
Cristina è nata a Trieste, ha vissuto a lungo in Germania e poi ha messo su casa a Venezia.
Si porta addosso lo sguardo fermo di una donna che ha visto più di quanto volesse vedere e il sorriso dolce di una ragazzina che vuole ancora sognare.
Come la città che le ha dato i natali, è italiana, europea e multiculturale. Cristina è come un albero, sa sempre dove abitano le sue radici, ma con le fronde più alte sperimenta i venti da ogni direzione. Ama l’arte, tutta, e quando torna a Trieste coltiva rose in giardino.
Con la sua opera prima si è guadagnata la menzione speciale della giuria nella 32° edizione del Premio Italo Calvino e la pubblicazione con Garzanti.
L’ultima testimone è un romanzo affilato, equilibrato e calibrato come una lama costruita con cura; non fa male mentre si apre la strada, ma arriva precisa dove deve arrivare. Dopo, quando ci si stacca dalle sue pagine, ci si rende conto che un po’ siamo cambiati, perché la storia che ci racconta Cristina è anche nostra e ci appartiene, nel bene e nel male.
Partiamo dal macro, in questo caso. Perché hai scelto di raccontare questo preciso contesto storico?
Nel romanzo cerco di indagare quanto sia stato lacerante per gli istriani e per i triestini trovarsi in un momento storico in cui tutto precipitava e si doveva scegliere da che parte stare.
Volevo raccontare la storia di Trieste nel Novecento, una città tormentata da conflitti identitari che forse solo in questi ultimi anni si stanno risolvendo.
Trieste, l’Istria con le sue campagne e le cittadine adriatiche facevano parte di uno stesso territorio multietnico e pacifico, su cui si è accanito prima il nazionalismo e poi è stato definitivamente frammentato dalla Seconda guerra.
Dopo il 1918, quando Trieste diventa italiana, dell’Impero austro-ungarico non si parla più, si accantonano questioni di lingue e minoranze, che però riemergono durante la Seconda guerra, anche se con forme diverse. Al posto dell’Impero ci sono nuovi programmi politici e nuove ideologie che confliggono tra di loro tanto quanto le vecchie; sono rimaste irrisolte le differenze tra i gruppi etnici (italiani, greci, ebrei, sloveni, croati, serbi, pochi austriaci) e su queste ora si innestano le ideologie degli -ismi (fascismo, comunismo, socialismo). Pesano però anche i ricordi nostalgici dell’Austria-Ungheria. Insomma, si poteva essere un socialista nostalgico del vecchio impero, avverso a Mussolini ma assolutamente italiano nello spirito. Sono state queste sfaccettature contraddittorie che mi hanno dato il primo impulso a scrivere il romanzo, la domanda su che cosa sia l’identità in una città dove si incrociavano culture diverse.
Il cuore geografico della storia che racconti è Trieste. Cosa rappresenta per te questa città?
Trieste è la città dove sono nata. A ventisette anni mi sono trasferita a Venezia per lavoro e, nello stesso periodo, ho cominciato a fare la pendolare con la Germania. Avevo un compagno tedesco, un lavoro a Venezia e poco tempo per andare a casa. Per anni ho perso il contatto con la città, ogni volta la sentivo più distante, la guardavo come fossi una turista. Scrivere di Trieste è stato anche un modo per sentirla di nuovo mia, un atto di riappropriazione.
Solo dal 1945 Trieste è una città di confine, fino alla Seconda guerra era circondata da un ampio territorio. Ma era una città internazionale, abitata da persone che provenivano da tutta Europa e si portavano dietro le loro geografie. Ho sempre immaginato che nelle famiglie si parlasse dei parenti in Boemia o a Salonicco, della cucina toscana della nonna o di quella croata dell’infanzia, del piroscafo in partenza per l’Asia o di quello in arrivo dalle Americhe, e che già nelle disinvolte chiacchiere di ogni giorno ci fosse un’abitudine mentale ad attraversare i confini. Lo immagino perché per me è stato così, anche se in termini di chilometri i luoghi non sono distanti.
La famiglia di mio padre è radicata nella Trieste mitteleuropea; quella di mia madre, invece, veniva dall’Istria, una regione che è stata veneta, austriaca e italiana; mistilingue e abitata da più di trenta etnie diverse.
Sono cresciuta in mezzo a troppi stimoli culturali per scegliere di riconoscermi in uno solo di questi. Trieste per me è il baricentro di tutte queste forze, che possono deflagrare, come durante le due guerre, oppure possono generare sinergie creative, come sta accadendo negli ultimi anni.
Addentriamoci un po’ nel microcosmo del tuo romanzo. Chi sono Bruno, Vasco e Mirko?
Bruno è un signore ultranovantenne, che negli ultimi giorni di vita affida al nipote Mirko il compito di chiarire il suicidio di un suo amico di gioventù, Vasco, avvenuto nel 1976. Mirko è molto legato al nonno e non vuole sottrarsi alla sua richiesta. Rimangono più sfumate le ragioni di Bruno, ma credo si capisca che vuole lasciare al nipote un’ultima confessione, un pezzo scomodo e difficile della sua vita.
Mirko, docente di storia, si accosta alla vita di suo nonno con una doppia modalità, quella professionale e quella affettiva, due approcci che s’inceppano e si scontrano quando scopre che Bruno è stato partigiano insieme a Vasco. Conosciamo quindi Bruno e Vasco anche da adolescenti, quando a diciassette anni, senza nessuna preparazione militare, vengono scaraventati negli orrori della guerra. Quando li ritroviamo da adulti, scopriamo due uomini che non sono riusciti a superare del tutto quello che hanno vissuto.
In Vasco e Bruno ho immaginato gli adolescenti di tutte le guerre, ragazzi traumatizzati che nella vita adulta se la devono cavare come possono. I più fortunati sono quelli che hanno un carattere forte e positivo; chi è più fragile, a volte crolla.
Ci racconti anche figure femminili importanti, come Francesca, Alba e Liliana.
Francesca, la protagonista del romanzo, viene chiamata in causa da Bruno in quanto testimone di ciò che è successo a Vasco. Lavora come ginecologa a Milano, conduce una vita molto ritirata e non ha una famiglia. L’ho sempre pensata come una monaca che invece di pregare in convento fa nascere i bambini; entrambe sono figure femminili emblematiche della dedizione verso gli altri.
Sua nonna Alba è stata amica di Bruno e Vasco. Quando Francesca viene a sapere delle parole di Bruno e che Mirko ha intenzione di parlare con Alba, prende senza indugi il primo treno per Trieste. Sente di dover proteggere la nonna amata, ammalata e fragile.
Liliana era un’amica di Alba, Bruno e Vasco; si era occupata spesso di Francesca quando era piccola e le aveva insegnato a difendersi dalle sopraffazioni.
E poi c’è il mistero, la spinta che fa muovere i protagonisti.
Esatto. Francesca è stata testimone della morte di Vasco anche se in parte l’ha rimossa e non è sicura di quello che ricorda. Il suo girovagare per le vie della città, nominarle e restituire alle strade la loro storia è la ricostruzione di una geografia sentimentale di luoghi a lei familiari; alla topografia della città si sovrappone una mappa personale di memorie, alcune felici, altre meno.
Per Mirko le ultime parole di Bruno diventano un’ossessione; scoprire chi sia stato suo nonno, con il quale da piccolo passava molto tempo insieme, significa scoprire una parte di sé.
Tra Mirko e Bruno, come tra Francesca e Alba, c’è stato un fluire di emozioni, conoscenze, sentimenti dall’uno all’altro, un rapporto nonno-nipote tanto stretto da influire sul modo in cui sono diventati adulti.
Sia per Francesca che per Mirko, la figura di Bruno, le sue ultime parole e la ricerca che ne deriva, diventano una chiave per conoscere meglio se stessi. Per questo i due protagonisti vanno avanti, perché alla fine il discorso è su di loro.

Alla luce di tutto ciò, cos’è secondo te il passato e quale peso hanno i ricordi?
Il passato c’è per chi lo cerca. Nel romanzo, Mirko è uno storico di professione e Francesca una donna sola, entrambi sono liberi di guardarsi indietro, ma la maggior parte delle persone vive nel presente, si preoccupa del proprio futuro, dei figli ed è questo il modo in cui l’umanità è sempre andata avanti. In questo progredire, però, ogni tanto c’è bisogno di una pausa, di vedere se si è lasciato indietro qualcosa, oppure se si sta trasportando un fardello troppo pesante, come Francesca.
La mia protagonista ha vissuto un’infanzia difficile e in più ha subìto un trauma di cui non ha mai parlato con nessuno. In questo condivide il destino della città, che ha attraversato un Novecento tormentato e di cui si è parlato poco, se si escludono gli ambiti accademici. Negli ultimi anni stiamo assistendo a nuove discussioni, però ancora faticose e controverse.
Francesca è una metafora di Trieste e come lei rimuove il passato, lo ricorda in modo selettivo, i suoi ricordi diventano l’unico parametro. Solo quando le tornano in mente momenti perduti della sua infanzia, Francesca realizza da quali esperienze è stata condizionata e, ora che le conosce, può sentirsi libera di agire diversamente.
Credo che il passato rimanga come una presenza latente soprattutto quando le persone o le comunità subiscono un torto che non viene riparato; può accadere che decenni o secoli dopo, ci si faccia carico di quelle ferite e si reclami giustizia, come dimostra la questione dei monumenti rimossi, ma anche le cause ancora aperte in Giappone per le comfort women, degli Inuit in Canada per i bambini morti di freddo o delle ragazze madre in Irlanda. Oggi gli Stati occidentali sembra abbiano compreso che la mancanza di giustizia destabilizza una comunità. Tacere e far finta di niente è un atto di egoismo verso le generazioni future che si dovranno confrontare con i problemi causati dai padri. Forse è anche per questo che Bruno decide di affidare la sua confessione al nipote.
È stato difficile scrivere questa storia?
Conoscevo abbastanza bene la storia di Trieste per poter scrivere una prima bozza senza ricorrere a testi specifici. A ogni nuova rilettura, depuravo il testo dagli episodi troppo personali legati alla mia famiglia e li mescolavo ai racconti di altre persone, alle testimonianze che trovavo nei documentari. Alla fine è venuto fuori un pastiche di vicende realistiche, nessuna perfettamente aderente a un episodio specifico, ma tutte credibili, possibili. Molte persone anziane mi hanno scritto ringraziandomi per avergli restituito dei ricordi.
Solo quando il romanzo era ormai costruito, ho letto i testi di storici accreditati (ma anche di studiosi controversi, così il quadro era più completo) per puntellare con alcuni episodi il contesto storico. Ho scoperto fatti crudeli e meschini che durante la stesura dell’ultima bozza mi hanno fatto ammalare. A volte è meglio non sapere, specie quando si ha un’immaginazione galoppante e si tende a entrare nella pelle degli altri.
Che tipo di lavoro hai fatto dal punto di vista stilistico e linguistico?
Nella prima bozza ero ancora piena di entusiasmo per una sintassi complessa e ricca di pathos. Man mano che entravo nella narrazione, semplificavo tutto. Pathos, lessico e sintassi mancavano di obiettività, rischiavano di legare me o un possibile lettore a uno solo dei personaggi. Invece stavo raccontando un momento collettivo, drammatico e duro; non volevo scrivere un romanzo catartico né consolatorio, ma una storia che facesse riflettere sulle violenze generate dalle ideologie, una storia che ponesse la questione del trauma di guerra. Le nostre strade sono piene di persone che la guerra l’hanno vissuta, nei Balcani, in Siria o in Libia. Il tema è sempre attuale.
Ho cercato e, spero, trovato una lingua pulita, fredda, che non commuova ma faccia pensare.
Le poche parole in dialetto sono come delle piccole cartoline verbali che rimandano a Trieste e l’Istria.
Perché hai scelto il percorso del Premio Italo Calvino?
È stato un amico scrittore che aveva fatto da giurato a suggerirmi di mandare il romanzo al PIC. Me l’aveva segnalato come il più serio tra tutti i concorsi letterari. Ammetto che non lo conoscevo, per me la scrittura era un’attività intima, non sapevo niente del mondo editoriale e dei concorsi.
La scoperta della comunità del PIC è stata un’esperienza bellissima e inaspettata per una come me che viene dal settore del turismo, molto efficiente ma un po’ aspro. Al PIC ho trovato più che gentilezza e cordialità, direi vero calore umano, perché il fatto di essere accompagnati e seguiti anche dopo la pubblicazione va oltre i termini tecnici di un concorso letterario. C’è una lettrice PIC che mi ha detto: “L’ho vista nascere!”
Ecco, il Calvino mi ha dato questo, i natali da scrittrice.
Per cosa sei grata al tuo romanzo, ora che ha imboccato la sua strada? Scriverai ancora?
La mia gratitudine va al PIC e alla Garzanti che lo ha pubblicato. Devo dire che di questo romanzo mi sono rimasti ricordi un po’ cupi per la fatica di pensarmi dentro quella guerra, di immaginare la sofferenza di quelle persone.
In questo periodo di pandemia scrivo molto, non mi mancano né desideri né progetti, ma tutto quello che appartiene al futuro è imperscrutabile. Intanto scrivo, poi si vedrà.
Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May