di Mariolina Bertini

Il titolo, Le inseparabili, così felice e appropriato, di questa lunga novella, non è dell’autrice. Quando, nel 1954, poco dopo averla finita, Simone de Beauvoir decise di non pubblicarla, la archiviò senza darle un nome. È stata la sua figlia adottiva, Sylvie Le Bon de Beauvoir, che da anni cura la pubblicazione della gran mole di inediti lasciata dalla scrittrice, a battezzarla e a mandarla in libreria. Grazie a lei, il dattiloscritto di 128 pagine, con qualche correzione a matita, che Simone aveva messo da parte, è diventato un volume corredato di fotografie e di qualche lettera e accompagnato da una postfazione che ne racconta la genesi.  Molto tempestivamente, poco dopo l’edizione francese, Ponte alle Grazie ha pubblicato la bella traduzione italiana di Isabella Mattazzi, completa di fotografie, lettere e postfazione di Sylvie Le Bon de Beauvoir.

“Le inseparabili” è il soprannome che designa nel 1917, in una scuola cattolica della Parigi bene, due bambine, Sylvie e Andrée. È la voce di Sylvie, ormai adulta, a rievocare la loro amicizia. Sylvie ha dieci anni quando, al primo giorno di scuola, compare una nuova compagna di classe: Andrée, una bambina dai lisci capelli nerissimi, che è rimasta un po’ indietro negli studi in seguito a un incidente. Si è gravemente ustionata a una coscia mentre arrostiva le patate su un falò, durante un pic nic. Già soltanto per questo, agli occhi di Sylvie, appare come la protagonista di un’avventura alquanto romanzesca. Ma non basta: mentre le altre scolare, a cominciare dalla stessa Sylvie, all’uscita dalla scuola trovano ad aspettarle la mamma o una tata, Andrée ha il permesso di tornare a casa da sola. Se Sylvie, da brava prima della classe, tiene innanzitutto a ottenere l’approvazione dei genitori e delle insegnanti, Andrée è pronta invece a battersi per le proprie opinioni, per i propri gusti, per la propria autonomia di pensiero; conquista così la stima delle maestre, piene di ammirazione per quella bambina che “ha personalità”.

All’inizio dell’anno scolastico successivo, Andrée non è presente ai primi giorni di lezione. Sylvie soffre della sua assenza senza rendersene ben conto; ma quando l’amica improvvisamente ricompare, ha una sorta di illuminazione:

… Capii subito, con stupore e gioia, che il vuoto del mio cuore, il fondo cupo delle mie giornate avevano una sola causa: l’assenza di Andrée. Vivere senza di lei non era vivere.

Nella Recherche, Swann capisce di amare Odette, che vedeva quotidianamente, quando una sera non riesce a incontrarla: l’angoscia dell’assenza gli rivela il bisogno imperioso, assoluto che ha di averla accanto a sé. È esattamente quello che avviene a Sylvie. Simone de Beauvoir che – lo sappiamo dai suoi Cahiers de jeunesse – è stata una lettrice attenta di Proust sin dal 1927, qui segue le sue orme, nonostante l’avversione per la psicologia proustiana manifestata a più riprese da Sartre.

Nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, Sylvie è costantemente affascinata dall’originalità di Andrée; l’amica inseparabile è per lei un modello di coraggioso anticonformismo. Verso i diciotto anni, però, quando le due ragazze escono dall’ambiente protetto della scuola privata per seguire i corsi della Sorbona, avviene una sorta di rovesciamento. È dovuto in gran parte all’astuzia manipolatrice della madre di Andrée che, approfittando dell’immenso affetto della figlia  per lei, si propone di orientarla verso un matrimonio socialmente ed economicamente vantaggioso e di farle interrompere gli studi. Andrée non osa resisterle. A differenza di Sylvie, che a quindici anni ha abbandonato ogni credenza religiosa, è profondamente cristiana, e il suo carattere intransigente, estremo, abbraccia il partito dell’ubbidienza con la determinazione della vittima votata al martirio. Trascura i libri e l’amato violino per accollarsi tutte le corvées imposte dalla madre: corre per i grandi magazzini a scegliere le stoffe per gli abiti delle sorelle, partecipa svogliatamente a feste e picnic organizzati  in vista di precise strategie matrimoniali. L’adolescente debordante di vita che Sylvie ha tanto ammirata si trasforma, sotto la pressione degli obblighi famigliari, in una creatura tormentata e sfuggente. Ora Andrée soffre di lancinanti, ricorrenti emicranie; per evitare l’ennesimo soggiorno in campagna presso certi noiosi conoscenti della madre, non trova di meglio che simulare un incidente, ferendosi profondamente un piede con un colpo di accetta. Il prestigio infantile di Andrée agli occhi di Sylvie era dovuto a una ferita, quell’ustione che attestava la sua vita più libera e avventurosa; mentre il racconto precipita verso la fine, la seconda ferita di Andrée, quella autoinferta al piede, ci fa capire quanto intollerabile sia ormai per lei la schiavitù famigliare alla quale non potrà sottrarsi che con la morte.

Il primo amore di Andrée, a quindici anni, per il cugino Bernard, è stato stroncato dall’opposizione della madre. Il suo incontro alla Sorbona con un giovane filosofo, Pascal Blondel, come lei appassionatamente credente, parrebbe nascere sotto migliori auspici.  Ma ben più del proclamato cattolicesimo è vivo nella madre di Andrée il culto delle convenzioni e dell’ascesa sociale; anche il secondo amore di Andrée si scontra con difficoltà che le paiono insuperabili. Il primo bacio di Pascal a un’Andrée febbricitante, sull’orlo del delirio, è anche l’ultimo: nel giro di pochi giorni una forma rapidissima e micidiale di encefalite la uccide a soli ventun anni. Sylvie resterà sempre convinta che la malattia abbia avuto ragione di una Andrée già prostrata e debilitata dalla tirannia della madre. Sui fiori bianchi che coprono la tomba dell’amica, simbolo degli ideali di purezza, di ubbidienza e di perfezione che ne hanno stroncato la vitalità, posa tre rose rosse, in ricordo dell’indole appassionata e ribelle dell’“inseparabile” dei suoi anni infantili.

Come spiega Sylvie Le Bon de Beauvoir nella sua postfazione, il personaggio di Sylvie è un trasparente alter ego di Simone de Beauvoir mentre Andrée è la sua compagna di studi Élisabeth Lacoin (1907-1929), detta Zaza (pronunciare Sasà, con la esse dolce di rosa).  L’autrice ha cambiato i nomi di luogo e di persona – dietro il giovane filosofo Pascal Blondel si dissimula Maurice Merleau-Ponty – e ha alterato molti particolari, ma il destino di Andrée ricalca con precisione quello di Zaza e i sentimenti delle due inseparabili nel racconto rispecchiano fedelmente quelli delle due inseparabili nella vita.

A proposito della sua amicizia con Élisabeth, Simone de Beauvoir  scriverà in A conti fatti (1972):

Senza Zaza, la mia vita di adulta sarebbe stata diversa? Mi è difficile rispondere. Con lei ho conosciuto la gioia di amare, il piacere degli scambi intellettuali e dei sotterfugi quotidiani. È a lei che debbo di aver abbandonato il mio personaggio di bambina modello, è lei che mi ha insegnato l’indipendenza e la sfrontatezza: ma in modo superficiale. Non ha preso parte ai conflitti intellettuali che hanno segnato la mia adolescenza: mai l’ho coinvolta nel mio travaglio intellettuale. (…) A lungo le ho nascosto di non credere più in Dio. La felicità datami dal rapporto con lei non avrebbe dunque lasciato alcuna traccia nella mia vita? Non ne sono affatto sicura. (…) Senza Zaza, in quale piatta solitudine avrei trascorso la mia adolescenza e la mia gioventù! È stata il mio solo rapporto non libresco con la vita. Avevo tendenza a difendermi contro le forze ostili con orgoglio feroce: l’ammirazione per Zaza me ne ha liberato.

La morte di Zaza, il 25 novembre del 1929, è annotata ma non commentata nel diario di Simone. Non è certo una prova di indifferenza; piuttosto di una straziata incapacità di tradurre in parole un dolore troppo grande. Lo dimostra il fatto che, appena Simone intraprende la via della letteratura, il destino dell’amica stroncata dal conformismo borghese si affaccia nelle sue prime prove narrative, ancora oggi inedite. Nel 1932, a Marsiglia, dove insegna, Simone abbozza una vicenda di rivalità femminili sul cui sfondo appare una giovane, Anne, che attraverso la morte sfugge all’oppressione del marito; tra il 1932 e il 1935, in un più ambizioso tentativo di romanzo corale con risvolti anche politici, il nome Anne designa di nuovo una donna sposata che muore dilaniata dall’impossibilità di scegliere tra la felicità e il dovere. Scriverà Simone ne L’età forte (1960):

Di nuovo, trasponendo la storia di Zaza, l’avevo tradita; ero ricaduta nell’errore di sostituire la madre con un marito; la gelosia di quest’ultimo si capiva meglio che nel romanzo precedente, ma non ero ancora riuscita a rendere plausibile la disperazione di Anne.

L’ultimo tentativo della giovane Simone, non ancora scrittrice affermata, per riportare in vita Zaza, risale al periodo 1935-1937. Si situa nel contesto di un’opera dalla struttura innovativa, Primauté du spirituel: una raccolta di novelle fondata sulla tecnica balzachiana del ritorno dei personaggi, che da un testo all’altro ricompaiono visti sotto diverse angolazioni e in momenti successivi della loro vita. Ancora una volta, Zaza è ribattezzata Anne. La novella, intitolata proprio Anne, si apre con un lungo monologo della madre di Anne, madame Vignon, che espone a Dio i propri sforzi per mantenere sulla retta via la figlia troppo desiderosa di libertà. Il cattolicesimo gretto e filisteo di madame Vignon è lo stesso descritto in certi interni borghesi da François Mauriac, che sarà duramente stroncato da Sartre nel 1939 ma è stato tra le letture fondamentali di Simone adolescente. Nonostante i consigli dell’amica Chantal, nella quale si riconoscono alcuni tratti di Simone, Anne non saprà sottrarsi alla trappola delle imposizioni materne e non avrà altra via di fuga se non la morte.  Nel suo destino tragico, il destino di Zaza questa volta è ben riconoscibile; rifiutato dagli editori nel 1937, Primauté du spirituel verrà pubblicato con il titolo Quand prime le spirituel nel 1979 e tradotto in italiano nel 1980 (Lo spirituale, un tempo, Einaudi, trad. di Dianella Salvatico Estense).

“Pagana per temperamento e cristiana per sensibilità” – così la definisce Chantal – la Anne de Lo spirituale, un tempo, creatura “fiera, solitaria, che intimidisce”, resuscita in modo convincente la Zaza degli anni universitari. Manca però alla storia della sua vita un tassello indispensabile: l’infanzia. Simone non è ancora pronta a risalire a quel momento originario in cui la Zaza decenne è comparsa davanti a lei, mettendola di fronte al paradosso dell’amore: l’attrazione esercitata da un essere al tempo stesso simile a noi e irriducibilmente diverso,  estraneo, altro.

Sarà la Simone del 1954 a misurarsi con la rievocazione della propria infanzia e della sua amicizia con Zaza, scrivendo il testo che oggi conosciamo come Le inseparabili. È una Simone che ha raggiunto una meta importante: ha vinto da poco il premio Goncourt con I mandarini ed è così diventata una scrittrice celebre, uscendo dall’ombra protettiva del più affermato Jean-Paul Sartre. Ma lo scandalo della morte di Zaza pesa ancora su di lei. La scrittura de Le inseparabili, per la prima volta, scava nel passato lontano, legge nei tratti della Andrée-Zaza decenne, ostinata e coraggiosa, il suo straziante futuro.

Perché Simone mette da parte Le inseparabili senza pubblicarlo? Rievocando l’episodio ne La forza delle cose (1963) darà un peso preponderante al giudizio di Sartre, che aveva giudicato il racconto “gratuito” e ininteressante. Della sua decisione, però, è possibile proporre una spiegazione diversa. Le inseparabili racchiudeva il ritratto e la vita di Andrée-Zaza nella cornice di una finzione narrativa  tradizionale: alla rievocazione della voce narrante, quella di Sylvie, si alternavano scene e dialoghi che ricostruivano il vissuto con un forte margine di arbitrio, di invenzione. Rileggendo quella ricostruzione, Simone deve essersi sentita insoddisfatta di quanto presentava di artificiale, di troppo letterario. L’alternativa poteva essere quella di imboccare direttamente la via dell’autobiografia, rinunciando alle convenzioni del genere romanzesco: è quanto Simone si deciderà a fare due anni dopo, nel 1956, mettendo in cantiere le sue Memorie di una ragazza perbene. E in effetti, nelle Memorie di una ragazza perbene (1958), dal flusso del ricordo – non interrotto da dialoghi ricostruiti, da scene reinventate – la storia di Zaza rinascerà in tutta la sua violenta e dolorosa credibilità, intrecciandosi a quella di Simone ed evidenziandone le profonde contraddizioni.

Le inseparabili, tuttavia, merita di essere letto come testo a sé stante, non soltanto come tappa sul cammino di Simone verso quell’opera autobiografica che sarà il suo più importante contributo alla letteratura del Novecento. Nelle pagine de Le inseparabili, Simone scopre l’indeterminatezza dei confini tra l’amicizia e l’amore. E cerca di raccontare tutto lo stupore che può esserci nello sguardo di una bambina che osserva un’altra bambina, al tempo stesso simile a lei e irriducibilmente diversa: diversa mentre sfida il pericolo volando altissima sull’altalena, mentre difende l’amore “non platonico” di Tristano e Isotta, mentre protesta, imbronciata, perché “l’infanzia non finisce mai”. Il grande fascino de Le inseparabili, a mio parere, non risiede tanto nella critica al conformismo borghese, quanto nello sguardo infantile di Sylvie che scopre l’alterità, sguardo che il testo ci restituisce in tutta la sua freschezza. Il 17 settembre del 1930 Simone aveva scritto nel suo diario:

Inventare non mi diverte. Il miracolo che sogno è quello di un Proust che salvi uno sguardo di bambina, con la stessa facilità con la quale salva i quadri di Elstir e l’arte della Berma.

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