Martino Costa è nato e cresciuto a Milano, ma definirlo milanese sarebbe riduttivo visti i suoi molti trasferimenti. Darfur, Sri Lanka, Sud Sudan, Palestina, Pakistan, Libano e attualmente Giordania. Soltanto due anni fa è riuscito a comprare casa nella sua città. A portarlo in giro per il mondo non è stata la passione per i viaggi, bensì l’interesse profondo e viscerale per le persone; Martino infatti è un operatore umanitario. Le complesse realtà che ha sperimentato, le molte persone che ha conosciuto e le situazione difficili che ha affrontato sono diventate col tempo un bagaglio prezioso, ricco di storie e voci confluite poi nelle pagine di Trash, il suo romanzo d’esordio.

Finalista della 33° edizione del Premio Italo Calvino e uscito in libreria ad aprile con Pessime Idee, Trash racconta un’umanità esiliata e ferita, relegata ai margini da una società che non si cura di chi non raggiunge lo standard richiesto e deve guadagnarsi la vita nei bassifondi. Eppure esistono e resistono, i suoi personaggi, finché la corda si spezza, qualcuno rifiuta di essere considerato ancora come spazzatura e decide di farsi sentire da chi gli passa accanto ogni giorno senza vederlo. Martino parte proprio da qui, dalle voci dense di chi a un certo punto decide che “ora basta”. Il resto è tutto da leggere.

Il titolo del tuo libro è una singola parola inglese, Trash. Quali sono i suoi significati?

Questo titolo è chiaramente un gioco di parole polivalente e metaforico. Trash è la spazzatura vera e propria, cuore della storia in quanto arma di battaglia usata dai lavoratori del centro di raccolta e smistamento di O. che indicono uno sciopero a oltranza per rivendicare i propri diritti negati. Ma si riferisce pure a tutta quell’umanità messa ai margini e riversata come merce di scarto nei quartieri dormitorio delle periferie del mondo. È anche un’allusione alla cultura trash, una cultura bassa e popolare attinente a quei segmenti sociali spesso poco scolarizzati, che il centro (inteso come antitesi alla periferia) tende ad allontanare e nascondere.

Perché hai scelto il Veneto come territorio di riferimento?

Il Veneto è stato ed è tuttora un laboratorio sociale impressionante e affascinante (come può essere affascinante osservare l’evoluzione di un tumore all’interno di un corpo sano). Uscito dalla fame e dalla malaria durante il boom economico del dopoguerra, è un territorio che, in una manciata di anni, ha prodotto fabbriche, inquinamento, palate di soldi, masse di nuovi arricchiti e un esercito di lavoratori. È una regione che sembra aver soppiantato la religione cattolica con quella del capitale; in quanto territorio ruspante, pieno di “schei” (soldi, in veneto), è ovviamente una calamita per tutti quelli che i soldi non li hanno. Ma il Veneto è anche una distese di colline, una terra verde e ondulata che ti prende l’anima. Ci sono sagre con ettolitri di vino, osterie piene, pance piene, fegati gonfi. Tanto materiale per chi vuole indagare dentro le pieghe di un’umanità storta, un circo Barnum del ventunesimo secolo, open air e senza la necessità di staccare il biglietto.

Come mai la storia che racconti prende il via proprio da uno sciopero nella raccolta dei rifiuti?

Perché la spazzatura riguarda tutti. Non ricordo quale sociologo diceva che se vuoi capire una società devi guardare dentro i bidoni dell’immondizia. Inoltre, dal punto di visto prettamente letterario, uno sciopero a oltranza dei lavoratori della raccolta dei rifiuti permette di indagare le dinamiche sociali a 360 gradi, perché mette sotto pressione e interessa praticamente tutti i livelli del contesto: politico, imprenditoriale, lavorativo, sociale. Inoltre permette di vedere come le dinamiche del potere si sviluppino e si riproducano in ognuno di questi livelli. Uno sciopero di raccoglitori di pomodori (per esempio) non ha questa portata, non riesce a entrare nelle case della gente, non ha lo stesso carico esplosivo e non innesca le medesime tensioni.

Come sono le voci degli “scarti” e come parlano i protagonisti della tua storia?

Sono una galleria dell’umanità che vediamo tutti i giorni per le strade del mondo. Con il fallimento del concetto di frontiera quale limite invalicabile, negli ultimi anni non serve nemmeno più viaggiare per vedere cosa succede all’altro capo del pianeta. In fondo, il vero cuore pulsante del romanzo sono gli esseri umani, sono loro ciò che mi interessa raccontare. Parlano lingue sporche perché sono tutti imbastarditi, immigrati, seconde generazioni, immigrati di ritorno. Hanno pochi studi alle spalle, parlano la lingua della strada che è impregnata di accenti e vocaboli nuovi, mélange, slang. Cercano, ognuno a suo modo, non tanto di capire perché sono al mondo, ma quanto e come starci. Cercano uno spazio fisico ed esistenziale che sia adatto alle loro necessità, e soprattutto cercano la dignità. Le classi che non hanno potere sono quelle che più si avvicinano al senso delle cose, lo sfiorano, ne avvertono la bellezza e l’importanza perché fanno esperienza della sua assenza. È incredibile vedere come le privazioni diano senso all’essenziale, come le donne e gli uomini siano disposti a dare la vita per riprenderselo quando questo venga a mancare.

Ci tengo inoltre a precisare che in un periodo storico dove, in Italia principalmente, si tende a scrivere, pubblicare e leggere romanzi “dell’io”, spesso ombelicali e introspettivi oltre ogni ragione, ho voluto rivolgere lo sguardo fuori, sul mondo. Questa è la letteratura che mi interessa fare, e spero di esserci riuscito.

Questa storia ha un forte legame con la tua vita privata e con il tuo lavoro. Ti va di raccontare come e perché?

Io, di lavoro, mi occupo di rifugiati di guerra. Persone che letteralmente hanno perso tutto e che per anni sono costrette a vivere in situazioni ai limiti del sopportabile (per molti diventano presto insopportabili). Da loro ho sentito di poter “rubare” la sete di giustizia, una visone asciutta e spigolosa dell’esistenza, la convinzione che non esistano torti e ragioni così chiaramente individuabili in nessun contesto sociale. La povertà e l’indigenza, non sono robe romantiche, sono robe dure, e molto spesso abbrutiscono chi le subisce. Rimane però negli individui un nocciolo quasi inscalfibile di desiderio di salvezza e di bisogno di bellezza, amore e calore. Credo che ritrarre le persone mostrandone ogni sfaccettatura sia l’unico modo di rendere loro giustizia.

Un altro aspetto che mi porto dentro è legato al corpo. Chi vive in situazioni di estrema difficoltà porta sulla pelle e sul proprio corpo i segni della fatica. Sono rughe, sguardi, cicatrici, unghie sporche, odori forti. Vestiti logori, vettovaglie arrugginite. È come se la fatica del vivere si riproducesse nei loro lineamenti, è come se il loro sguardo desse forma e sostanza al bisogno di salvezza. Ho cercato di riportare anche questo ed è un aspetto a cui tengo molto.

Cos’è secondo te la dignità umana?

Domanda facile! Sperando di non scrivere troppe banalità, mi permetto di dire solo che la dignità si ha quando si riconosce se stessi nell’altro, sia che lo sguardo sia rivolto verso il basso sia verso l’alto. Significa trattare con chiunque alla pari, ed è l’opposto dello sfruttamento e del paternalismo. A livello sociale si riconosce nei diritti e nei doveri e, forse soprattutto, nelle pari opportunità, valore che purtroppo ultimamente è stato un po’ svuotato del suo senso fondamentale. Fornire pari opportunità ai blocchi di partenza significa evitare che le classi si riproducano per mera appartenenza genetica.

Credo che la dignità si perda quando l’essere umano assapora il gusto dell’esercizio del potere sul prossimo, quando diventa dipendente da esso e dal bisogno di accumulare questo potere, soldi, riconoscimenti. È incredibile come non ci si accorga di quanto patetico sia l’esercizio del potere in questo modo. Il marito sulla moglie, il padre sui figli, il capoturno sugli operai, e così via, in un imbarazzante crescendo che davvero non rende onore agli esseri umani.

Tra tutti i personaggi di questo romanzo che potremmo definire corale, ce n’è uno che ti ha toccato di più?

Forse più di uno e, curiosamente, sono tutti personaggi femminili. Una è certamente Bella, la prostituta nigeriana, con un passato di privazioni alle spalle e un presente fatto di marchette lungo la tangenziale. Guadagna soldi per mantenere sua figlia e assicurarle un’educazione e un futuro. Per questo non si vergogna di ciò che fa. È inoltre una donna forte e tenera allo stesso tempo. La seconda è Alina, adolescente dai saldi principi e innamorata della danza. Ha dentro di sé un animo duro, a tratti algido, ma è capace di aprirsi alla speranza. Nessuna delle due è ispirata a persone realmente esistenti, sono solo personaggi ma tramite loro ho voluto dar voce e corpo alla gentilezza e alla solidità del femminile, punto di tenuta dell’umanità senza il quale lo sgretolamento sociale sarebbe inarrestabile.

Quali ostacoli hai dovuto superare per scrivere questo romanzo?

Le difficoltà maggiori le ho trovate nel ritrarre gli uomini di potere e ho cercato, per quanto possibile, di non scadere troppo nel caricaturale. Per ognuno di loro ho provato a raccontare l’aspetto umano, lavorando sulle sfumature e sui chiaroscuri. Come dicevo prima, il cuore del romanzo sono le persone, perciò mi sono concentrato sulle storie, le voci, le debolezze e i punti di forza. Forse risulta emblematico, in questo senso, il personaggio di Saidou, il senegalese che, messo con le spalle al muro, tradirà lo sciopero contribuendo a farlo fallire.

Una volta concluso, perché hai deciso di affidare il tuo manoscritto al Premio Italo Calvino?

Il Premio Calvino è senza dubbio il trampolino di lancio più importante per gli scrittori esordienti. È un premio libero, attento alle voci più originali, slegato dalle dinamiche editoriali e di potere che affliggono questo settore. Oltre alla possibilità di pubblicare (che comunque non è per nulla scontata), offre l’indubbio vantaggio di entrare a far parte di una famiglia larga e variopinta, solidale, sempre attenta e disponibile.

Dal manoscritto al libro: com’è stato il lavoro di editing e quale destino vorresti adesso per il tuo romanzo?

L’editing è stato abbastanza lungo e laborioso, sia dal punto di vista di pulizia del testo, sia di architettura della trama. Un lavoro estremamente interessante da cui ho imparato molto. Cosa vorrei per il mio libro? Mi auguro che, come ogni romanzo popolare, possa essere apprezzato tanto da chi legge molto quanto da chi legge poco. Credo sia un testo che offre diversi livelli di lettura, con vari punti di vista e di interpretazione. Inoltre spero di aver creato una trama avvincente, che possa funzionare e interessare i lettori fino alla fine.

Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste a cura di Ella May

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