(fotografia di Mariolina Bertini)
di Mariolina Bertini
«Avete mai notato – scriveva Sainte-Beuve in un romanzo del 1834, Volupté – come il tempo nel quale avremmo voluto vivere sia quello che precede immediatamente il tempo nel quale siamo venuti al mondo?» Non so se a questa domanda, da lui formulata pensando a certe “mattine color porpora” del Consolato, tutti risponderebbero positivamente; di certo, però, molti italiani nati, come me, nella seconda metà degli anni Quaranta, hanno provato, a volte, una lancinante curiosità per quel momento favoloso e irripetibile in cui era finita la guerra e in cui ai loro genitori era sembrato che il mondo rinascesse, carico di speranze, dalle sue rovine.
È proprio a quel momento che L’orologio di Carlo Levi riporta il lettore: scritto tra il 1947 e il 1949, pubblicato nel 1950, il romanzo rievoca alcune giornate del novembre del 1945. Al centro della narrazione, sinuosa e ricca di digressioni, un evento storico cruciale, di cui Levi è stato testimone come caporedattore del quotidiano del Partito d’Azione L’Italia libera: la fine del governo Parri, che aprì la strada al lungo trionfo della Democrazia Cristiana.
Nel capitolo VII assistiamo in diretta al momento più drammatico di quella crisi: al Viminale, il Presidente del Consiglio, Ferruccio Parri, convoca i membri del Comitato di Liberazione, per fare, secondo una procedura del tutto irrituale, la sua ultima dichiarazione. La sua voce, spenta e priva di enfasi, aliena da ogni teatralità, denuncia il “colpo di Stato” con il quale, togliendo l’appoggio al suo governo, i liberali stanno consegnando di fatto il paese alla Democrazia Cristiana e cancellando quelle speranze di profonde trasformazioni sociali che avevano ispirato la Resistenza. Il dolore di Parri, con il suo accento pacato di vera persuasione, fa risaltare la freddezza calcolatrice dei politici, soddisfatti di riprendere il controllo della situazione dopo la stagione tempestosa e imprevedibile della guerra partigiana:
Aveva il viso sofferente, come se un dolore continuo, il dolore degli altri che non può aver fine, gli volgesse in basso gli angoli della bocca, gli spegnesse lo sguardo, e gli avesse, fin da fanciullo, imbiancato i lunghi capelli. Lo guardavo, diritto in mezzo ai due compagni di destra e di sinistra, dai visi fin troppo umani, accorti, abili, attenti, astuti, avidi di cose presenti, e mi pareva che egli fosse invece impastato della materia impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti, con la spettrale sostanza dei morti, con la dolente immagine dei giovani morti, dei fucilati, degli impiccati, dei torturati, con le lacrime e i freddi sudori dei feriti, dei rantolanti, degli angosciati, dei malati, degli orfani , nelle città e sulle montagne (…)
Dicevano che non fosse un uomo politico, che non rappresentasse nessuna forza reale, che non sapesse destreggiarsi nel giuoco avviluppato degli interessi, che non fosse altro che un personaggio simbolico e neutrale. Ma egli rappresentava, o ne era piuttosto costruito, qualche cosa che non è negli schemi dei politici; una cosa nascosta e senza nome, uguale in tutti e indeterminata, ripetuta milioni di volte in milioni di modi eternamente uguali: i morti freddi sotto la terra, la sofferenza di ogni giorno, e il coraggio che la nasconde.
È ben più di una sconfitta politica, agli occhi di Carlo Levi, la sconfitta del governo Parri. È il ritorno trionfale della vecchia casta burocratica tenacemente annidata nei Ministeri e in tutti i centri di potere, ben decisa a scongiurare ogni mutamento e a garantire la continuazione indefinita dell’esistente, la prevalenza schiacciante delle antiche forze conservatrici su ogni fermento rinnovatore. Parri, ritratto nel momento in cui esce di scena, incarna il tempo del sogno rivoluzionario, della lotta e del sacrificio; tempo di fervore cui subentrerà il tempo stagnante dei compromessi, della retorica menzognera, delle transazioni losche e dell’assistenzialismo ricattatorio, miserabile e sempre insufficiente.
Due epoche opposte si fronteggiano dunque al centro dell’Orologio: il recente, euforico passato della vittoria sul fascismo, e il deludente presente, in cui la “sterminata, informe, ameboide” piccola borghesia si prepara con successo a perpetuare il proprio dominio parassitario sui ceti popolari produttivi, con la protezione interessata del clero e del grande capitale. Ma il tempo della Storia non è il solo tempo presente nell’opera: ce lo ricorda il titolo stesso del romanzo, che allude allo strumento che misura, per ognuno di noi, il tempo della vita quotidiana, dell’esistenza individuale. Nella vita del narratore-protagonista due orologi sono infatti destinati ad avere un ruolo simbolico, il primo all’inizio e il secondo alla fine del racconto; così il motivo del tempo incornicia la narrazione e ne sottolinea la coerenza.
Il primo orologio è il massiccio orologio d’oro da taschino ricevuto dal padre: dovrebbe rappresentare la continuità delle generazioni, la trasmissione di valori stabili, il perpetuarsi di una tradizione. Tutto quel che significa, però, entra in crisi con l’arrivo del narratore nella magmatica realtà romana: già la prima notte, in un angoscioso sogno kafkiano, il protagonista se lo vede sottrarre e deve sostenere le proprie ragioni davanti a un bizzarro tribunale presieduto addirittura dalla più autorevole guida spirituale della sua generazione, Benedetto Croce. Le cose non vanno meglio la mattina dopo: come se il sogno fosse stato un’ironica profezia, il prezioso orologio cade a terra, si rompe, e trovare chi lo sappia riparare si rivela un’impresa quasi impossibile. È dunque senza quell’oggetto rassicurante che il protagonista dovrà affrontare la sua nuova, faticosa esistenza in una città brulicante di commerci illeciti e attività sospette, dove ci si arrangia in mille modi per campare e dove la vitalità di prostitute e contrabbandieri, vecchie mendicanti e loschi traffichini trasforma le strade nel palcoscenico di un’ininterrotta commedia picaresca. D’altronde, quel nobile orologio così adatto a misurare il tempo della vita borghese d’anteguerra, sarebbe al suo posto tra le rovine del 1945? L’eroe di Carlo Levi sperimenta una realtà in cui il tempo non è più quello che scorreva, con apparente regolarità, nel mondo dei padri. Già la Roma nella quale convivono antichi palazzi e jeeps alleate, infette borgate prive di fogne e ministeri dai marmi sontuosi è immersa in un tempo indefinibile; ma lo scenario si fa ancora più incerto quando il narratore deve affrontare un viaggio verso Napoli su un’auto di fortuna, in compagnia di un improbabile gruppetto di sconosciuti. Quando in una forra appare di fronte ai viaggiatori un minaccioso bandito dall’abbigliamento ottocentesco, quando i compagni di viaggio del protagonista discutono lungamente per stabilire se li abbia salvati la Madonna, Sant’Antonio o San Nicola, non ci sono dubbi: il tempo, come dice Amleto, è “uscito dai cardini”. Nel presente dilaga un passato arcaico e leggendario, impermeabile alla scienza e al progresso, ricco di oscura vitalità, forse immortale. In questo tempo composito, stratificato, multidirezionale, il vecchio orologio del padre, con il suo perfettissimo congegno svizzero, non sarebbe di nessuna utilità. Sarà forse una bussola più attendibile l’orologio che alla fine del racconto il protagonista eredita dallo zio Luca, figura eccentrica e luminosa, che muore a Napoli proprio quando il nipote arrivato da Roma si preparava a incontrarlo. Scienziato eretico e solitario, che è andato per tutta la vita a caccia della verità mescolando misticismo e scienza positivistica, lo zio Luca in qualche modo è in sintonia con il tempo complesso in cui suo nipote si trova a vivere; forse il suo orologio saprà scandire meglio di quello del padre le ore di un tempo in cui, per affrontare il futuro, sarà necessario saper decifrare i segreti di un passato mitico che non è mai veramente morto.
L’autobiografia liberamente reinventata è stata un genere (o sottogenere) molto frequentato nel Novecento, dal Nabokov del Dono a Céline, dal Soldati delle Due città alla Ginzburg di Lessico famigliare, da Truman Capote a Patrick Modiano. È un genere con poche regole elastiche e vaghe, in cui ogni scrittore si muove a modo suo. Nell’Orologio, come già in Cristo si è fermato a Eboli, partendo da ricordi autentici, Carlo Levi ricrea un mondo sospeso tra il registro realistico e quello fantastico: accanto a pagine nelle quali prevale la deformazione visionaria di cose e persone, se ne allineano altre che hanno il rigore del reportage (quelle ad esempio sulla Garbatella) e altre in cui la riflessione politica, sociologica, etnografica si impone come centrale. Dappertutto però è presente l’impronta del Levi poeta e pittore; e quel che più ricorda i suoi quadri d’ispirazione mitologica sono i brani nei quali affiora il mito di una Roma arcaica e misteriosa, come ad esempio il passaggio iniziale:
La notte, a Roma, par di sentire ruggire i leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case.
Non ho mai capito che cosa producesse quel rumore.
È come se queste pagine fossero il cuore poetico del libro, la declinazione novecentesca del baudelairiano petit poème en prose, nato per dire la realtà tutta urti e dissonanze della moderna metropoli. E nella Roma dell’Orologio quella musica dissonante accompagna una visione in cui Carlo Levi traduce in parole la propria pittura, ricreandone i colori e la vitalità che tutto pervade:
Era l’ora del tramonto: un’aria piena di colori mutevoli avvolgeva le case, tra la luce e l’ombra: e pareva che ogni cosa brillasse di una sua luce interna e propria, e lanciasse sulle altre i suoi raggi, in un tessuto infinito e impalpabile. Passavo in strade strette e piccole piazze, in vicoli, tra mura continuamente variate di archi, di colonne, di cornici, di ornamenti, di arcani rapporti di spazi, come un linguaggio sensibile della contemporaneità dei tempi, in un passato armoniosamente presente, fra scale, botteghe, campanili, terrazze, finestre abitate da figure silenziose, e il passaggio continuo della gente, dei loro visi brillanti nella penombra, dei loro occhi neri, del bianco acceso delle carni, fra l’onda delle voci, dei sussurri, dei richiami. L’ultimo sole batteva sulla cima delle facciate, e le tingeva di un color di rosa, umano come quello delle nuvole, contro il verde e il violetto del cielo.