A Londra con Sherlock Holmes Franceschini Bertini Verri blog

di Mariolina Bertini

In un primo momento, in libreria, i volumetti di questa collana, Passaggi di dogana, li si nota per l’estrema eleganza grafica fintamente dimessa, piena di understatement. Poi, frequentandoli più da vicino, ci si accorge che la loro particolarità è sempre quella di invitarci a un’esperienza ibrida in cui si confondono il viaggio e la lettura, il mondo reale e quello raccontato dagli scrittori, il mito letterario e l’esperienza vissuta. Ogni autore della collana, però, questo risultato lo cerca a modo suo: non esiste una formula, una ricetta comune. Per condurci nella Parigi di Colette, Angelo Molica Franco aveva focalizzato il suo racconto sul passato, dal primo Novecento agli anni Cinquanta; Franceschini, invece, pur procedendo sulle orme di Sherlock Holmes, le cui avventure si svolgono dagli anni Settanta del XIX secolo sino alle soglie della prima guerra mondiale, ci porta risolutamente nella Londra di oggi, e del suo eroe insegue anche le ultime reincarnazioni in adattamenti teatrali, film, romanzi apocrifi e serie televisive.

Inviato de “La Repubblica” in varie parti del mondo, Enrico Franceschini è un autentico “contadino di Londra”, nel senso in cui Louis Aragon si sentiva un “contadino di Parigi”. Conosce ogni angolo della capitale del Regno Unito come un bravo coltivatore conosce ogni zolla del proprio campicello ed è pronto a illustrarci chiese e locande, vicoli e mercati, tribunali e teatri con un entusiasmo caloroso che fa di lui un piacevolissimo compagno di viaggio. Gli sfondi delle avventure di Sherlock Holmes non sono per lui convenzionali scenari da teatro, ma luoghi autentici intrisi di storia secolare. È questa storia a crearne l’atmosfera, anche quando il creatore del celebre detective, tutto preso dalle spettacolari deduzioni del suo eroe, preferisce ignorarla. Ed è proprio grazie a questa presenza della storia che nelle pagine di A Londra con Sherlock Holmes. Sulle orme del grande detective (Giulio Perrone Editore, Roma 2020, pp. 119, € 15) edifici e quartieri nominati da Conan Doyle quasi di sfuggita, come accessori indispensabili della macchina narrativa, ritrovano la loro anima, la loro vita.

Prendiamo ad esempio il Saint Bartholomew’s Hospital dove, come sappiamo da Uno studio in rosso, il dottor Watson incontra per la prima volta, nel laboratorio di chimica, Sherlock Holmes, che è alla ricerca di un coinquilino per il suo appartamento al 221b di Baker Street. Per Conan Doyle è semplicemente il “grande ospedale” dove Watson entra da una porticina laterale, sale “uno squallido scalone di pietra” e finalmente si incammina “per un lungo corridoio dalle candide mura in cui si apre una fila di porte color noce”. Ma quella realtà così opaca e dimessa, ci rivela Franceschini, è carica di memorie significative.

Fondato da un cortigiano di Enrico I nel 1123 e rifondato nel 1546 da Enrico VIII, il Saint Bartholomew’s Hospital ha un valore architettonico e medico-scientifico senza eguali a livello nazionale. Una statua di Enrico VIII, sopra l’ingresso che porta il suo nome, è l’unico monumento rimasto in città del re che ebbe sei mogli, autore dello scisma anglicano, da lui voluto per potersi risposare a piacimento. Inizialmente denominato “Casa dei Poveri nel quartiere londinese di Farrington”, ha ospitato i primi studi sul sistema circolatorio del sangue nel XVII secolo, sviluppato i principi della chirurgia moderna nel XVIII e modernizzato la professione infermieristica nel XIX. […] Sopravvissuto al Grande Incendio di Londra del 1666 e ai bombardamenti del Blitz nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, è rinomato anche per la sua facoltà di Medicina e il suo museo, che mostra la storia dell’ospedale e i progressi della Medicina.

Non è un luogo qualsiasi, dunque, il laboratorio dove Conan Doyle ci fa incontrare per la prima volta il suo eroe: è il cuore della Londra di Newton e di Darwin, di una grande capitale della scienza in cui Sherlock Holmes si affermerà come alfiere del progresso e di un pensiero che abbatte gli schemi precostituiti per dar fiducia a quel paradigma indiziario guardato con sospetto dalla cultura accademica del suo tempo. Ma – si chiede Franceschini – se Sherlock Holmes tornasse oggi tra noi, in quale laboratorio andrebbe a fare i suoi esperimenti? Probabilmente – è la sua risposta – nel più grande laboratorio biomedico d’Europa, il londinese Francis Crick Institute. Ed è proprio al Francis Crick Institute che uno dei ricercatori illustra al nostro autore una verità su cui Holmes sarebbe molto d’accordo:  “Nella ricerca scientifica non sai esattamente quello che cerchi, spesso cerchi semplicemente qualcosa di interessante e di differente, che può contenere indizi per andare avanti”.

Se il Saint Bartholomew’s Hospital ha un ruolo privilegiato nella saga di Sherlock Holmes, i lettori fedeli di Conan Doyle hanno nel centro di Londra una serie di altri punti di riferimento: il sontuoso bar del Criterion, a Piccadilly Circus, dove Watson sente parlare per la prima volta di Holmes; il ristorante Simpson’s sullo Strand, che Holmes predilige; l’appartamento al 221b di Baker Street; il misterioso Club Diogenes, da cui tesse i suoi intrighi Mycroft, il fratello di Sherlock che si muove nell’ombra delle più segrete stanze del potere. Nessuno di questi luoghi, nota Franceschini, è mai veramente descritto da Conan Doyle; se vogliamo aver l’impressione di vedere con i nostri occhi la Londra vittoriana, dobbiamo cercarla piuttosto nelle pagine di Dickens e di Stevenson (o, per quel che riguarda i sobborghi, di Chesterton). D’altronde, quando comincia a raccontare le gesta di Sherlock Holmes, Conan Doyle non è un gran conoscitore di Londra: è nato a Edimburgo, dove ha studiato, vive a Portsmouth e non si trasferirà nella capitale che quattro anni dopo. Di Londra, conoscerà alla perfezione soltanto il centro e per i movimenti dei suoi personaggi si baserà sempre su “mappe, disegni e carte geografiche”.  Eppure, paradossalmente, come la Parigi di Maigret, la Londra di Holmes è più vera di quella vera agli occhi di milioni di lettori di tutto il mondo, che non si stancano di ritrovarla sugli schermi del cinema e della tv, con le sue carrozze e i suoi lampioni, le grandi arterie affollate e i vicoli deserti dal selciato umido, dagli alti muri ciechi. Lo dimostra la costante fortuna dello Sherlock Holmes Museum, da cui parte l’itinerario di Franceschini e a cui ritorna nelle pagine finali del libro.  In una palazzina ottocentesca di Baker Street, alla quale è stato attribuito, forzando un po’ le cose, il numero civico 221b, è stata ricostruita con estremo scrupolo l’abitazione che il detective, per qualche anno, condivide con Watson, per poi restarvi da solo, sotto l’autoritaria protezione di una fidata governante. I visitatori vi trovano esattamente quel che si aspettano di trovare:

Lo studio di Holmes, con “due ampie finestre” e con “due poltrone accanto al caminetto” in cui il detective faceva le sue infallibili deduzioni fumando la pipa e discutendo con il dottor Watson, è al primo piano. La camera da letto di Holmes è adiacente allo studio. Quella di Watson al piano di sopra, accanto alla camera della padrona di casa. […] Non manca una mostruosa testa di cane: il mastino dei Baskervile, naturalmente.

Nulla di autentico; non soltanto perché Sherlock Holmes non è mai esistito, ma anche perché la figlia di Conan Doyle, Jean, che non approvava l’istituzione del museo, ha rifiutato di esporvi carte e cimeli del padre. Di che cosa vanno alla ricerca, dunque, tra oggetti posticci e manichini, i visitatori che ogni giorno affrontano ore di coda fuori della porta e spendono per l’ingresso la somma non indifferente di quindici sterline a testa? Inseguono un’illusione: quella di poter penetrare nel mondo che hanno tante volte sognato sulla scorta non solo delle pagine di Conan Doyle, ma degli infiniti adattamenti che quelle pagine hanno ispirato. Non sanno – nota Franceschini – che il mondo reale del XXI secolo non è meno romanzesco di quello immaginato dal romanziere scozzese. A chi appartiene, ad esempio, l’edificio in cui ha sede il museo? Un’intricata serie di società fantasma porta fino a Rakhat Aliyev, ex-ambasciatore del Kazakistan ed ex-genero del presidente a vita di quel paese. Aliyev però è stato trovato morto nella sua cella, mentre aspettava di essere processato per l’omicidio di due banchieri kazaki, i cui corpi sono stati rinvenuti a pezzi dentro alcune valigie in un deposito di spazzatura nel 2011. Per far luce sui misteri di questa vicenda, con le sue propaggini internazionali, Sherlock Holmes avrebbe certo bisogno di qualche suggerimento del fratello Mycroft. Ma ne verrebbe a capo, non possiamo avere dubbi in proposito. Perché la sua logica infallibile trionfa sempre sull’irrazionalità, sull’imprevedibilità del reale; e il pubblico di oggi ha bisogno dei suoi rassicuranti trionfi, proprio come ne avevano bisogno, nel XIX secolo, gli appassionati lettori dello Strand Magazine.