Iaia Caputo Era mia madre coppola verri blog

di Alba Coppola

Col romanzo del 2016, Era mia madre, Iaia Caputo, nata a Napoli nel 1960, trapiantata a Milano, continua a narrare il mondo femminile ma anche, più lateralmente, quello maschile e i rapporti uomo-donna, tutti temi focalizzati in altri suoi scritti precedenti, d’invenzione o d’indagine, Di cosa parlano le donne quando parlano d’amore (2001), Dimmi ancora una parola (2006), Il silenzio degli uomini (2012). Ma l’operazione dell’ultimo romanzo è più articolata, malgrado si concentri soprattutto sul rapporto matrilineare, su quello tra Alice, l’io narrante, ballerina precaria di 35 anni, e sua madre ch’ella ricorda e scopre, ma anche su quello tra la madre di Alice e la nonna materna, Sinforosa, e, ancora, tra Alice a Sinforosa, intelligente, sensibile, perspicace, saggia, quasi ignara di studi, che, in più occasioni, mostra di aver provato qualche timore per la figlia, l’unica, tra le figure del romanzo di cui non viene mai detto il nome, qualificata com’è dai suoi ruoli, quello di madre, innanzitutto, già presente nel titolo, ma anche quello di moglie, di intellettuale femminista, appassionata docente universitaria, amante, amica generosa, ma con un tratto di severità intellettuale, non sappiamo quanto inconsapevole, che ha intimidito Sinforosa.

L’azione comincia a Parigi, dove Alice, che al momento ci vive, accompagna la madre verso il treno che deve riportarla in Italia, a Napoli. La madre sorride nel guardare qualcosa che ha attratto la sua attenzione e cammina con la testa rivolta a quel qualcosa, quando cade e, soccorsa, appare subito priva di conoscenza. In ospedale, Alice ascolta con sgomento la diagnosi: una devastante emorragia cerebrale. Dopo poco più di due mesi, in seguito a un ulteriore peggioramento, i medici consentono il trasferimento a Napoli in una struttura per lungodegenti. Per sei mesi, fino alla morte della madre, Alice abiterà nella casa dei genitori, dalla quale si era allontanata molto presto, e passerà da una scoperta all’altra, non solo su fatti e circostanze della vita di sua madre di cui non aveva mai saputo, ma anche di pensieri e sentimenti di lei, prima sconosciuti e insospettati. In questo percorso, che segna, in realtà, il passaggio da un’adolescenza mai valicata all’entrata consapevole nell’età adulta, è determinante un fascio di lettere che la madre aveva scritto perché Alice le leggesse dopo la sua morte, ma che le vengono consegnate da, Arturo, subito dopo l’arrivo a Napoli. Arturo è il padre di Alice, che ella ha smesso di amare molti anni prima, per la vergogna e la delusione procuratele dal suo coinvolgimento in Tangentopoli, seguito dalla carcerazione, dopo la quale la ragazza aveva lasciato la famiglia per seguire una carriera estremamente precaria di ballerina.

E via via, mentre la madre viene rivelata attraverso le lettere, le parole di Sinforosa, di Arturo in conversazioni piene di tensione, persino da quelle di un insospettato giovane amante, il romanzo narra un percorso in cui Alice scopre anche sé stessa, la motivazione del proprio distacco dai libri, così importanti per la madre, e, comprende, la motivazione profonda della propria scelta di esprimersi nel gesto, faticoso e muto, della danza. E, ancora, lentamente, Alice depone il rancore per la strenua difesa della madre a favore di Arturo, che, in realtà, era stato rancore per la presenza paterna, avvertita come ostacolo ad ottenere l’esclusività dell’amore materno. Siamo, dunque, dinanzi a un romanzo di formazione. Nei mesi dolorosi di un distacco annunciato, Alice ripercorre la vita della madre e la propria, e, letteralmente la rifonda, gettando le basi per un amore nuovo, stabile, a cui aveva rinunciato per sfiducia nelle sue possibilità di essere amata e di amare. Il mondo materno, fatto di intellettualità, ma anche di cura della casa, della cucina, dei fiori, del marito, dei propri studenti, della figlia, dedizione verso qualcosa da nutrire e far crescere, quel mondo che Alice non aveva prima compreso, che in parte aveva detestato, in parte aveva dato per scontato e definitivo, eterno, quella cura, quella dedizione e la persona che la offriva stanno per andar via per sempre. Il vuoto che minaccia Alice le dà una vertigine ininterrotta lungo tutta la silenziosa agonia della madre, ma, intanto, Alice impara. Impara il nuovo corpo, sfiorito e senza più forza, di sua madre, impara ad essere lei, adesso, a prendersene cura, impara che la nonna Sinforosa, con cui ha condiviso da bambina lo svago e il sogno della danza, attraverso un’ingenua serie televisiva, la nonna illetterata, nel cui linguaggio il napoletano è radice, custodisce una visione antica e sapiente del mondo, in cui l’amore per un uomo, da fugace passione giovanile, diviene bene profondo e paziente, come l’amore per la vita, della cui finitezza Sinforosa è ben consapevole, ma che vive andando avanti e avanti, un passo dopo l’altro, come se quel cammino non dovesse mai finire.

La conquista di Alice, durante l’agonia della madre, è soprattutto reinterpretazione del passato, scoperta di un nuovo senso e ricostruzione del proprio destino. Dopo la morte di lei, è riscoperta di quel che rimane, di quello che c’era sempre stato. Così, Alice sente che il gelo del suo cuore verso il padre è ormai sciolto, sente di amarlo nuovamente, che, anzi, è adesso consapevole di amarlo, smette di chiamarlo Arturo e di nuovo lo chiama papà. Più avanti, troverà la forza di accettare il nuovo lutto della morte di Sinforosa. Alice va avanti, un passo dietro l’altro: adesso è lei che scrive, come sua madre aveva fatto per tutta la vita, e scrive a sua madre e di sua madre, con un finale che mostra un passaggio fra generazioni compiuto nel segno di una fertile continuità.

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