Daniela Gambaro è una di quelle persone che vivono in simbiosi con la scrittura, una di quelle che ci sguazzano dentro da sempre; sceneggiatrice per il cinema e per la televisione, ha dimostrato al primo colpo di essere anche una narratrice solida e raffinata. Lo stile, il ritmo, il linguaggio, i personaggi, tutto nel suo primo libro arriva nitido, leggero e profondo assieme. Con Dieci storie quasi vere si è aggiudicata la menzione speciale della giuria al termine della 32° edizione del Premio Italo Calvino e, a breve giro di posta, ha vinto il Premio Campiello Opera Prima 2021. Se una tale doppietta lascia già a bocca aperta, il carico da undici ce lo mette il fatto che Daniela non ha ottenuto questi splendidi risultati con un romanzo, bensì con una raccolta di racconti.

Queste dieci storie sono frammenti di un medesimo sussulto dell’anima, sono dieci sguardi diversi che si intrecciano in una danza da cui ogni lettore può lasciarsi trasportare, scoprendo tra un giro e l’altro qualcosa di sé e del proprio mondo.

Partiamo dal titolo: perché hai definito queste dieci storie “quasi vere”?

Si tratta di storie che nascono dalla realtà, da incontri con persone che mi hanno raccontato la loro esperienza di maternità e nelle quali ho ritrovato alcuni elementi che facevano eco con la mia. Queste storie si sono poi modificate scrivendole, hanno inglobato elementi autobiografici o episodi appartenenti a storie di persone terze. Anche se non c’è fedeltà letterale alla storia originaria, c’è aderenza al senso profondo di quel primo nucleo narrativo, come se la storia di una singola persona fosse diventata quella di più persone e raccontare un certo sentimento o stato d’animo avesse significato, per certi versi, raccontare quello di tutte.

I tuoi racconti vivono in una dimensione soprattutto privata. Come mai questa scelta?

L’aspetto pubblico viene prima, appunto, arriva dall’incontro con altre persone e con le loro storie, da uno scambio di racconti. C’è all’origine prima di tutto un fattore umano, che poi confluisce in storie soprattutto familiari: i confini di questi racconti sono soprattutto quelli casalinghi, perché lì si trovano i rapporti per me più interessanti da raccontare. Quello che portiamo nel mondo esterno è un riflesso di quello che abbiamo imparato all’interno delle mura domestiche. L’imprinting del nostro agire sociale nasce in famiglia ed è quindi lì che volevo stare. Ci sono però situazioni che, pur apparendo sostanzialmente private, sono l’espressione diretta di situazioni esterne: penso alla protagonista di uno dei racconti, La Llorona, che nella frenesia del vivere quotidiano dimentica la figlia nel sedile posteriore della macchina. L’origine del suo dramma privato nasce da una disfunzione della società, che spinge a correre sempre di più, ad accavallare impegni, a sovraccaricarsi di incombenze al limite dell’umano. Oppure c’è il personaggio di un altro racconto, una donna che ha dovuto rinunciare alla terza gravidanza per motivi di salute e si accanisce contro chi minimizza il suo dolore dicendole che dovrebbe essere relativo, visto che lei ha già due figli, e pure sani. Questa donna se la prende col marito ma si rivolge in realtà alla società, con la sua pretesa di mettere etichette laddove è impossibile collocarle. Anche qui vediamo i riflessi privati di un’azione sociale.

Con questo libro ci parli di storie prevalentemente femminili. Perché ti sei concentrata sulle donne?

Sono tanti anni che lavoro in ambito cinematografico ed essendo i registi prevalentemente uomini, si tendono a prediligere storie con protagonisti maschili. Quindi spesso mi sono trovata a fare lavori in cui i personaggi femminili erano presenti ma non centrali e avevo questo desiderio di concentrarmi sulle psicologie femminili, di condurre la storia dal loro punto di vista, di addentrarmi nella loro visione del mondo. Non è stata una scelta deliberata, perché quando ho cominciato a scrivere non sapevo dove sarei arrivata. Si è rivelata spontaneamente: ogni personaggio apriva delle possibilità narrative, così spesso nel racconto successivo esploravo aspetti che si erano presentati in quello precedente.

Quale “fil rouge” hai seguito per stabilire la sequenza di queste dieci storie?

C’è un aspetto del quale non mi ero resa conto e che mi ha fatto notare Teresa Ciabatti quando ha letto il libro: i bambini dei primi racconti sono senza nome e cominciano ad essere identificati solo a un certo punto, nei racconti centrali e finali. Come se servisse del tempo per abituarsi al cambiamento che la loro presenza comporta, come se la maternità non fosse un dato di fatto e i suoi confini si delineassero solo tramite l’esperienza data dal viverla. L’ho travata una bellissima lettura. C’è un altro elemento che accomuna questi racconti, ed è una presenza animale. C’è una tartaruga che si inabissa in un punto e riemerge dopo uno o due racconti, come a tracciare quel percorso che lega tutte le madri e che è fatto di resistenza e pazienza.

A questo punto non posso non chiedertelo: perché una raccolta di racconti e non un romanzo?

Il racconto mi ha dato la possibilità di rappresentare modi diversi di vivere la maternità, utilizzando diversi punti di vista e rendendoli tutti ugualmente protagonisti. Quello che volevo era creare un affresco variegato dove le varie voci avessero pari spazio e dignità, indipendentemente dal modo in cui rappresentano l’esperienza: esaltante, divertito, preoccupato, angosciato, tragico. Ognuno di questi aspetti era centrale, perché ognuno di essi, in misura diversa e in momenti differenti, è presente nell’esperienza di ogni neomamma.

In queste dieci storie c’è un personaggio femminile che preferisci?

Difficile scegliere. Mi piace molto la ragazzina del primo racconto, che si affaccia all’età adolescenziale con ritrosia, come se gli eventi l’avessero spinta a farlo senza il suo permesso. È un personaggio costretto a crescere troppo velocemente, che reagisce a uno stimolo improvviso con timore e rifiuta una proposta amorosa, nonostante questa arrivi proprio dal ragazzino che le piace. Si tratta di una prima delusione amorosa: la protagonista delude le aspettative del suo amico e allo stesso tempo è delusa dalla propria inettitudine all’azione.

E c’è un personaggio maschile che preferisci?

Sì, è il ragazzo del racconto Il signor Avezzù pensava, che viene mandato per caso a dissodare il giardino di una signora alla ricerca di una tartaruga in letargo, perché deve essere trovata a causa di un trasloco imminente. Si tratta di un ragazzo che pensa di aver sprecato l’occasione più grande che la vita gli aveva dato, e cioè quella di trasferirsi in una grande città per studiare all’università. La propensione verso il divertimento l’ha mandato fuori strada e ora lavora, proprio come suo padre dal quale avrebbe voluto differenziarsi. Eppure c’è una caratteristica che questo ragazzo sottovaluta, ed è la sua capacità di ascolto, il saper leggere dentro le persone. L’incontro con la proprietaria di casa, della quale riuscirà a scoprire un segreto, gli rivelerà esattamente questo: la vita che fa non è poi così male, se possono capitargli cose come quelle che gli sono appena successe.

Qual è tra questi il racconto che preferisci?

Uno dei racconti che preferisco è L’ultima dei Mohicani, dove c’è una protagonista che ha una passione smisurata per gli indiani d’America, una passione che risulta incomprensibile per le persone che le stanno attorno e per la quale viene spesso schernita. Eppure questa donna non si lascia scalfire dal giudizio degli altri, sente che quelle tradizioni e quei valori, per quanto distanti, le sono inspiegabilmente vicini e ne difende la legittimità, a costo di mettere in crisi il rapporto con le persone care. È un racconto sulla forza dei sogni e sulle diramazioni spesso imprevedibili delle nostre radici affettive, sulla capacità e sulla costanza di seguire un insegnamento che si adatta alla nostra concezione profonda del mondo.

E qual è invece il racconto che ti piace di meno?

Quello che è stato anche il più difficile da scrivere, perché il personaggio principale si ispira a mia mamma, che purtroppo non c’è più e che non ha fatto in tempo a leggere il libro. A lei infatti sono dedicati questi racconti, è sua la capacità di trovare una collocazione propria e personale, che sfugge alle etichette di un mondo che ama catalogare.

Alla fine sei arrivata al Premio Italo Calvino. Quando hai inviato il tuo testo pensavi di poter arrivare in finale con una raccolta di racconti?

A due anni di distanza dalla finale del Calvino, posso dire che non mi rendevo assolutamente conto al tempo di quanto i racconti fatichino a collocarsi sul mercato editoriale rispetto ai romanzi. Probabilmente il fatto di non esserne al corrente è stato un bene, perché non mi ha influenzata nella scelta della forma espressiva. Sentivo che per me era quella la direzione giusta, quella che mi permetteva di sviluppare il tema nel modo desiderato, e sono andata dritta per la mia strada. Inizialmente non pensavo nemmeno che avrei scritto un libro, ho cominciato da un racconto e da quel primo, via via, sono nati spontaneamente tutti gli altri. Quando mi sono resa conto che avevo del materiale che mi sembrava valido (sono molto esigente su quello che scrivo, quindi mi è sembrato un buon segno), essendo completamente fuori dal settore, mi sono informata e quella del Premio Italo Calvino mi è sembrata la strada più adatta e seria per avere un confronto con professionisti del settore. Sono felicissima di averlo fatto, anche perché sono molto pigra e se avessi dovuto portare il manoscritto porta a porta se ne starebbe ancora in un cassetto, immerso in un letargo di tartaruga.

Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May

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