“Le cose ce le rubiamo l’un l’altro: il tempo, la pazienza, la fiducia, il buonumore, l’ombrello, la vita. Io penso che gran parte del mio tempo mi è stato rubato in ore da sessanta minuti, in gruppi di otto e in file di cinque”. Ecco: questa è la vita degli operai; una volta li si sarebbe detti proletari, ma Massimo e Valentino non ce li hanno neppure dei figli. Cinquantenni logorati dalle alienanti fatiche della fabbrica – la loro si chiama Filati Dolomiti –, i due sentono sempre più strette le maglie della recessione, della mobilità e della tetra cassa integrazione che ha colpito, dopo l’affaccio sul XXI secolo, moltissime di quelle che negli anni buoni della fine del Novecento erano le “fabbrichette” di famiglia dello zelante nordest. Succede però che, in seguito a un incendio che quasi porta gli operai della Filati Dolomiti a fare la fine del topo, una parte del vecchio magazzino venga acquistato da una ditta orafa, la Ora Oro, dalle illecite attività, e succede pure che Massimo e Valentino conoscano un segreto cunicolo (e poi una vasca di rilancio colma di liquami mefitici) attraverso il quale si può accedere a un deposito di gioielli (anelli, bracciali, collane, ninnoli, “il nuovo oro della patria, tanti piccoli rivoli intercettati da eleganti e discreti acquirenti che diventavano di nuovo materia prima, magari non registrata, che veniva lavorata e probabilmente venduta all’estero senza essere fatturata) della sleale azienda dirimpettaia; è l’occasione per rimettere in pari i conti: occorre congegnare bene il piano, fare il colpo e, con il ricavato, ricostruirsi una vita, su in montagna, rilevando l’agriturismo di Ivo a Monteparadiso (che in Valentino fa riverberare la sua “vecchia casa su a Piàie”). Ma a un certo punto Valentino incontra, in corriera, Yu, una ventiseienne cinese che risveglia in lui l’amore e la voglia di fare le cose come vanno fatte: si chiede perciò cosa diavolo stiano facendo, lui e Massimo, e perché lo stiano facendo? Certo per una vita migliore, per un’esistenza più giusta, per continuare a credere, come accade ai bambini, “che il mondo poteva essere il prolungamento di un sogno o di un desiderio”. Ma è quella la strada? Antonio Giacomo Bortoluzzi scrive un romanzo importante narrando la vita degli operai di oggi, non più proletari ma sfruttati dalle ingiustizie di un sistema che li fa navigare a vista senza un progetto per il domani. E quando questo progetto se lo costruiscono, devono immergersi nella merda delle fognature e nella merda della vita, facendo i conti con il proprio senso della giustizia e dell’onestà, perché in fondo “ciò che conta di più è il modo in cui si lavora, come si fanno le cose, non tanto quello che si fa” e le cose importanti non si edificano con la reità dei corrotti ma con la fatica, la voglia di fare, la pazienza e la solidità del tempo.
Antonio G. Bortoluzzi, Come si fanno le cose, Marsilio, pp. 215, € 16