Non è facile parlare di Bruno: la rete ne conserva poche tracce e non è tipo da sbottonarsi al primo incontro. Di lui posso dire soltanto che è romano e che pare sia nato, con buona approssimazione, nel 1987. Un po’ poco per tracciarne il profilo.
Una cosa sicura è che quando ci si è messo ha dimostrato di saper scrivere. Finalista della 31° edizione del Premio Italo Calvino, il suo primo romanzo è stato pubblicato nel giugno scorso da Tunué.
Di Talib, o la curiosità, questo il titolo del racconto, si possono dire molte cose: che è ricco di fantasia, ironico, raffinato, generoso, pieno di spunti di riflessione. Tutto vero. Ma se posso permettermi un consiglio, da lettrice, il mio unico suggerimento è quello di sedersi e iniziare a sfogliarlo senza riserve, senza certezze, senza convinzioni a priori. Talib è un viaggio, quindi il modo migliore per viverlo è partire liberi da immagini prestampate, con gli occhi aperti, per poter vedere quello che succede davvero lungo la via. Sarà una meraviglia.
Il tuo romanzo è un misto di tante cose: secondo te è possibile identificare un genere letterario di appartenenza?
Non credo che sarei riuscito a portare a termine la scrittura se non mi fossi concesso la libertà di non pensare a un lettore e quindi a un genere di riferimento. Leggendolo, si sarebbe tentati di definirlo un fantasy. Io però, pur essendo partito da alcuni appunti di gioco di Dungeons & Dragons, che in effetti è un gioco di ruolo da tavola fantasy, ho fatto di tutto per allontanarmi dai canoni del genere. Nel mondo di Talib ci sono numerosi elementi fantastici, ma non esiste la magia. Inoltre non c’è un antagonista e il protagonista non è esattamente un eroe. La collocazione temporale, poi, è più vicina al nostro Ottocento che al medioevo.
Direi che è piuttosto un romanzo d’avventura.
Il testo è composto da più parti: la narrazione vera e propria, le note e l’appendice. Il tutto collegato e interconnesso, come se tu avessi scelto di riporre le informazioni in contenitori diversi, tutti necessari alla comprensione delle vicende. Perché hai scelto di svilupparlo in questo modo?
Sebbene il racconto sia frutto della mia fantasia, il mondo in cui si svolgono gli eventi esiste davvero. Per me questo è un concetto fondamentale e quasi ogni scelta fatta durante la scrittura è stata dettata da questa necessità.
Perciò ho immaginato Talib come un romanzo scritto (oltreché ambientato) nel XVIII secolo, in un mondo parallelo al nostro. L’autore del racconto appartiene dunque a questo mondo e lo scopo del suo libro è di dare una visione critica sulle sette inclinazioni dell’animo umano. È per questo che nessun elemento fantastico o bizzarro viene spiegato al lettore (se non indirettamente, attraverso l’azione dei personaggi): i draghi esistono davvero, tutti sanno come sono fatti, dunque non è necessario descriverli.
Quando però il suo racconto è arrivato nel nostro mondo assieme a una serie di altri libri, il traduttore ha ritenuto necessario apporre una serie di note per rendere tutto più chiaro al lettore. Ovviamente, non conoscendo personalmente il mondo di Talib, lo fa citando le opere di cui dispone, e così, attraverso le note, si scopre che Newton è esistito anche lì, che Bacone ha vissuto un paio di anni in Cielo, che le teorie atomistiche di Anassagora erano corrette, eccetera eccetera.
Ti va di regalarci una panoramica veloce sul mondo a colori di Talib?
Va bene, ma senza rivelare troppo. Diciamo che, tra le altre cose, nel mondo di Talib (e del suo autore) la Terra è cava, le nuvole più alte (i cirrocumuli) sono solide, Atlantide esiste davvero, i pianeti del nostro sistema solare sono grandi meduse, la Luna è una cupola d’argento e le fasi lunari sono dovute alla sua periodica ossidazione, gli gnomi sono esistiti davvero (ma si sono estinti).
Il mio intento, però, era di proporre un mondo che fosse il frutto di una serie di spiegazioni alternative alla nostra fisica e alla nostra filosofia, più che un mondo di pura fantasia. Anche per questo ho cercato di non creare troppo: il Sarisarinama esiste davvero, le linee di Nazca anche, l’Eldorado è una leggenda nota al lettore, lo Shamir è una figura della mitologia ebraica, così come il golem. Atlantide si è inabissata non per volere degli dei, ma per una ragione fisica ben precisa.
Uno dei motori della storia è senza dubbio l’amore, che spinge Talib a cercare il diamante necessario per chiedere in sposa la principessa. Ma l’altra spinta, altrettanto importante, è la curiosità. Talib fa un sacco di domande, anche se non sempre riceve risposte soddisfacenti. Perché questo binomio amore-curiosità?
È stata una questione di necessità, meno romantica di quanto si immagini. Detto che l’Autore non spiega nulla del mondo di Talib, ho ritenuto che fosse utile disporre almeno del filtro di un personaggio ignorante e inguaribilmente curioso. Il fatto che il protagonista sia ingenuo e che anche gli altri personaggi siano spinti a viaggiare per qualche inclinazione dell’animo (al limite partendo con convinzioni errate), mi ha permesso di mostrare il mondo attraverso le loro peripezie.
Leggendoti vengono in mente un’infinità di riferimenti sia letterari che cinematografici. Quali sono stati i tuoi modelli di riferimento?
In effetti mi capita spesso che il libro venga associato a letture che non ho (ancora) fatto.
Comunque sono due i libri che mi hanno guidato durante la scrittura. Il primo per importanza è Candido di Voltaire, che ho adorato per lo stile della narrazione: la successione forsennata degli eventi, la vena umoristica, la semplicità del periodo, l’uso in chiave comica dell’iperbole, la caratterizzazione semplice dei personaggi, la brevità dei capitoli e i loro titoli, insomma ogni cosa. Il secondo è Finzioni di Borges, per come facilita la sospensione dell’incredulità nel lettore usando le note a piè di pagina.
Ma l’ispirazione, mentre si scrive, può arrivare da ogni dove: il verso di una canzone, un bassorilievo sulla parete di un tempio, o persino un gioco per smartphone.
Quali difficoltà hai incontrato nella scrittura di questa storia e dei suoi personaggi?
La cosa più difficile è stata la costruzione del mondo di Talib, che ha richiesto anni prima ancora di scrivere una sola parola del racconto. Volevo che quel mondo avesse una sua profonda coerenza fisica e filosofica, in modo che rappresentasse una visione alternativa ma credibile della nostra realtà. È stato più un esercizio di calcolo e di scoperta che di creazione: avrò passato centinaia di ore su excel a calcolare quale fosse la distanza del cielo o quante meduse abitassero lo spazio che separa il cielo dal firmamento.
Anche individuare la forma attraverso cui raccontare questo mondo è stato abbastanza complicato: prima di scegliere il romanzo, avevo pensato di scrivere un atlante.
Giunto alla scrittura del racconto, invece, è filato tutto abbastanza liscio. Tranne forse l’intermezzo: non amo le descrizioni ed è stato più difficile che altrove fare in modo che non ce ne fossero.
Per quanto riguarda le note, una cosa che ci ho messo un po’ a capire è che tutto il sapere scientifico del mondo di Talib è in effetti il frutto di un percorso di scoperta. Ad esempio: volevo spiegare non solo cosa fossero le stelle cadenti, ma anche far capire come fossero arrivati a scoprirlo.
E poi il tuo Talib è arrivato al Premio Italo Calvino. Attraverso quale percorso?
È molto semplice: a una festa di compleanno ho conosciuto Fabio Napoli, finalista della 22° edizione con Dimmi che c’entra l’uovo. Avevo da poco finito di scrivere il mio libro, e quando gliene ho parlato mi ha detto: “Sembra proprio un libro da Tunué; comunque il mio consiglio è di mandarlo al Premio Calvino, non si sa mai”.
Nella giuria dell’edizione a cui ho partecipato, neanche a farlo apposta, c’era Vanni Santoni, direttore della collana dei romanzi di Tunué: è così che ci siamo incontrati ed è così che Talib è diventato un libro di Tunué.
Per darti un’idea di quanto il Calvino sia stato fondamentale nel mio caso, posso dire questo: prima di mandarlo al Premio, avevo spedito il manoscritto ad alcune case editrici senza ottenere risposta e che tra queste c’era anche Tunué. Da esordiente è molto difficile far valutare con attenzione il proprio testo dalle case editrici, per questo che il PIC è in effetti il migliore punto di partenza, anche solo per la scheda di valutazione che viene inviata a ogni partecipante.
Come hai vissuto il rapporto con la casa editrice e il percorso di editing?
Devo ammettere che mi sono approcciato all’editing con Vanni non senza una certa ansia. Visto il tempo che ci avevo messo a scrivere Talib e le tre stesure che aveva attraversato, non riuscivo proprio a immaginare dove potesse migliorare. Il libro, poi, ha una struttura abbastanza complessa, dotata di un equilibrio molto delicato: un intervento troppo massiccio avrebbe potuto far crollare tutto. Infine c’è un istintivo senso di protezione verso la propria creatura.
In realtà, però, man mano che l’editing avanzava (sotto il pungolo del buon Vanni) mi son sorpreso di scoprire quanto ampio fosse il margine di miglioramento a disposizione: la bravura dell’editor sta proprio lì. Il lavoro è consistito più che altro nel tagliare, come immagino accada nella maggior parte dei casi: dopo vari passaggi, alla fine il libro ne è uscito più corto di un terzo. Non è stato semplicissimo, soprattutto perché Vanni ha sempre lasciato scegliere a me dove effettuare i tagli, ma a posteriori posso dire che è stato molto soddisfacente. Non so se ho imparato qualcosa da quest’esperienza. Però mi son fatto l’idea che quello dell’editor sia proprio un bel lavoro.
Il commento più bello e il commento più brutto che hai ricevuto sul tuo romanzo.
Il più bello è stato: “Ma per caso hai mai letto Voltaire? Perché il tuo libro mi ha fatto ripensare al Candido”. Ancora ora non so se mi stessero prendendo in giro.
Di commenti brutti non ne ho ricevuti, per adesso.
Hai già qualche idea per un secondo libro?
Ad ora non ho altre idee. Quella di Talib è probabilmente l’unica idea per un libro che abbia mai avuto. Prima di questo romanzo non avevo scritto altro, neanche in forma di bozza. Peraltro è un’idea nata per giocare di ruolo con alcuni amici e mai avrei immaginato di farla diventare un romanzo. Ho scritto questo libro quasi per svuotare la testa dal mondo di Talib, tutto ciò che è venuto dopo la scrittura – la finale del Calvino, la pubblicazione – è stato un extra. Insomma è difficile che scriva altri libri.
Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May