e sua moglie rivelano al fidanzato della povera Marion e alla sorella di lei, Lila, che il detective Arbogast non può aver parlato con la mamma di Norman Bates, sepolta da dieci anni nel locale cimitero.

Durante questo colloquio cruciale, la statuetta, nota Vitiello, “rimane visibile a lungo, al vertice dell’inquadratura. Sembra incombere sui quattro conversanti come l’uovo della Pala di Brera”. Non è lì per caso, ma per svelarci un segreto di cui certo gli spettatori terrorizzati del 1960 non ebbero il minimo sentore: l’avventura di Marion nel Bates Motel, sperduto e misterioso, altro non è che una moderna riscrittura della favola di Psiche, in particolare del suo arrivo nel palazzo del figlio di Venere, Amore. La dea, gelosa della bellezza di Psiche e legata al figlio da una tenerezza incestuosa, sottopone la fanciulla a prove stremanti; analogamente la signora Bates, di cui Marion ode la voce inquietante e stentorea, manifesta nei confronti dell’intrusa una violenta gelosia. A conferma di questa traccia mitologica, nel salottino in cui Norman Bates riceve Marion, una sensuale Venere di Vélazquez si contempla nuda nello specchio che il figlio regge davanti a lei (fig. 2) mentre un piccolo, minaccioso Cupido di bronzo con arco e frecce custodisce l’ingresso della casa dei misteri che dall’alto incombe fatiscente sul Motel quasi sempre deserto.

L’espressione Casa dei Misteri assume, per il lettore di Vitiello, un senso pregnante: la dimora di Norman Bates, “cupa e sognante maison musée”, è a suo modo una sorta di tempio, dove rivivono i Misteri Eleusini, celebrati dall’arte simbolista e decadente del secondo Ottocento, familiare a Hitchcock da sempre. Tra immagini che evocano il risorgere della Primavera, Proserpina strappata all’Ade, Orfeo e il suo tentativo di riportare Euridice dal regno dei morti, il destino della signora Bates assume un nuovo significato:
Un rito ciclico di morte e rinascita è celebrato nelle stanze di casa Bates. Si svolge tra il piano superiore e lo scantinato, dove Norman nasconde la madre per sottrarla agli occhi degli intrusi. (…)
Come una semente, la signora Bates è interrata in attesa di una miracolosa rifioritura.
La donna che visse due volte, d’altronde, era tratto da un romanzo di Boileau e Narcejac che si intitolava proprio D’entre les morts (“Dal regno dei morti”) e proponeva, molto intenzionalmente, una possibile sovrapposizione tra la sfolgorante Kim Novak che riappare dopo esser stata creduta morta e la Proserpina di Dante Gabriele Rossetti. (fig. 3 e 4). Scottie, il protagonista de La donna che visse due volte, incontrando dopo il presunto suicidio dell’amata Madeleine la procace commessa Judy Barton, che le somiglia, la trasforma, modellandola puntigliosamente sull’immagine della morta, sino a farne un fantasma e un’icona. La “laboriosa toletta” cui Scottie sottopone Judy è una metafora – suggerisce Vitiello – del “processo ascetico e crudele” attraverso il quale, nella Hollywood degli anni d’oro, una donna veniva trasformata in una star. Sia pure sotto il segno di un destino funesto, quel processo ne La donna che visse due volte ha un esito glorioso: lo splendore della risorta Madeleine soggioga Scottie e buca lo schermo. Ma che cosa accade invece in Psycho?
Eccolo, infine, il grande arcano del culto misterico ed evemeristico di Hitchcock, per la cui celebrazione convocò nelle stanze di un motel fatiscente Orfeo ed Euridice, Amore e Psiche, Demetra e Persefone, antiche favole di discese agli inferi e di tentate resurrezioni. La donna deve morire affinché, dalle sue braci, possa nascere la Diva. È stato così per Madeleine, gettata da un campanile perché si ripresentasse come fantasma aureolato di verde; ed è così per la signora Bates, avvelenata e sepolta per risorgere come grande fenice. Ma stavolta qualcosa è andato storto.
Atroce e grottesca, la reincarnazione di Norman Bates nel figlio assassino segna la fine di un’epoca: quella in cui Hitchcock aveva potuto celebrare la bellezza assoluta di Ingrid Bergman o di Grace Kelly, o circondare di un’aura sovrannaturale il fascino di Kim Novak: “la luce di Eleusi che aveva illuminato tutte le grandi rinascenze amorose si era spenta di nuovo; restava una Demetra ghignante dalle orbite nere, e un’anfora di spighe secche”. È anche questo, Psycho, datato 1960: l’elaborata pietra tombale che chiude un’epoca mitica del cinema hollywoodiano, i sontuosi anni Cinquanta di Delitto perfetto e della Finestra sul cortile. Nell’ultima scena, lo sguardo rivolto da Norman Bates allo spettatore, contravvenendo alla regola per la quale gli attori non dovevano mai “guardare in macchina”, è al tempo stesso uno sguardo di sfida e di addio, come quello con cui, nello stesso anno , il Jean-Paul Belmondo di À bout de souffle si prende gioco di un pubblico che mai più ritroverà le confortanti certezze del cinéma de papa.
Ho cominciato questo articolo parlando dell’esposizione di Montréal e di Parigi del 2000-2001; ma anche Una visita al Bates Motel è, a suo modo, una straordinaria esposizione. Le immagini che accompagnano il testo non ci permettono soltanto di cogliere i mille dettagli significativi di Psycho che spesso Hitchcock ci mostra soltanto di sfuggita, ma ci aiutano a ricostruirne le origini prossime e lontane, il contesto storico e culturale. Dalle proiezioni di fantasmi luminosi praticate da Robertson e Lavater nel Settecento agli spettacoli di ipnotismo, dalla Venere in pelliccia di Sacher-Masoch alle mille suggestioni legate ai temi dell’occhio e dello specchio, il racconto splendidamente illustrato di Guido Vitiello coinvolge il lettore con scenari sempre nuovi, che lo mettono di fronte a prospettive sconvolgenti di inaspettata profondità; un po’ come le forbici di Grace Kelly che nella versione in 3 D di Delitto perfetto si stagliano davanti allo spettatore sfolgoranti, minacciose e terribilmente vicine.