di Mariolina Bertini
Dopo qualche pagina di Teresa sulla luna. Vita, musica e peccati di mia nonna millantatrice (Solferino, Milano 2019, pp. 253, € 18) mi è capitato di pensare: “Tutti i romanzieri pesanti si somigliano, ogni romanziere leggero è leggero a modo suo”. Nel giro di pochi istanti, mi sono stati chiari i limiti di questa apparente illuminazione. Non è affatto vero che tutti i romanzieri pesanti – da Bacchelli a D’Arrigo a Moresco – si somigliano; è il mio atteggiamento verso di loro che è sempre uguale. Li tiro giù dallo scaffale, con la più sincera volontà di affrontarli, e poi li rimetto a posto, riecheggiando in cuor mio la preghiera di Sant’Agostino: “Signore, dammi la castità, ma non subito”.
Però è vero, invece, che i romanzieri che potremmo definire leggeri sono molto diversi tra loro: il Perec di Cantatrix sopranica non ha punti di contatto con il David Foster Wallace che racconta la fiera del porno ne Il figlio grosso e rosso, e l’erudizione orgogliosamente inutile di Edgardo Franzosini è tutt’altra cosa dal genio surreale e multiforme di Ermanno Cavazzoni. Errico Buonanno sin dal suo primo romanzo, Piccola serenata notturna (2003), incarna una variante della leggerezza che ha a che fare con la Storia: fingendo di ripercorrerne rispettosamente le vie maestre, in realtà ce le mostra disseminate di trabocchetti, miraggi e illusioni, e finisce col mettere in dubbio certezze assodate e prospettive rassicuranti. Ha così perfezionato una strategia narrativa inconfondibile, che ha applicato sullo sfondo dei più diversi scenari: la biografia di Karl Marx (Lotta di classe al terzo piano, Rizzoli, 2014), le storie di santi e maghi esperti nel prodigio della levitazione (Vite straordinarie di uomini volanti, Sellerio 2018), i celebri falsi che hanno influito nei secoli sul destino di intere nazioni (Sarà vero, Einaudi 2009 e Utet 2019). In Teresa sulla luna è la vita della sua stessa famiglia, con affettuosa ironia, ad essere sottoposta a questo trattamento, rivelandosi non meno ricca di abbellimenti fantasiosi della Leggenda aurea e delle mille tradizioni di cui è fatta la storia orale e aneddotica.
La Teresa del titolo è la nonna materna di Errico, Teresa Piserchia, nata nel 1918 e morta quasi centenaria, dopo un’esistenza di successi e di avventure che i familiari intimiditi non hanno mai osato porre esplicitamente in dubbio. Nelle fotografie che corredano il racconto la vediamo comparire, in copertina a un rotocalco del 1932, seduta con grazia sbarazzina su una staccionata, e sorridere, avvolta in una gran stola di volpe, tra i suonatori di un’orchestrina jazz. Sono le prove di una brillante carriera nel mondo della moda o dello spettacolo? Nulla di meno sicuro. Per quanto Teresa rievochi volentieri i suoi incontri, a Parigi e a New York, con grandi jazzisti e celebri scrittori, non ci sono prove che sia mai andata oltre Montefiascone, dove è stato celebrato il suo primo matrimonio con un oscuro pianista, scomparso ben presto dai radar. Quanto ai suoi doni musicali, è difficile precisarne la natura. “Io suonavo!”, afferma Teresa orgogliosamente; ma non si riferisce alla banale pratica di un qualche strumento musicale, bensì a una magica melodia che si sarebbe sprigionata dai suoi passi, da ogni suo movimento, esercitando su quanti la circondavano un fascino irresistibile. Tra le vittime di quell’aura, Enrico Fermi, che ne avrebbe tentato un’analisi scientifica, e Amedeo Nazzari, disperato davanti al rifiuto opposto da Teresa alle sue profferte.
Benché la fase più gloriosa delle avventure di Teresa si collochi ben prima della nascita di Errico, nell’età del jazz e del cinema dei telefoni bianchi, il suo influsso sull’educazione del nipotino è importante e, a sentir lui, nefasto; gli episodi raccontati a questo proposito sono tra i più esilaranti del romanzo. Decisa a portare il nipote di sei anni ad ammirare una necropoli etrusca, Teresa sbaglia la strada per Cerveteri, si perde in una campagna anonima ma, con la sua prepotente immaginazione, trasforma un pianoro sassoso e desolato in un’area archeologica ricca di tesori. Il bimbo vede solo uno spiazzo, un fosso, dell’erba marcia, ma la nonna non si scoraggia:
… Mentre mostrava sterpi e terra, e mi spiegava ogni segreto degli etruschi, io mi chiedevo se lo sapesse anche lei che non c’era niente di niente in quel campo, o se fossi io che non capivo. Cioè che quel niente era bello, era etrusco, e sarebbe stato mio compito apprezzarne il valore. (…) Nonna acciuffò un ramoscello, disegnò delle linee per terra. «Romolo, il nostro padre Romolo, seguì il modo etrusco in cui si fondava una città. Tracciò un quadratone. E che c’era dentro?»
«…»
«Niente di niente, caro. Ossia: Roma. Quella città se la sognava. Ecco». Mi prese per mano e ci sedemmo nel quadrato. «Capisci?»
Qualche anno dopo, in quarta elementare, Errico deve recitare la parte del giardiniere in una scenetta intitolata La bella olandesina; rivolgendosi a una compagna di scuola, che impersona l’olandesina Belinda, deve convincerla a cantare una canzone, che rianimerà i suoi tulipani avvizziti dal caldo estivo. Memore delle sue, per altro dubbie e fuggevoli, esperienze nel teatro di varietà, Teresa decide di migliorare radicalmente la scenetta, facendone emergere gli impliciti significati erotici. L’innocente Errico, sobillato dalla diabolica nonna, modifica dunque le battute del copione e denuncia in termini non equivoci l’ammosciamento dei suoi tulipani: tra genitori increduli e maestre scandalizzate, la recita si chiude in un clima di generale imbarazzo. Teresa non l’aveva previsto: la sua certezza incrollabile di essere una “gran signora” le consente una gioiosa e disinvolta familiarità con i doppi sensi più triviali. Le ricordano, quei doppi sensi, le canzonette della sua giovinezza, la cui audacia non aveva per lei nulla di volgare ma era un vessillo di spregiudicatezza e di modernità.
Non è soltanto il piccolo Errico a patire le conseguenze del luciferino orgoglio della nonna; tutti i familiari, a cominciare dal suo secondo marito, il mite e coltissimo maestro Augusto, devono rassegnarsi a subire la sua alterigia e i suoi capricci di diva. È il risvolto oscuro della gloria di Teresa: per brillare, i suoi successi passati hanno bisogno di essere continuamente confrontati con la mediocrità del resto della famiglia. Paradossalmente, il suo prestigio si fonda sull’umiliazione di tutti i suoi cari, sul deprezzamento della loro quotidianità “passatista”, grigia e modesta. È con questo tratto che il personaggio di Teresa acquista un significato che va al di là della cronaca famigliare. Grazie alla sua tracotanza, Teresa viene ad incarnare con assoluta perfezione un’Italia piccolo-borghese velleitaria, succube della retorica dannunziana e futurista, che alla realtà in cui vive (fatta di minestrine, cicoria, stufette elettriche e bicarbonato dopo pranzo) sostituisce arbitrariamente scenari di inaudita magnificenza e sogni sfrenati di conquista e di avventura. Il malinconico tramonto di questa nonna indomabile, la sua vecchiaia ipnotizzata dai quiz di Mike Bongiorno e di Raffaella Carrà, raccontano senza bisogno di esplicitarla tutta l’inconsistenza di quei sogni e del loro illusorio splendore.
Ha dunque uno spessore storico, e sociologico, la parabola di Teresa, con il suo corteggio di episodi straordinariamente divertenti e di gustosissime figurette minori. E ci suggerisce un’ultima ipotesi, incerta come tutte le avventure rievocate in questo romanzo: è possibile che una parte del talento di Errico sia da ascrivere non all’influsso dei suoi numi tutelari di sempre – Kafka, Borges, Eco – ma a quello meno conosciuto di Teresa Piserchia, affabulatrice instancabile e ingegnosa artefice di un mito personale capace di attraversare e racchiudere un secolo intero?
L’ha ripubblicato su l'eta' della innocenza.
"Mi piace""Mi piace"