di Fabrizio Pasanisi
Per chi ama Fellini, lo scandalo più grande del Novecento è che non gli abbiano permesso di girare altri film nella parte conclusiva della sua esistenza. Per chi ama Fellini, la più bella notizia dalla sua scomparsa è stata la pubblicazione presso Rizzoli, nel 2008 e in due edizioni, una di lusso e una più abbordabile, del suo Il libro dei sogni: un’opera per tanti versi straordinaria, e decisamente unica.
Di opere con un titolo analogo ce ne sono altre, almeno due molto importanti: quella di Artemidoro e quella di Borges, una che prende molto sul serio la materia, ed è immersa in un sapere secolare, l’altra molto più labile e sfuggente, com’è nella logica della cosa, e nel senso profondo del suo autore. Quello di Fellini è una strana via di mezzo, impossibile da classificare se non sotto il termine di “diario”. Ma è un diario talmente sui generis da lasciare, al solo sfogliarlo, basiti. Si tratta di una raccolta di sogni, questo è già spiegato dal titolo, dei propri sogni, di chi scrive, dei sogni di un autore, e poiché questo autore ha due caratteristiche, insieme ad altre, quella di essere un visionario, e di essere un eccellente disegnatore, un caricaturista che conduce la propria capacità tecnica e intuitiva sul piano dell’arte, ecco che questa raccolta diventa non solo eccezionale, ma rivelatrice, come lo sono i capolavori. Il libro potrebbe portare il sottotitolo baudeleriano di Mon coueur mis à nu, poiché si tratta di una speciale confessione, cioè del racconto della propria, di Fellini, parte più intima, tenendo peraltro presente che il maestro di Rimini era un grande bugiardo, lo sapevano bene familiari – la cara Giulietta – e amici, lo hanno dovuto scoprire i biografi, a partire da Tullio Kezich e da chi si è dovuto districare tra gli aneddoti più o meno veritieri di cui aveva disseminato il percorso di una vita.
Fellini ci ha raccontato il sogno come pochi altri, era un collezionista di sogni, che emergono già al solo vedere le migliaia di foto che teneva negli armadi di Cinecittà: foto di volti, di gente comune, quella che sarebbe potuta diventare un interprete o una semplice comparsa di uno dei suoi film. Ogni volto uguale un sogno, anzi, mille sogni, mille e mille possibilità di racconto, di invenzione. Un po’ come faceva il suo amico ed estimatore Simenon con i nomi, dei quali aveva bisogno rubandoli a un elenco telefonico per costruire personaggi e poi storie, Fellini si nutriva di volti. E si nutriva, questo si rileva dai suoi film, sin dal capolavoro Otto e mezzo o dalla Dolce vita, di sé stesso, del proprio essere, della propria vita vissuta e di quella interiore. Marcello Mastroianni diventa il suo alter ego, l’infanzia nel borgo di Rimini diventa il racconto di Amarcord, persino il suo bisogno dell’altra donna, persino il tradimento, il proprio, diventa argomento di narrazione sin troppo esplicita in Giulietta degli spiriti, un film nel quale fece recitare addirittura come protagonista la moglie, l’oggetto stesso del tradimento. Fellini racconta sé stesso nel proprio cinema, con narcisismo e una certa spudoratezza; ma Fellini mente, sempre. E allora?
Allora ecco il libro, in cui la menzogna non è concessa. Se decidi di andare da uno psicanalista, o da un prete a confessarti, e menti, peggio per te, stai buttando i tuoi soldi o il tuo tempo, ti stai prendendo un’ingiustificata assoluzione, ma non la soluzione di cui, forse, avresti bisogno. Questo diario percorre oltre vent’anni della vita del maestro, dalla fine del 1960 al ’90. Lo iniziò a scrivere, a disegnare, a comporre, quando frequentava Ernest Berhard, lo psicanalista junghiano che ebbe un ruolo fondamentale nel suo percorso esistenziale e quindi di artista. Berhard gli spiegò uno dei concetti chiave della psicologia del profondo, quello formulato in Ricordi, sogni, riflessioni del rivale, se così si può dire, di Freud: “L’esperienza ci mostra che i sogni si sforzano sempre di esprimere qualcosa che l’io non sa e non capisce”.
Ecco, forse è da questa frase che bisogna partire per raccontare questo libro. Fellini, gran bugiardo, compila un catalogo quasi giornaliero dei propri sogni, che ovviamente diventano racconti, se vogliamo film, pieni di personaggi – alcuni noti a chiunque –, pieni di assurdità, invenzioni, proiezioni di sé, dubbi esistenziali, risposte a quesiti improponibili. Il visionario nutre nel modo più ovvio, e incontrollabile, la propria visione, la fa diventare metodo, la fa giocare con il reale e permette a noi lettori, oggi, di farlo. Insomma, tutto questo diventa un vero godimento, una gioia per chi ama Fellini, per chi ama i sogni, e comunque per chiunque abbia compreso e condiviso quella frase che mette Garcia Márquez a un certo punto, verso il finale, di Cent’anni di solitudine, e dice così:
Non gli era mai venuto in mente fino allora di pensare alla letteratura come al miglior giocattolo che si fosse inventato per burlarsi della gente.
Letteratura, ma anche cinema, ovviamente, e pittura, e arte, tutta l’arte, come una grande burla, la stessa che Fellini ci ha raccontano nei suoi film, quando ci parla della crisi di Guido o delle imprese di Casanova, quando ricostruisce il mondo di Roma antica o il vociare smodato in una trattoria della Roma fascista.
Insomma, in questo libro, ancora una volta, ma offrendoci una chiave di lettura che ci spiazza, Fellini racconta sé stesso e racconta l’uomo, la vita come è, nella sua assurdità, nella sua inafferrabilità. Non può mentire, scrive:
Nei sogni io mi vesto quasi sempre di spalle e con i capelli e più magro, cioè com’ero venti o trent’anni fa [in verità mette sull’ultima a un accento che le cade addosso come un machete].
Un altro collezionista di sogni, o uno alla ricerca di materiale per il prossimo appuntamento con l’analista, si sarebbe accontentato della descrizione; lui invece va oltre e disegna l’omino del sogno, fa vedere come si vede, e anche come si dovrebbe vedere se il sogno fosse più veritiero, con trent’anni di più seppure sempre di schiena. Riempie infatti ogni pagina, ogni singola pagina, di una o più immagini, coloratissime, che possono restare nella nostra mente come quelle della volta della Sistina, per la loro invadente abbondanza, per quel tocco di assurdo, di magia, che le sostiene, perché ritraggono il noto, corpi, volti, attraverso la deformazione del sogno, o, come avrebbe spiegato Freud, attraverso il gioco della creazione, dell’arte, che del sogno è limitrofa.
Si tratta di circa cinquecento pagine di fantasie allo stato più puro, una catalogo dell’inconscio a uso di studiosi, appassionati, semplici lettori sorretti da curiosità e piacere della scoperta. Che libro magnifico, che regalo a noi tutti, come un incunabolo medievale, come uno di quei codici che riempiono la trama del Nome della rosa. Che meraviglia!