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Filippo è un quarantenne veneto DOCG, tanto simpatico quanto riservato. È dotato di un’acutezza pericolosa nascosta sotto strati di autoironia ma che si manifesta – cruda – in ogni pagina che scrive. Appassionato di giardinaggio, di fotografia e, duclcis in fundo, forgiatore di coltelli, Filippo definisce se stesso “mutante”. Purtroppo, se volete sapere perché, dovete trovare il modo di farglielo rivelare, ma vi avverto: estorcergli confessioni è una delle cose più difficili al mondo.

Dopo vari racconti a tema “horror-psicanalitico” ha prodotto il manoscritto che ha conquistato lettori e giuria della 31° edizione del Premio Italo Calvino, di cui è risultato l’unico vincitore.

L’inverno di Giona, pubblicato da Mondadori, è un romanzo denso di qualità. Ogni parola, ogni pausa, ogni accelerazione è perfettamente studiata e calibrata. L’intreccio, costruito con una maestria rara da trovare negli esordi, accompagna il lettore passo dopo passo senza mai rivelare più di quello che serve, per lasciare integro il compito (e il piacere) di indovinare ciò che non viene detto. Di passaggio in passaggio, il mondo esteriore e quello interiore si intrecciano, si fondono e si confondono l’uno con l’altro, al punto che quando si arriva alla fine si fa davvero fatica a staccarsi dal mondo di Giona. E allora scopriamo – turbati – che la distinzione tra realtà e illusione è un velo più sottile di quanto si voglia credere.

Vista la particolarità del tuo testo, partiamo dal titolo: l’inverno, quindi il freddo, che compare fin dalle prime battute e pervade l’intera storia.

L’elemento del freddo nella narrazione di questo romanzo ha due interpretazioni distinte: è ciò che contraddistingue il dentro dal fuori (l’uscita di Giona dalla casa di Alvise dove ha sempre vissuto, la rinuncia al maglione che è l’unico legame col suo passato) e la promessa di una primavera futura. L’ambientazione è solo apparentemente statica e immutabile. Un occhio attento come quello di Giona o quello di Alvise è in grado di cogliere le minime, ma sostanziali, variazioni nella realtà, però solo Alvise ne è consapevole. Quando comincia a esserlo anche Giona, gli eventi cominciano ad accelerare.

Giona legge il mondo attraverso i sensi: ascolta ogni suono, vede ogni cosa, tocca, annusa, assaggia. Quale ruolo ha l’esperienza sensoriale per Giona e per te?

I sensi sono l’unica cosa che Giona possiede, essendo totalmente privo di memoria. L’uomo ha sempre usato i sensi per sopravvivere e chi non li sa usare è indifeso. Giona vive, come lui stesso dice, in un eterno presente e l’unico mezzo che ha per esplorarlo è affidarsi in maniera totale a quello che il suo corpo percepisce. In questo è molto animalesco.

Per quanto riguarda me, non essendo dotato nemmeno io di una grande memoria, è stato naturale all’inizio affidarmi alle mie percezioni. Scrivo seguendo la regola del “puoi raccontare solo quello che conosci” e, in questo caso, ho voluto seguire alla lettera questa indicazione.

Nel tuo romanzo ci sono la montagna, le case di pietra del paese, il maglione, il gatto, gli occhi dei personaggi, e potrei continuare ancora. A ogni cosa hai attribuito un colore preciso. Perché?

Non c’è un significato recondito nei colori con i quali ho dipinto i personaggi e l’ambiente: le tinte sono nette, quasi totalmente prive di sfumature intermedie. Per esempio gli occhi di Alvise sono azzurro slavato, smorto, quasi metallico. Riflettono la realtà che lui stesso plasma. Se è vero che sono lo specchio dell’anima, nei suoi si riflette solo se stesso, come due specchi messi uno di fronte all’altro. Quelli di Giona invece sono basici, senza alcuna caratteristica particolare. Giona si mimetizza e lo stesso accade a ogni parte del suo corpo. È stato naturale per me dar loro il colore della terra. Il rosso del maglione richiama la vita e la morte. È il primo colore al quale pensiamo e il primo che vediamo quando nasciamo (la luce che filtra attraverso le nostre palpebre chiuse è rossa). Ogni cosa nella prima parte del romanzo è sensibile, tattile e primordiale, quasi archetipica, perché i topoi del romanzo sono primitivi.

Giona è un ragazzo di circa 14 anni. Alvise è un vecchio, quasi l’altra faccia dello specchio di Giona. Norina è una bambina. E poi c’è lei, la voce, che parla continuamente con Giona. Come hai costruito le relazioni all’interno del racconto?

Con questa domanda siamo a rischio spoiler! Comunque sì, tutto il libro si basa su un intreccio di tre triangoli: Giona, Alvise e una terza persona che potrebbe essere la voce che parla a Giona. Norina, la bambina che sembra conoscere tutto, Anna, la donna anziana che ha paura e una terza donna a metà tra le due. Poi ci sono il passato, l’eterno presente e il potenziale futuro del paese. Il triangolo è un simbolo sacro ed è la prima forma architettonica. Mi sembra superfluo raccontare quanto il numero tre sia sacro per quasi tutte le culture.

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Il tuo protagonista in principio non ha ricordi, ma con il procedere della storia riesce a recuperare la memoria. Cosa sono secondo te i ricordi e quale ruolo hanno?

Il ricordo, per quanto possa sembrare contraddittoria questa affermazione, è ciò che ci permette di percepire il futuro. Alvise è disposto a fare ogni cosa, a compiere qualsiasi atto purché Giona non ne riprenda possesso. Alvise non vuole il futuro, perché è convinto che ogni cosa stia bene quando non corre il rischio di cambiare. Giona a un certo punto ha un momento di debolezza e non riesce a seguire questa regola, che il nonno gli ha impartito a suon di bastonate. Alvise compie l’errore di non accorgersene e fa l’unica cosa che un maniaco del controllo non dovrebbe mai fare: offre al nipote la possibilità di scegliere quando invece dovrebbe imporsi. Pecca di arroganza e la conseguenza di questo peccato è che nella mente di Giona inizia a germinare quel dubbio che sboccerà nel desiderio di scoprire il suo passato.

Alla fine Giona racconta – inascoltato, sembra – la sua verità e in qualche modo l’atto stesso del raccontare lo libera dal peso che si è portato dentro per tutta la vita. Cos’è la verità? Portarla alla luce può davvero renderci liberi?

La verità di Giona non è raccontabile e quando lo fa non viene commentata. Chi la ascolta non ha parole di fronte a ciò che sta ricevendo, ma ha comprensione, rispetto e, sopratutto compassione. La verità non è mai univoca, ma forse lo è il raccontarla. È in quel momento in cui decidiamo di aprirci che la magia avviene e non importa se quello che diciamo racconta la realtà oggettiva o – più probabilmente – la realtà soggettiva. La chiave sta in quella decisione, non nel prodotto della decisione. I segreti ci danno una sicurezza momentanea, durissima e allo stesso tempo fragile.

Con questo romanzo hai toccato il tema della malattia mentale, della pazzia, del trauma. Come conosci questi argomenti?

Questa è una domanda impegnativa, cercherò di rispondere senza rivelare troppo di Giona. Mi sono documentato molto sugli argomenti che hai citato. Mi sono avvalso della consulenza di esperti e ho sbobinato vari interrogatori a persone coinvolte in certi delitti, per capire quello che accade nella mente di chi soffre al di là di ogni sopportazione. Noi tutti abbiamo avuto esperienza di un parente o una persona vicina ospedalizzata: quello che ho fatto io è stato attingere alle sensazioni che provavo in quei momenti. Mi sono affidato ancora una volta ai sensi.

Come mai hai scelto di raccontare questa storia e perché poi hai deciso di affidarla al Premio Italo Calvino?

Non c’è stata alcuna pianificazione nella scrittura di questo romanzo. Non ho pensato nemmeno per una volta di raccontare qualcosa che potesse piacere, diventare un bestseller o tanto meno vincere un premio così prestigioso. Mi sono limitato a mettere una parola dietro l’altra fino a quando non sono giunto a quella che doveva essere per forza la fine. Prima di provare con il Calvino, ho fatto girare il romanzo per molte case editrici. Senza risultato, per fortuna. Poi ho pensato al Calvino e mi sono detto: “Perché no? Proviamoci. Mal che vada avrò un’utile scheda di lettura”.

Tu sei uno dei vincitori del Premio: cosa hai pensato e provato quando hai capito di esserti classificato al primo posto?

Tanta felicità e tanta incredulità. Si partecipa a un premio con la speranza di vincerlo, ma non ci si crede mai davvero. Quando hanno annunciato che L’inverno di Giona aveva vinto, mi ci sono occorsi svariati secondi per elaborare l’informazione, visto che il cervello era piuttosto occupato a evitare di scoppiare per l’emozione. Mi ci sono voluti svariati mesi, ossia il tempo di poter toccare con mano la prima copia staffetta che Mondadori mi ha dato, per realizzare quello che era successo e ancora oggi, a un anno e mezzo di distanza, quello che è accaduto a Torino mi sembra incredibile.

Il percorso che ha portato la tua storia dal manoscritto al libro pubblicato è stato complicato? Che rapporto hai ora con Giona?

In realtà il processo di editing non è stato affatto traumatico ed è stato quasi totalmente privo di difficoltà. Quando entri nell’ottica che il tuo libro sarà pubblicato, inizia un processo che ti porta a vedere il tuo lavoro con un certo distacco, perché dal momento in cui firmi il contratto con la casa editrice, quello che hai scritto diventa un prodotto e non più il tuo libro. Ora L’inverno di Giona appartiene ai lettori, non più a me (sempre che quel ragazzino abbia mai avuto davvero un padrone, cosa della quale dubito) e quindi non ne sento più responsabile. Sono molto legato alle emozioni che mi ha dato raccontarlo, ma non a lui: ora Giona è cresciuto ed è giusto che viva la sua vita senza guardarsi mai alle spalle.

Ti ringrazio tantissimo per queste belle domande e per la possibilità che mi hai dato di parlare un po’ del libro. Se potessi, parteciperei al PIC ogni anno, perché per me è stata una  grande e importantissima famiglia di amici.

Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May

 

 

 

 

 

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