Non ci provo nemmeno a descrivere Maddalena in poche righe. Dico solo che a diciotto anni si è trasferita a Monaco e lì ha costruito la sua carriera e la sua famiglia. Oggi, nemmeno trentenne, è una giovane donna piena di vita e di entusiasmo, complessa e coraggiosa, che nutre per le parole e la scrittura un amore vero, sempre attento e quasi carnale. Lei le parole le sente, le tocca, le assaggia, le beve, le annusa, trasformandole in oggetti concreti e fisici al pari di un tavolo o di una sedia.

Lingua madre, il romanzo che l’ha portata alla vittoria nella 33° edizione del Premio Italo Calvino, ne è una lampante dimostrazione. Qui ogni personaggio snoda e realizza se stesso attraverso i vari significati attribuiti alla lingua parlata, ai linguaggi appresi e alle parole marchiate; significati che mutano, evolvono e crescono intrecciandosi con le vicende narrate, arrivando perfino a determinare scelte di vita e di morte.

Maddalena usa le parole come lenti multifocali per leggere se stessa e il mondo, senza sconti e senza remore, svelandoci uno dei percorsi più ostici e affascinanti nel campo della scrittura, perché per raccontare davvero chi siamo dobbiamo necessariamente arrivare a scoprire quale sia la nostra lingua madre.

Paolo Prescher indossa un nome che è l’anagramma di “parole sporche”. Chi è l’uomo protagonista della storia?

Paolo Prescher, bolzanino di madrelingua italiana, cresce in un contesto familiare opprimente che noi conosciamo attraverso lo sguardo deformante della sua voce. Odia la madre perché lo soffoca e gli fa male, gli sporca appunto le parole. Odia anche la sorella, “stronza”, che gli fa ribrezzo e paura. Idealizza invece il padre che soffre di mutismo e riempie silenziosamente la casa di etichette con i nomi delle cose: per esempio sul tavolo c’è scritto tavolo, sulla poltrona c’è scritto poltrona. Il suo dolore, che nasce da questa costellazione relazionale e che lui non riesce a esprimere, si sposta sul linguaggio, attraverso un mescolamento di piani che fa un tutt’uno tra persone, lingue e luoghi. Così la falsità della madre combacia con l’ipocrisia del costrutto sociopolitico di una città bilingue solo di facciata ed entrambe si specchiano nel linguaggio politicamente corretto che lui non sopporta.

Cosa intende Paolo quando definisce alcune parole “sporche” e altre “pulite”?

Le parole sporche sono quelle che non dicono ciò che devono dire, sono ipocrite, false, scorrette, violente. Lo sono perché “sporche” sono le persone che le pronunciano. Le parole pulite sono quelle prive di associazioni mentali e ricordi, sono quelle pronunciate da persone sincere e trasparenti, idealizzate, che calmano e fanno star bene. Sono vere e limpide. In questo senso le parolacce non sono sporche, dipende tutto da chi le dice, da come le dice, dal perché le dice. Quando Paolo impara il tedesco, le parole all’inizio sono tendenzialmente pulite, scevre di esperienze passate, di voci già sentite, poi però iniziano a macchiarsi perché si collegano a luoghi, persone e idee; la macchia è ancora sopportabile, mentre lo sporco linguistico vero e proprio per Paolo è legato al dolore e al trauma.

Da cosa fugge e cosa cerca il protagonista quando lascia Bolzano e si trasferisce a Berlino?

Dopo il suicidio del padre, Paolo non riesce più a sopportare la città e con lei l’italiano. Nella sua testa aveva preso col genitore l’impegno di cercare parole pulite, ma si sente di aver fallito, vive un forte senso di colpa e deve punirsi. Promette così a sé stesso di non parlare mai più in italiano, rifiutando la sua lingua madre e imitando parzialmente il mutismo del padre. Così prende uno zaino e parte. Quando arriva a Berlino, città nuova (e quindi “pulita”) in cui si parla tedesco, lontano dal contesto della famiglia di origine, ricomincia finalmente a respirare e a vivere. Il linguaggio si distende e si normalizza insieme a Paolo, che sta crescendo in modo scombinato e intuitivo ma coerente con il suo carattere. Trova lavoro nell’unico luogo adatto a lui, in biblioteca, e qui conosce Mira di Pienaglossa.

Mira di Pienaglossa (altro nome che è tutto un programma) è una donna che “parla pulito”. Chi è e quale ruolo ha nell’evoluzione del protagonista?

Mira è una ragazza milanese di cui Paolo si innamora. È bellissima, secondo i canoni di Paolo, proprio perché parla pulito. È sapone di Marsiglia in grado di pulirgli il linguaggio, con lei il protagonista scopre il divertimento, la birra, l’amore. Grazie a lei stringe amicizia con un gruppo di persone con le quali può essere così com’è, con le sue stranezze, senza che ci sia oppressione o giudizio. Gli schemi mentali di Paolo si capovolgono, lui inizia a cambiare e a fare cose che prima non avrebbe mai fatto; l’ossessione linguistica diventa fascinazione per un modo di parlare che nella prima fase bolzanina non avrebbe sopportato. Con la sua trasparenza e il suo affetto, Mira riesce a fargli dimenticare lo sporco delle parole bolzanine, tanto che con lei decide persino di trasferirsi a Bolzano. Paolo non è più il ragazzino con l’ossessione delle parole sporche, ma un uomo adulto e innamorato.

Cosa succede quando Paolo torna a Bolzano?

Ci sono tre versioni di Bolzano nel romanzo, una è proprio quella dopo il ritorno da Berlino. Paolo riscopre la città attraverso lo sguardo di Mira, che riesce a fargli conoscere luoghi che non aveva mai notato e luoghi che prima gli facevano orrore perché impregnati di parole sporche. Tutto ciò che odiava si trasforma grazie alle spiegazioni della ragazza che gli ripulisce, insieme al linguaggio, anche la città. C’è una scena in cui i due osservano dall’alto di un ponte il Catinaccio, una montagna blu e scura, un tempo considerata orribile e ora invece percepita come meravigliosa, che si trasforma in Rosengarten, grazie all’enrosadira, parola bellissima che a Paolo fa venire sete. Mira, emozionata, dice che è davvero la montagna più bella che abbia mai visto e allora anche per Paolo lo è. Bolzano, in questa fase, è immersa nell’innamoramento ed è riflesso del capovolgimento dell’ossessione.

Il tuo libro è un’analisi profonda della dualità, dello sdoppiamento, della lacerazione, della contrapposizione. Tutto è doppio, come davanti a uno specchio: Paolo Prescher (doppia P), Bolzano-Berlino (doppia B), nella famiglia di origine ci sono due maschi e due femmine, si parlano due lingue. Tu sei italiana ma vivi a Monaco, hai studiato germanistica e italianistica. Quanto ti appartiene il tema del doppio e della contrapposizione?

Il doppio nel romanzo è dicotomia e ripetizione, in una costruzione all’interno della quale la simmetria e l’ordine schematico del pensiero del protagonista si riflettono sul mondo esterno diviso e sdoppiato; o viceversa, in base alla prospettiva. Sul piano della realtà io mi sento molto doppia: ho un cognome tedesco e un nome italiano, vengo percepita come tedesca dagli italiani e come italiana dai tedeschi, faccio ricerca in italianistica a Monaco e infine ho una faccia e un corpo che non sempre riesco a mettere insieme alla voce e all’idea che ho di me. Però ci sono situazioni in cui tutto combacia, la patina dello sguardo altrui su di me sparisce e io sono una. Mi succede per esempio nella scrittura, e una sensazione analoga la provo rispondendo a queste tue domande.

Sempre doppia e contrapposta è la lingua, fin dal nome del protagonista: nome italiano, cognome tedesco, come te. Hai portato avanti un lavoro linguistico enorme (e bellissimo) in questo romanzo, assieme al tuo protagonista.

Paolo nasce e cresce in un contesto bilingue e doppio, conoscendo però una sola lingua che è un italiano diverso da quello che viene parlato a Bolzano. Anche da questo scaturisce l’idea di essere incompleto, difettoso e sbagliato, ma soprattutto da qui nasce la sua insicurezza linguistica, che gli fa osservare e scomporre le parole, guardare le lettere, sentirne il suono. Sono proprio il dubbio e l’incertezza a farlo sprofondare nel mondo letterario e linguistico, un mondo che da un lato lo fa evadere dal dolore, dall’altro lo imprigiona nell’ossessione. Paolo fa letture scomposte, da Marino a Langer, passando per Mauthner e Jarman, e cita le frasi che ha letto, nascondendole nei suoi discorsi, coprendole con la sua voce, mescolandole nel suo pensiero. Ovviamente è stato un lavoro divertente per me che l’ho scritto, ma volevo che avesse una funzione narrativa ben precisa. Poi era importante che Paolo delirasse da vero bilingue, lui che bilingue non è, ma forse sì, se non altro perché ama due lingue; l’italiano in fondo, odiandolo, lo ama. Infine una delle cose a cui tenevo di più era che il linguaggio fosse sincero e credibile, perché scrivendo nella prospettiva di un ragazzo ossessionato dalla trasparenza linguistica, con tutte le contraddizioni del caso, non potevo tradire l’idea di fondo.

Non so se Paolo possa essere considerato un tuo alter ego, ma di sicuro tu e Paolo avete molte cose in comune. Perché hai traslato te stessa (o almeno una parte di te stessa) in un personaggio maschile invece che in uno femminile?

Partendo dal presupposto che la scrittura per me è travestimento, avevo bisogno di una lingua mimetica e di un personaggio con una voce forte e riconoscibile, la volevo aderente all’idea delle parole che si sporcano e adatta a una scena ossessivo-compulsiva sotto la doccia. Questi elementi mi hanno portato a sceglierla maschile. Volevo anche mettere una distanza tra la voce e me, per evitare cortocircuiti. Se una voce femminile dice, per esempio, “mia madre”, rimane ovviamente una voce fittizia femminile e non sarei di certo io a parlare di mia madre, ma temevo ci fosse, a livello inconscio, un rischio in più di immedesimarmi in maniera controproducente ai fini della narrazione. Forse non sarebbe successo comunque, ma credo mi abbia semplificato il lavoro, che volevo fosse profondo e spietato.

Stacchiamoci (non senza fatica) dalla storia di Paolo e veniamo alla svolta che ti ha portato alla pubblicazione. Ci racconti il tuo Premio Italo Calvino?

Ai tempi della scuola avevo sentito Giorgio Vasta parlare del Calvino e delle schede di lettura, era un discorso nitido e costruito su immagini precise che mi aveva molto affascinato e che mi è tornato in mente quando il Premio è arrivato alla 33° edizione. Amo il numero tre, sono convinta che porti fortuna. Se è ripetuto forse funziona, mi dicevo. Ovviamente scherzando, ma anche un po’ credendoci, come si crede alle superstizioni quando si è scaramantici. Diedi il numero di mia madre perché era italiano e perché temevo scherzi telefonici. Quando lei mi ha telefonato dicendomi “siediti, ha chiamato Marchetti” sono andata nel panico. Ho scoperto di aver vinto in diretta; ero inebetita, con un sorriso stampato ma vero, non riuscivo nemmeno a parlare.

Adesso che la tua storia è diventata un libro e se ne va per la sua strada, tu come ti senti?

Adesso guardo cosa succede, so che è un momento irripetibile e ne sono estremamente grata. La cosa che più mi ha segnato nell’esperienza di Lingua madre sono stati gli incontri con le persone, sia prima che dopo il Calvino. Ho trovato una grandissima accoglienza, non solo professionale ma anche umana, sia nel Premio con Chiara d’Ippolito, Mario Marchetti e Sara Amorosini, che nella casa editrice con Roberta de Marchis dell’ufficio stampa e Dario De Cristofaro, direttore editoriale della collana Incursioni. Vorrei continuare a scrivere, certo, ma ora sto finendo un altro libro, su Tasso e Marino, che è la mia tesi di dottorato. Poi si vedrà.

(il ritratto elaborato per questa intervista è stato ricavato da uno scatto originale dello studio fotografico Black&White)

Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May

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