Nella settimana che precedere l’inizio del nuovo anno scolastico, mi piace riproporre questo articolo di Massimo Scotti apparso il giugno scorso sulla rivista “Symbolon”, quando i discorsi sulla DAD (Didattica a distanza) erano sulla bocca di tutti, addetti ai lavori e non; e quando il ricorso alla tecnologia sembrava la manna dal cielo anziché un triste strumento a cui siamo stati costretti dall’emergenza epidemiologica. Qui Massimo Scotti, recensendo il breve ma illuminante saggio di Federico Bertoni Insegnare (e vivere) al tempo del virus, faceva il punto sulla situazione (un punto valido ancora oggi, ancora adesso), allertandoci sui rischi di facili entusiasmi intorno alla DAD e sulla nostra (quasi generale) colpevole acquiescenza verso un modo di fare scuola sempre più proiettato alla costruzione di perfette e luccicanti scatole virtuali entro le quali celare un profondo vuoto di contenuti. Ma una domanda, allora come oggi, resta aperta: questa “ottusa crociata tecnologica”, questa nuova didattica piace davvero agli studenti?

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di Massimo Scotti

And I Tiresias have foresuffered all

Enacted on this same divan or bed

Thomas Stearns Eliot

Di fronte a un coro osannante alla Didattica A Distanza, si leva un’unica voce che risuona, in questi tempi da tragedia greca, come un monito di Tiresia. Che sia nell’antico teatro di Siracusa o in un’aula deserta dell’ateneo di Bologna cambia poco. Proprio a Bologna è nato il libro di Federico Bertoni, Insegnare (e vivere) ai tempi del virus (Nottetempo, Milano, 2020, pp. 35).

Perché fa pensare all’indovino Tiresia, questa voce? Per molte ragioni, alcune evidenti e altre più oscure.

Risuona pressoché solitaria in una comunità che non vuole vedere le cose come stanno, o cerca in tutti i modi di evitarlo. Tutti spaventati dagli eventi, cerchiamo di tenere giustamente in piedi almeno alcune istituzioni molto simboliche e molto necessarie, come lo studio e i suoi diritti, ognuno come può, e con i pochi, rudimentali mezzi resi disponibili dall’emergenza. Le questioni in campo sono tante altre e tanto più gravi. Salviamo per ora il salvabile e poi si vedrà; lo sforzo compiuto in un tempo estremamente limitato è in questo senso encomiabile, come spiega Federico Bertoni (tra le pagine 15 e 17 del suo breve quanto illuminante libro).

Il saggio dà voce a coloro – e per fortuna sono ancora tanti – che credono davvero nelle possibilità della trasmissione culturale, dell’educazione al senso critico, in tutto quello che l’Università può ancora essere e rappresentare; ma l’Università ha ucciso il proprio padre, che si chiamava Libero Insegnamento, e sposato la propria matrigna, cioè la sottomissione alle leggi dell’economia.

Anche questo è ben spiegato nel libro: studenti trasformati in clienti, rigide leggi di domanda e offerta, gerarchie e classifiche formulate per distinguere atenei di lusso da altri più scadenti.

Su tali basi ormai solidificate negli anni si è costruita in fretta e furia una casamatta, nel tentativo di combattere una vera e propria guerra. Contro il tempo, contro il vuoto, contro l’isolamento. Ma per far questo, tutti gli atenei – statali e non – hanno dovuto ricorrere a piattaforme di proprietà delle multinazionali, visto che non c’era altra scelta; e questo è un fatto piuttosto sinistro.

Nella generale acquiescenza, Google e Microsoft si sono introdotte molto velocemente e molto invasivamente nelle case di tutti, hanno scrutato ambienti e immagazzinato dati, sanno quanti siamo in famiglia, cosa c’è nelle nostre librerie e come sono arredati i nostri appartamenti, come ci vestiamo, quali sono i nostri orari, le nostre abitudini, i nostri difetti. Hanno visto grossi nasi, molta couperose, ricrescite bianche di capelli in disordine, tute sformate, studenti che insultano docenti (come in quel video feroce che circola ancora), famiglie poco felici o apertamente disfunzionali. Sono entrati nelle nostre piccole stanze, come spiega Federico Bertoni citando Don DeLillo. Sanno tutto di noi, più di prima e più che mai. L’occasione era troppo ghiotta per andare perduta. Non ce ne siamo quasi accorti, o abbiamo fatto (per forza) finta di niente.

“Non è che qualcuno pensa di trasformare questa tragica emergenza in una sperimentazione forzata?” si chiede Bertoni a pagina 18. La risposta è: sì, purtroppo. Lo hanno già fatto, e quasi tutti pensano che sia andata bene, dopotutto.

Il fatto è che gli ‘atenei telematici’ in questo momento offrono, a livello tecnico, una didattica molto più perfezionata ed efficiente rispetto alle ‘università tradizionali’ (qualcuno le ha già definite così). Gli atenei telematici sono nati dalla tecnologia e di quella si servono da sempre, quindi, almeno dal punto di vista dell’involucro, la loro supremazia è indiscutibile.

È come se all’improvviso la Scuola Radio Elettra di Torino – per chi la ricorda – apparisse molto più elevata, qualitativamente, della Sorbona di Parigi. Suona assurdo dirlo, suona imbarazzante, ma è così.

Cito dal libro di Bertoni: “Costretti dall’emergenza sanitaria, noi invece stiamo usando le tecnologie digitali come surrogato, strumento di supplenza per ciò che avremmo fatto in presenza, nelle nostre aule. Possiamo anche farlo bene, con intelligenza flessibile e strategica, giocando al rialzo, senza svendere la qualità del nostro sapere alla presunta dittatura della macchina. Ma lo facciamo perché al momento non ci sono alternative, non perché la forzatura tecnologica sia l’occasione di chissà quale mirabolante innovazione didattica da sbandierare nei discorsi di ministri e rettori. Spesso la grammatica è una visione del mondo: nei giorni della peste possiamo fare ottime lezioni non grazie al, ma nonostante il medium digitale. E non sempre il medium è il messaggio. Almeno non del tutto” (pagina 9).

Questo a proposito dei mezzi; quanto ai contenuti, certo, ci sarebbe da discutere, ma la parola ‘contenuti’ ormai equivale troppo spesso a un triste, ingombrante riempitivo di perfette scatole virtuali destinate a essere riempite sostanzialmente di nulla.

Sofisticatissimi sistemi, siti, portali, corsi, cicli di corsi, webinar ecc. vengono proposti a raffica, sempre più splendenti e articolati; i loro ‘contenuti’ sono spesso intercambiabili e danno troppo spesso l’idea di esser stati assemblati un po’ all’ultimo momento. Devono piacere soprattutto ai giovani, si dice sempre, perché quello è il loro pubblico elettivo, ma, per esempio, questo tipo di didattica piace davvero agli studenti? La apprezzano di più rispetto alle consuete – e vituperate – ‘lezioni frontali’?

Sulle generazioni dei cosiddetti nativi digitali bisognerebbe fare lunghi discorsi, che qui sarebbero fuori luogo, ma una piccola cronaca di questi giorni mi pare illuminante: un esame bloccato da una password che non funzionava per alcuni studenti. Come mai? La docente aveva inserito, secondo le indicazioni, cinque lettere e quattro numeri, dettati nell’aula virtuale. Ma una parte dei candidati inseriva i numeri non in cifre arabe, bensì in lettere, quindi la password risultava lunghissima e inutilizzabile. Non c’è bisogno di commenti.

Una perplessità. Che è anche una domanda accorata. Davvero è meglio la lezione in sincrono, invece del monologo registrato (pagina 12 e seguenti)? E non diventerà obbligatoria la seconda modalità, per ovvii motivi di necessità della ‘fruizione’? Parole simili, come tanti termini anglosassoni, linguaggi rubati al mondo dell’informatica o della finanza, ben poco affini all’università, all’istruzione e alla cultura in genere, rimarranno un giorno legati ineluttabilmente a questi mesi pieni d’ansia e di tante incertezze.

E fanno presagire (Tiresia ce lo spiegherebbe) la futura robotizzazione della docenza: un giorno, molto vicino, saranno le macchine a registrare lezioni o impartirle a distanza. Nel frattempo, fra un oggi incerto e un dopodomani intuibile, ci sarà un momento in cui il professore assente, con il contratto scaduto senza rinnovo, decaduto a causa del precariato, verrà egregiamente sostituito dalle sue stesse lezioni, da lui accuratamente, faticosamente realizzate e registrate.

Anche a settembre, intanto, tutti sono concordi: la didattica proseguirà a distanza, fino a gennaio almeno. Nessuno pare scomporsi. Gli studenti possono frequentare bar e balere, discoteche e discobar, spiagge e campi sportivi, darsene e piazze gremite, ma le aule universitarie restano pericolose. Chissà perché.

Le discipline umanistiche, da sempre ancelle di presunte ‘scienze esatte’, sono quelle che per prime, e più duramente, ne faranno le spese. L’informatica ha creato il nuovo, idolatrato aspetto del sapere a sua immagine e somiglianza, gli algoritmi imperano ed esercitano il loro potere in modo sempre più totalitario. L’altra cultura – quella che nel nome ricorda che dopotutto non siamo ancora automi – è fondata sul contatto diretto, lo scambio di opinioni dal vivo, la maieutica di Socrate, le idee in cammino (e in dialogo) di Platone: la fissità di uno schema e l’opacità di uno schermo la soffocano e non le permettono di articolarsi com’è nella sua natura, ma tutto questo alle altre scienze importa poco.

Meglio qualche lezione-saponetta, buona per tutti gli usi, e destinata a durare nel tempo almeno fino a quando i suoi supporti tecnologici non saranno diventati desueti. Ma il futuro al momento sembra invariabile, copia carbone del presente, oppure è meglio non osservarlo troppo da vicino perché risulterebbe distopico.

Già, la distopia. È in questa che viviamo: una cupa previsione dell’avvenire che di colpo è scivolata indietro, sul periodo attuale, come una specchiera annerita che ti crolla addosso durante un trasloco. O si è riversata su di noi come un’onda di tsunami. Imprevedibilmente? No. Era da tempo che potevamo vedere le acque ritirarsi, ma eravamo troppo occupati a lasciarci soffocare dai gorghi della burocrazia, anche telematica, per farci caso. Eppure, anche questi mesi di caos, di sofferenze, di tragedie per molti, verranno presto dimenticati, o meglio rimossi dalle nostre coscienze già fin troppo ingombre, e inquiete. Fino alla prossima emergenza.

A quel punto, avremo imparato qualcosa? Saranno state almeno avviate le famose ‘riforme strutturali’, per una volta proficue e non rovinose? Sarà meglio ricordare, in ogni caso, queste parole: “Non è certo per spocchioso luddismo che molti di noi diffidano della didattica a distanza e la considerano, faute de mieux, un compromesso accettabile in questo disastro. Siamo anzi pronti a utilizzare qualunque innovazione o strumentazione che possa migliorare il nostro lavoro, ma senza ottuse crociate tecnologiche e soprattutto senza speculazioni mercantili sulla nostra pelle e su quella dei nostri studenti” (pagina 11).

Il libro di Federico Bertoni, oltre a offrire un’adeguata visione d’insieme del problema, avanza anche proposte costruttive e concrete: nel propositivo eptalogo finale, amo particolarmente il suggerimento 5bis.

Una parola, infine, va detta a proposito della collana “Semi” di Nottetempo; non vorrei sbagliare, ma mi sembra un corrispettivo in e-book di un’altra collana della stessa casa editrice, i “Sassi”. Questi brevi libri spesso contengono più idee di molti, ponderosi trattati in circolazione e dimostrano una straordinaria forza, generata dalla loro immediatezza e dall’opportunità della loro pubblicazione; i “Sassi” hanno un prezzo molto contenuto e i “Semi” sono gratuiti; i primi diventeranno pietre angolari, i secondi sono tempestivi e fertili; la perfetta rapidità della diffusione di questi e-book è un dono della tecnologia, che può offrire a chiunque un ausilio prodigioso e irrinunciabile, quando non viene usata nel modo sbagliato.

Milano, 9 giugno 2020