
di Mariolina Bertini
L’incipit di Doppio silenzio (pp. 173, € 14, Marsilio, Venezia 2020) sembra promettere il più canonico dei romanzi polizieschi: nel giardino di quella che fu “una delle più sfarzose residenze di campagna della nobiltà palermitana del Settecento” è stato ritrovato il cadavere di un ricco impresario edile, Paolo Currau, vittima forse di un delitto di mafia, o forse invece di una vendetta o di qualche oscura vicenda passionale. Gli sviluppi successivi del racconto vanno però in altra direzione e la morte violenta da cui l’intreccio prende le mosse finisce per occupare nel quadro d’insieme uno spazio minuscolo e decentrato. Il risultato ricorda quella Caduta di Icaro di Brueghel in cui quasi tutta la tela è occupata da una grandiosa visione dello stretto di Messina illuminato dal sole; soltanto nell’angolo destro emerge dai flutti una gamba che segnala la tragica fine dello sfortunato figlio di Dedalo. Allo stesso modo, in Doppio silenzio l’assassinio di Currau – che pure alla fine, risolto, getterà luce sul destino di diversi altri personaggi – resta ai margini della narrazione per la maggior parte del tempo.
Al centro della vicenda c’è, come in tanti altri romanzi di Farinetti, il simpatico sceneggiatore Sebastiano Guarienti, che lascia le sue amatissime colline dell’Alta Langa per Palermo, invitato da una vecchia amica, la principessa Consuelo Blasco-Fuentes, al matrimonio del figlio con una giovane di nobile famiglia. La Palermo aristocratica che accoglie Sebastiano a braccia aperte è un mondo enigmatico e contraddittorio: si muove tra palazzi riportati da poco all’antico splendore e ville ridotte a cumuli di macerie. Se le terrazze sul mare, con le loro piastrelle bianche e azzurre, accolgono feste memorabili, non mancano i giardini lasciati in abbandono, dove tra le piante inselvatichite emergono sontuose fontane barocche, sormontate da stemmi ormai indecifrabili. L’aristocratica via Alloro è un esempio tipico di questi contrasti non privi di fascino:
Sebastiano legge sulle targhe i nomi dei palazzi: il Bonagia di cui si è salvato soltanto lo scalone, smozzicata quinta a chiudere il cortile d’onore; San Gabriele, Sambuca – quest’ultimo lo ricordava in macerie, ora lo rivede splendente –; il Palagonia, conventuale, fosco con i conci di tufo non intonacati. Davanti a un palazzetto a due piani imbrigliato tra una breve stradetta e un’altra casa, resta incantato dai balconi copiosamente invasi da piante e cespugli che pendono dalle raffinate ringhiere sagomate. Le portefinestre sono aperte, qualcuno all’interno ha acceso una lampada, si vedono le formelle dei soffitti del piano nobile a cassettoni festosamente dipinte. Di fronte si apre uno stretto vicolo in leggera discesa, austero, senza balconi, con mura altissime che si perdono nella notte. Si chiama vicolo della Salvezza.
È come se ogni realtà con cui Sebastiano entra in contatto avesse un doppio volto: nella gioia della festa nuziale si avverte una nota luttuosa, dietro lo splendore delle antiche maioliche e delle terrazze aperte sul porto si indovina, incombente, la bruttezza dei condomini del secondo Novecento o dei quartieri abbandonati al degrado. La Palermo del passato ogni tanto fa capolino dietro quella del presente; gli amici più anziani di Sebastiano, come lo storico Vences, la ricordano bene, e i giovani architetti la studiano come studierebbero i monumenti di Micene o di Babilonia. È la Palermo delle meravigliose residenze Liberty demolite negli anni Cinquanta, dei grandi parchi lottizzati, delle ville settecentesche distrutte, degli accessi al mare chiusi e nascosti da capannoni industriali e blocchi di cemento. In questa città spettrale, Sebastiano si trova faccia a faccia con un fantasma della sua giovinezza: crede di riconoscere in un ragazzo incrociato per caso il suo grande amore di vent’anni prima, Nicola. Inseguirlo – come il narratore della Ricerca insegue a Venezia il ricordo dell’amata Albertine – finisce per dargli l’impressione di essere a sua volta un’ombra, una forma irreale:
Forse – si dice Sebastiano – sono morto e vago come un fantasma in un incantesimo pervaso, nella sua miseria, da una inarrivabile classe, con la sola compagnia di vecchi gentiluomini – potenti o sventurati non ha importanza, qui sono tutti signori – e nel rimorso del lavoro offeso di generazioni di artisti eccellenti che hanno tramutato i marmi, la pietra, gli stucchi in commovente bellezza. È da loro che si sente protetto, fantasma clandestino tra gli altri, come se la salvezza scaturisse proprio dalle mura spente, dalle grate arrugginite, persino dallo sguardo ostile di un gatto che segue i suoi passi. Salvo e inspiegabilmente felice di godersi la sua vacanza di spettro.
Sarà proprio il giovane che Sebastiano insegue a lungo, e che naturalmente non è Nicola, a condurlo sino al cuore della Palermo più ambigua e seducente: un misterioso salone affrescato di cui si è persa ogni memoria, tra le scale e i corridoi di un palazzo malamente rimodernato. Al viaggiatore smarrito tra gli incanti di Palermo il nuovo giovane amico farà da guida nel labirinto del passato. E finirà per ricondurlo al presente, aiutandolo ad emergere dagli scenari infidi del sogno per tornare al mondo reale; al mondo in cui lo aspettano, nella luce di settembre, il suo compagno Roberto e le sue aspre, amatissime colline.