
Oggi presentiamo il ventitreesimo testo del progetto di riscrittura delle Operette morali di Giacomo Leopardi. L’ultimo intelligente palinsesto sul Parini o della gloria, firmato da Alba Coppola, italianista specializzata in Letteratura del Rinascimento. (Poiché il testo dell’Operetta è molto lungo verrà suddiviso in diverse puntate)
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CAPITOLO DECIMO “Non potendo nella frequentazione degli uomini godere quasi alcun beneficio della tua gloria, la maggiore utilità che ne trarrai sarà di agitartela nell’animo e di compiacertene con te stesso nel silenzio della tua solitudine, pigliarne stimolo e conforto a nuove fatiche e fartene base per nuove speranze, perché la gloria degli scrittori, non solo, come tutti i beni degli uomini, appare più grata da lontano che da vicino, ma non è mai, si può dire, presente a chi la possiede e non si trova in nessun luogo.
Dunque, correrai coll’immaginazione a quell’estremo rifugio e conforto degli animi grandi che è la posterità. Come Cicerone, ricco non di una semplice gloria, non piatta né banale, ma di una multiforme e rara, e quanta a un sommo antico e romano, tra uomini romani e antichi, era conveniente pervenire, nondimeno, si volge col desiderio alle generazioni future, dicendo, come parlasse a un’altra persona: “Pensi tu che io mi sarei potuto indurre a prendere e a sostenere tante fatiche il dì e la notte, in città e in campagna, se avessi creduto che la mia gloria non dovesse superare i confini della mia vita? Non sarebbe stato molto meglio scegliere una vita oziosa e tranquilla, senza alcuna fatica o sollecitudine? Ma l’animo mio, non so come, quasi levato alto il capo, mirava di continuo alla posterità, come se esso, una volta passato di vita, solo allora dovesse vivere.” Il che da Cicerone si riferisce a un sentimento dell’immortalità generato dalla natura nel cuore umano. Ma la ragione vera è che tutti i beni del mondo, appena sono acquistati, si riconoscono indegni delle cure e delle fatiche sostenute per procurarli; soprattutto la gloria, che fra tutti gli altri beni si paga a più caro prezzo e se ne gode meno. Ma come, secondo il detto di Simonide
La bella speme tutti ci nutrica
Di sembianze beate;
Onde ciascuno invano si affatica;
Altri l’aurora amica, altri l’etate
O la stagione aspetta:
E nullo in terra il mortal corso affretta,
Cui nell’anno avvenir facili e pii
Con Pluto gli altri iddii
La mente non prometta
così, man mano che chi la prova conosce la vanità della gloria, la speranza, quasi cacciata e inseguita di luogo in luogo, non avendo più dove riposare nella vita, comunque non viene meno, ma, oltrepassa la stessa morte e si affida alla posterità. Poiché l’uomo è sempre inclinato e necessitato a rallegrarsi del bene futuro, così come è sempre insoddisfatto del bene presente. Per cui, quelli che desiderano la gloria, pure se la ottengono in vita, si nutrono principalmente di quella che sperano di conquistare dopo la morte, così come nessuno è così felice oggi che, mentre disprezza la vana felicità presente, non si conforta col pensiero di quella, ugualmente vana, che si ripromette per l’avvenire”.