
di Mariolina Bertini
A chi, come me, studia l’opera di Proust da mezzo secolo, fa una strana impressione avere finalmente accesso ai 75 Fogli del 1908 oggi pubblicati da Nathalie Mauriac Dyer. Se ne sapeva l’esistenza, ma nessuno, a parte Bernard de Fallois, ne aveva avuto conoscenza diretta. Erano come un’isola o un pianeta indicati sulle mappe, ma dove nessuno aveva mai posato il piede. Ora è possibile esplorarli e le note e la postfazione della curatrice forniscono al lettore una guida davvero esauriente. Ma al di là delle indicazioni di Nathalie Mauriac Dyer, che segnala tutti i passi che saranno ripresi nei Cahiers e nella Ricerca, ogni appassionato di Proust darà di queste pagine una diversa lettura, cercando tracce e indizi del sorgere dei suoi temi preferiti, nella loro forma originaria o – come diceva il mio professore del liceo, Giuseppe Guido Ferrero – “aurorale”.
Come Jean Santeuil, i 75 Fogli presentano una successione di capitoli non collegati tra loro. E, come in Jean Santeuil, le pagine che evocano Illiers – la cittadina che sarà Combray nella Ricerca – rispettano la topografia reale dei luoghi che Marcel Proust ha conosciuto da bambino, a differenza di quel che avverrà nella Ricerca.
Ma Jean Santeuil era scritto alla terza persona: una scelta convenzionale, tradizionale, che mal si accordava con quel che Proust voleva raccontare, così profondamente radicato nella sua esperienza vissuta. Nei 75 Fogli invece il racconto è alla prima persona. Tornano contenuti che già comparivano in Jean Santeuil: il bacio della buonanotte desiderato spasmodicamente e a volte negato, le passeggiate in campagna e la predilezione per i biancospini rosa. La voce che racconta, però, non è quella del Jean Santeuil. È piuttosto quella che risuonava nelle prime pagine del saggio Sur la lecture, del 1905. Per rievocare in quel saggio le “charmantes lectures de l’enfance”, Proust aveva creato quello che, usando una parola cara a Giacomo Debenedetti, potremmo definire un nuovo “tono”: il tono di chi confida al lettore i propri ricordi, di chi lo attira nel proprio mondo segreto. Lo ritroviamo, questo tono inconfondibile, nei 75 Fogli come nella Ricerca. Ma nei 75 Fogli è al servizio di una narrazione ancora fortemente autobiografica. Nel romanzo introdurrà invece il lettore in un mondo immaginario, dalle coordinate spazio-temporali incerte, irreali e vertiginose.
La spia più evidente del carattere autobiografico dei 75 Fogli è nei nomi propri del primo episodio, Una serata in campagna. È l’episodio che comprende sia il racconto del bacio della buonanotte rifiutato sia la scena esilarante dell’addio del piccolo Robert, fratello del narratore, al capretto che gli è stato permesso di tenere con sé durante le vacanze. La nonna materna del protagonista qui si chiama Adèle, come la nonna materna di Marcel Proust; il fratellino capriccioso, che nella Ricerca scomparirà del tutto, si chiama Robert e la mamma – di cui il romanzo tacerà il nome – si chiama Jeanne, come Jeanne Weil Proust. Sempre in questo primo episodio è inserita nella scena del bacio serale una rievocazione del volto materno sul letto di morte. Il ricordo della scomparsa della madre, avvenuta il 26 settembre del 1905, nel 1908 è per Proust una ferita ancora aperta. Ne troviamo una traccia evidente in queste righe:
“Udii salire i miei genitori; mia madre entrò con mio padre nella loro camera. La domestica l’aveva aspettata per aiutarla a slacciare il busto e a sciogliere i capelli; poi mia madre uscì per andare nel suo spogliatoio. La aspettavo nell’ombra come un ladro. Aveva una vestaglia di tela bianca ed erano sciolti, quei suoi bei capelli neri nei quali c’era tutta la dolcezza e tutta la forza del suo carattere; quei capelli che sopravvissero a lungo, come una vegetazione inconsapevole delle rovine che teneramente protegge, alla rovina della sua felicità e della sua bellezza e che incorniciavano allora un viso di una purezza adorabile, raggiante di un’intelligenza, di una dolcezza gioiosa che il dolore non è mai riuscito a spegnere. Un viso che andava incontro alla vita con una speranza, un’innocente allegria che scomparvero presto e che ho rivisto soltanto sul suo letto funebre, quando tutti i dolori che la vita le aveva arrecati furono cancellati dal dito dell’angelo della morte, quando il suo viso che per la prima volta dopo tanti anni non esprimeva più dolore né ansia, ritornò alla sua forma prima come un ritratto sovraccarico d’impasti di colore che il pittore cancella con un dito.”
Nella Ricerca sarà la nonna a ritrovare sul letto di morte il suo aspetto di fanciulla raggiante di “innocente allegria”, simile alla scultura distesa su un sarcofago del medioevo. Moltissimi spostamenti analoghi si verificheranno nel corso della lunga elaborazione di questi primi spunti narrativi. A volte è la realtà biografica a venir sacrificata, come nel caso di Robert. A volte, salta un excursus umoristico un po’ dissonante con il contesto: è il caso di una lettera della nonna, che leggiamo nei 75 Fogli. È una lettera incomprensibile come un messaggio cifrato, perché tutta intessuta di espressioni del “lessico famigliare” che rimandano ad aneddoti riconoscibili soltanto per una ristretta cerchia di intimi. Alcuni personaggi del 1908 sono destinati a uscire di scena per sempre, come il visconte di Bretteville. È l’invitato che nei 75 Fogli è all’origine del “dramma della buonanotte”. Suona alla porta proprio nel momento in cui Marcel sta supplicando la mamma di non mandarlo a letto prima di cena, riducendo il rito del bacio serale a una sbrigativa formalità. Alla fine della cena il visconte, che se ne è andato, è oggetto di un’animata discussione tra lo zio di Marcel e la nonna. Lo zio è fierissimo di aver avuto un commensale così aristocratico; la nonna invece ha trovato Bretteville piuttosto volgare.
“Ma quando ti dico che a Bretteville-l’Orgueilleuse tutto gli appartiene – le grida lo zio furibondo – che ha nella sua proprietà due villaggi, un lago, una chiesa, una caserma. Una caserma!”
La vecchia signora resta inflessibile: “Tutto questo non ha nulla a che vedere con la distinzione – gli risponde – Un uomo che dice: “Non è mica il Perù!” non è distinto. Auguste (era il nostro cameriere) è cento volte più distinto di lui!”
Il visconte di Bretteville scompare senza lasciar traccia. Nella Ricerca sarà Swann a suonare il campanello che segna la condanna di Marcel a salire nella sua camera mentre gli adulti si siedono a cena. Non scompare, però, l’ostinata indipendenza di giudizio della nonna. Nella Recherche troverà la nipotina del sarto Jupien “più distinta” e “più nobile” del duca di Guermantes. Al momento della stesura dei 75 Fogli, Swann non esiste ancora: Nathalie Mauriac Dyer ci ricorda che comparirà soltanto nel 1909, nel Cahier 4, introducendo il tema, sino ad allora assente, dell’ebraicità. Esiste già però nei 75 Fogli una delle più tipiche abitudini di Swann, attribuita a uno zio di Marcel: quella di importunare amici e parenti perché facilitino le sue avventure amorose, fornendogli lettere di presentazione per qualche conoscente nella cui cerchia c’è una donna che lui ha intenzione di corteggiare. È abbastanza frequente che Proust trasferisca così una caratteristica o una battuta da un personaggio all’altro. Per questo è una fatica inutile cercar di identificare il modello di ogni sua creatura. Con i suoi modelli, Proust gioca in totale libertà, combinandoli e trasformandoli come gli pare. Lo faceva già Balzac e lo spiegò ai lettori nella prefazione del Cabinet des antiques (1839):
“Spesso è necessario prendere parecchi caratteri simili per arrivare a crearne uno solo, così come esistono originali tanto ridicoli che, sdoppiandoli, forniscono due personaggi. […] C’è un proverbio italiano che rende a meraviglia questa osservazione: Questa coda non è di questo gatto.”
La genesi di ogni personaggio, di ogni episodio della Ricerca comporta correzioni e pentimenti, aggiunte e cancellature. Proprio nei 75 Fogli ne troviamo un esempio particolarmente evidente: la pagina che è all’origine dell’incontro del protagonista, in All’ombra delle fanciulle in fiore, con i tre alberi di Hudimesnil, in Normandia. Nella Ricerca quei tre alberi, all’inizio di un viale sulle colline dietro Balbec, formano un disegno che a Marcel pare di riconoscere; si profila la resurrezione di un ricordo, che però fallisce. “Non c’era intorno a Combray – commenta Marcel – nessun punto dove un viale si aprisse così.” In All’ombra delle fanciulle in fiore, i tre alberi restano dunque un ingannevole miraggio, un enigma irrisolto. Protendono invano i rami verso il narratore che passa in carrozza: “come ombre, sembravano chiedermi di portarli via con me, di restituirli alla vita”.
Ora, nella pagina dei 75 Fogli che è la remota preparazione di questo episodio, avviene esattamente il contrario. Sin dall’inizio sappiamo che gli alberi, che resusciteranno nella memoria di Marcel, esistono realmente. Li ha visti nel corso delle sue passeggiate dell’infanzia e dell’adolescenza “dalla parte di Villebon” (che diventerà poi la parte di Guermantes):
“Per andare dalla parte di Villebon, tutto era diverso dalla strada di Méséglise. […] Prendevamo una sorta di viale di grandi alberi, che aveva l’aria di sapere dove conduceva. Spesso in seguito, rivedendo alberi simili in Normandia, in Borgogna, mi son sentito d’un tratto invaso da una sorta di dolcezza, mentre i miei stati di coscienza attuali scivolavano via pian piano, per lasciarne apparire un altro molto antico. «Ho già visto questi alberi, ma dove». Era così vago che pensavo di averli visti soltanto in sogno. E poi mi ricordavo, era il viale che prendevamo uscendo dalla città per andare sulla strada di Villebon. Quel viale, ho avuto così spesso voglia di rivederlo, che nei miei sogni è diventato ancora più misterioso di quanto non fosse nel mio ricordo, nel mio desiderio, pieno di donne misteriosamente nell’ombra, illuminate nel volto soltanto.” (Il corsivo è mio)
Nella Ricerca gli alberi di Hudimesnil continuano a fluttuare, come in questo abbozzo, in un’atmosfera onirica e fiabesca. Alla fine, in una sorta di metamorfosi che ricorda le “donne misteriosamente nell’ombra” dei 75 Fogli, si trasformano in un “girotondo di streghe o di Norne”, per proporre a Marcel oracoli indecifrabili. L’atmosfera dell’episodio resta la stessa, ma il suo significato si rovescia completamente. Nel testo del 1908 la memoria riusciva a trovare il filo che collegava il presente al passato; nella Recherche fallisce e mostra tutta la sua fragilità.
Abbiamo detto che il romanzo del 1908 è molto più vicino all’autobiografia di quanto lo sarà la Ricerca. Tuttavia Proust è ben consapevole che si tratta non di un racconto autobiografico, ma di un romanzo. Nel taccuino lungo e stretto che gli serve da “giornale di bordo” e che ha in copertina un dandy col bastone da passeggio – noto ai proustiani come Carnet 1 –, annota, probabilmente in luglio:
Nella seconda parte del romanzo la ragazza sarà rovinata, mantenuta senza approfittare di lei […] per impotenza (impuissance) d’essere amato.

Albertine è ancora lontana. Qui probabilmente Proust pensa a una delle adolescenti che la prefigurano nelle pagine dei 75 Fogli intitolate Jeunes filles. Sono ragazze molto simili a quelle della piccola banda ben nota ai lettori di All’ombra delle fanciulle in fiore. “Simili a uccelli marini che camminano sulla sabbia”, percorrono la spiaggia “ridenti, altere”, parlano ad alta voce e fingono di non vedere gli altri bagnanti. Come accadrà in All’ombra delle fanciulle in fiore, già nei 75 Fogli Marcel si strugge dal desiderio di conoscerle. Non esiste ancora il pittore Elstir, che nella Ricerca esaudirà quel desiderio; il suo ruolo è svolto da un meno prestigioso monsieur T., amico dei genitori delle ragazze. Marcel cerca di accattivarsi la simpatia di monsieur T. regalandogli una sontuosa pipa. E per apparire elegante agli occhi delle jeunes filles prende poi in prestito dal fratello una cravatta rosa e dalla mamma un parasole con il manico di giada. Alla fine, ottiene l’ambita presentazione e un cenno di saluto amichevole dalla ragazza più graziosa, che ha i capelli rossi. A questo punto però il testo dei 75 Fogli si interrompe e non conosceremo mai gli sviluppi di questo timido idillio.
Nel romanzo del 1908 occupa uno spazio non piccolo anche il tema del fascino dell’aristocrazia: dal foglio 75 al foglio 82. I Guermantes non esistono ancora: quello che diverrà il loro castello si chiama Villebon, dal nome di un vero castello dei dintorni di Illiers, e i diversi membri della famiglia appariranno soltanto l’anno seguente, negli abbozzi del Contre Sainte-Beuve. Ma già il narratore dei 75 Fogli è sensibile alla poesia dei nomi nobili come lo sarà il narratore della Ricerca. Già gli aristocratici – non ancora conosciuti da vicino – gli sembrano, finché dura per lui “l’età dei nomi”, fatti di una sostanza speciale e circondati da un alone di magia:
“Ogni nome nobile racchiude nello spazio colorato delle sue sillabe un castello dove, dopo un ripido sentiero, è dolce arrivare in una lieta sera d’inverno. E tutt’intorno, la poesia del suo stagno, e quella della chiesa che ripete anch’essa, molte e molte volte, quel nome con il suo stemma sulle sue pietre tombali, sul piedestallo delle statue policrome degli antenati, sul rosone delle vetrate araldiche.”
In queste dense pagine intitolate Nomi nobili si affaccia anche il tema della profanazione, che nella Ricerca sarà evocato a proposito di Charlus e di mademoiselle Vinteuil. Lo introduce la somiglianza di un giovane principe dissoluto con la madre morta:
“Questi bei nomi nobili o sono senza storia, oscuri come una foresta, o storici, e sempre la luce proiettata dagli occhi, a noi ben noti, della madre, illumina tutto il volto del figlio. Il viso di un figlio vivente, ostensorio in cui riponeva tutta la sua fede una sublime madre morta, è come una profanazione di quel ricordo sacro. Perché è lo stesso viso a cui quegli occhi supplici hanno rivolto un addio ch’egli non dovrebbe poter dimenticare nemmeno un secondo. Perché è con le belle linee del naso di sua madre che è fatto il suo naso, è con il sorriso di sua madre che esorta le prostitute alle orge; è con l’aggrottare delle sopracciglia che aveva sua madre per guardarlo con più tenerezza, che il figlio mente; perché quell’espressione calma che aveva sua madre per parlare di tutto quel che le era indifferente, cioè di tutto quel che non era lui, è lui ora ad averla, per parlare di lei, per dire, con indifferenza, «la mia povera madre».”
L’impressione di prossimità con la Ricerca è particolarmente forte in queste pagine sulla nobiltà, dove già compaiono immagini, personaggi storici e aneddoti che torneranno ne I Guermantes. La stesura dei 75 Fogli, però, si interrompe negli ultimi mesi del 1908. Per arrivare alla creazione del suo romanzo, Proust li mette da parte e si prepara a seguire un cammino lungo, tortuoso e indiretto: quello che passa attraverso la confutazione del pensiero di Sainte-Beuve. La colpa di Sainte-Beuve (autorevolissimo critico scomparso nel 1869) è per Proust quella di sottovalutare l’apporto all’opera d’arte delle impressioni inconsce, provenienti dagli strati profondi della nostra mente e non controllate dalla ragione né dalla volontà. A quelle impressioni si erano invece ispirati Baudelaire e Gérard de Nerval; è alla loro arte che Proust intende ricollegarsi, sottolineando l’importanza della memoria affettiva e facendone il principio strutturante della sua opera a venire.
“Il romanzo – ha scritto Jean-Yves Tadié nella sua Prefazione ai 75 Fogli – esisterà veramente soltanto quando Proust avrà fatto della memoria involontaria non solo un evento psicologico capitale ma il principio organizzatore del racconto; vale a dire il giorno in cui gli verrà in mente di scrivere che tutta Combray è uscita da una tazza di tè.”
Spesso l’episodio della madeleine, in cui Combray esce, appunto, da una tazza di tè, è isolato dal suo contesto e letto come una sorta di “pezzo di bravura”, come un poème en prose particolarmente suggestivo. In realtà è un elemento architettonico lungamente elaborato che acquisterà tutto il suo senso soltanto nell’edificio compiuto del capolavoro proustiano: è il punto di partenza dell’itinerario del narratore alla ricerca della verità. Con un parallelismo sapientemente calcolato, altre resurrezioni della memoria involontaria segneranno nel Tempo ritrovato il momento in cui il narratore scopre la propria vocazione. Sarà allora Venezia a risorgere dall’oblio nel cortile del palazzo dei Guermantes, riportata in vita dal contatto con un’irregolarità della pavimentazione identica a quella della soglia del battistero di San Marco. In una delle più antiche versioni dell’episodio – quella scritta per fungere da prefazione al saggio su Sainte-Beuve – la resurrezione di Combray e quella di Venezia stanno una accanto all’altra, separate da poche righe. È quando Proust deciderà di collocarle una all’inizio e l’altra alla fine della sua opera che il disegno generale della Ricerca comincerà a prendere la forma che oggi conosciamo.
Nei 75 Fogli, come notava Tadié, il mondo dell’infanzia ancora non resuscita sorgendo dalla tazza di tè in cui Marcel inzuppa la madeleine. Venezia, però, è ben presente; e nell’evocazione di Venezia troviamo alcune righe nelle quali sembra echeggiare, grazie alla memoria involontaria, un preannuncio del tempo ritrovato. La formula magica che riporta in vita il passato è costituita da due parole che Marcel ha letto in un volume di Ruskin: “Palazzo Foscari”. Palazzo Foscari, Ruskin lo cita nel capitolo della Pietre di Venezia dedicato a quella che chiama “la prima e più splendida Venezia”: la Venezia bizantina “dalle mura lucenti, venate d’azzurro e tiepide d’oro, variegata da candide sculture simili ai rami della foresta che il gelo ha volto in marmo”. Grazie a Ruskin, dunque, per Marcel le parole “Palazzo Foscari” hanno un alone di poesia. Quell’alone però d’un tratto sembrano perderlo. Diventano insignificanti quando a pronunciarle è un semplice gondoliere. Per il gondoliere sono soltanto l’indicazione di un monumento come gli altri, che fa parte del suo itinerario quotidiano. Eppure un giorno per Marcel quelle due parole ritroveranno tutta la loro poesia: non perché consacrate dall’autorità di Ruskin, ma perché salvate dalla memoria involontaria, insieme alla voce del gondoliere e a tutta la luminosa cornice di una giornata veneziana. È su questa pagina dell’ultima sezione dei 75 Fogli che vorrei chiudere il mio percorso attraverso questo inedito al tempo stesso così lontano dal romanzo che conosciamo e così ricco di segni che lo preannunciano. L’ho tradotta alla buona, allontanandomi a volte dalla letteralità del testo per renderlo comprensibile; un po’ come faceva Bernard de Fallois quando trascrivendo dai manoscritti i passi più oscuri li rendeva intelligibili con qualche ritocco, inaccettabile agli occhi dei filologi ma benedetto a quelli del grande pubblico.
“E ben presto mi alzavo da letto, camminavo sul sole disteso nella mia camera, scendevo lo scalone di marmo dove le porte mal chiuse lasciavano entrare la fresca brezza marina di quelle calde giornate e passando davanti all’azzurro del Canal Grande – su cui il mio sguardo si posava incantato, rapito, come una guancia ancora molle di sonno recente si posa incantata su un cuscino morbido – arrivavo ai tre gradini davanti alla porta dell’albergo. I primi due erano di volta in volta nascosti dall’acqua o grondanti, perché altrove si abita in riva al mare, ma qui a Venezia si abita il mare. I palazzi sono magnifici e le gondole si affollano come le carrozze la domenica sulla piazza principale di una città in festa. Saltate nella gondola e diciamo: «A Palazzo Ducale, a San Marco». Lì già i vostri amici vi aspettano, con i libri. Perché sin dall’infanzia, dalle sue belle giornate di sole, voi sapete che delizia è dire agli amici “Verrò a raggiungervi” quando la giornata è già avanzata, l’appuntamento sicuro, e il sentiero da percorrere in solitudine per arrivare sino a loro trabocca della felicità di una bella giornata. […] Qui [a Venezia] non passerete davanti al pasticcere, non attraverserete la strada per andare all’ombra. Ma il gondoliere, portandovi là dove gli avete ordinato di andare, vi dirà, indicando un edificio: «Palazzo Foscari». Quei palazzi che sorgono laggiù dall’acqua azzurra, e che la gondola sfiora, costeggia e poi supera, sono quelli che hanno esaltato i vostri sogni, come li esaltano Anna Karenina o Julien Sorel. Ma Anna Karenina o Julien Sorel non li avete potuti conoscere. Questi palazzi invece, protagonisti dei romanzi di Ruskin, esistevano già da qualche parte, proprio qui dove siete venuto, in questa strada senza negozi, senza carrozze, sterrata, e dovete passare davanti a loro la sera per andare a cena o prima di cena, per andare a fare una visita. Naturalmente tutte quelle parole: «la gloriosa architettura privata di Venezia», «il glorioso palazzo Foscari» avevano un incanto che non ritrovate quando il gondoliere vi dice, mostrandovelo: «Palazzo Foscari». Ma un giorno “Palazzo Foscari” detto dal gondoliere, mentre la gondola costeggia quel palazzo per portarvi a fare una visita al Grand Hôtel, non sarà meno poetico dell’altro «Foscari», quello di prima, quello che eravate deluso di non trovare, «il capolavoro della gloriosa scuola d’architettura privata di Venezia»; perché sono momenti della nostra vita che la percezione sensibile, la tirannia del presente, l’intervento dell’intelligenza, l’intrecciarsi delle attività, la catena dei desideri egoistici, ci impediscono di vivere ma che ridiventano gloriosi nel giorno finalmente venuto della resurrezione.”