
di Ezio Sinigaglia
L’uomo, la donna, il bambino e la bestia
Pin vive nel Carrugio Lungo, in una stanza di stamberga divisa in due da un tramezzo di assi per separare il suo giaciglio da quello della sorella, la Nera, che «ha dei denti da cavalla e le ascelle nere di peli» (Calvino 1947) ma, a dispetto di questi tratti somatici che ripugnano a Pin, piace inspiegabilmente agli uomini. La Nera si prostituisce con buona fortuna a tutti i maschi del vicinato e con fortuna ancora migliore, dati i tempi, ai soldati. Con particolare assiduità, a frequentare il letto della sorella viene a sere alterne un marinaio tedesco e «Pin lo aspetta nel carrugio ogni volta mentre sale, per chiedergli una sigaretta». La sigaretta è la prima chiave che ci apre uno spiraglio sul mondo interiore di Pin, che la succhia
ingozzandosi di fumo gola e naso, fumo ancora aspro e ruvido contro la sua gola di bambino, ma di cui bisogna ingozzarsi fino a farsi lagrimare gli occhi e tossire con rabbia, non si sa bene il perché (p. 7).
Si sospetta subito un senso nascosto, sotto il velo del fumo. E il sospetto trova pronta conferma qualche riga più sotto, quando Pin, entrato a1l’osteria, si fa offrire un bicchiere.
Il vino non piace a Pin: è aspro contro la gola e arriccia la pelle e mette addosso una smania di ridere, gridare ed essere cattivi. Pure lo beve, tracanna bicchieri tutto d’un fiato come inghiotte fumo, come alla sera spia con schifo la sorella sul letto insieme a uomini nudi, e il vederla è come una carezza ruvida, sotto la pelle, un gusto aspro, come tutte le cose degli uomini; fumo, vino, donne (p. 7).
Siamo alle primissime pagine del romanzo e questa insistenza sull’aspro e sul ruvido dell’universo degli uomini adulti non può esser casuale. Il problema di Pin sta nella sgradevolezza graffiante del costume maschile e nella necessità inesplicabile di gettarselo sulle spalle, aspro e ruvido com’è, per diventare uomo. Non si sa bene perché, ma bisogna ingozzarsene, di quel gusto aspro, di quella smania di essere cattivi.
Il Sentiero, pur nella sua brevità (centocinquanta pagine scarse), è un romanzo popolato di figure, di cose, di fatti, intrecciato in molteplici fili ciascuno dei quali si snoda in volute e tornanti come le stradette tra i monti della Liguria di Ponente che ne sono il paesaggio, sospeso come per magia tra il racconto realista e la fiaba: è impossibile qui non soltanto restituirne qualcosa più di una pallida ombra della sottigliezza narrativa e della forza poetica, ma anche semplicemente riassumerne in modo soddisfacente la trama. Basti sapere che Pin, lasciatosi indurre dagli amici dell’osteria a rubare la pistola del marinaio tedesco, finisce in prigione, dove fa la conoscenza di Lupo Rosso, un partigiano di sedici anni noto in tutta la zona per le sue azioni di fantasioso ardimento, e con lui fugge dal carcere scivolando giù per il tubo di una grondaia, a cavalcioni, come «sulla ringhiera di una scala» (p. 45). Ma anche Lupo Rosso, per il quale Pin nutre una certa ammirazione, lo abbandona nel nascondiglio dove l’ha fatto acquattare, senza più tornare a riprenderlo. Così, nella notte, «solo, solo su tutto il mondo» (p.51), Pin fa ritorno ai suoi luoghi e in special modo a quel posto che lui solo conosce: un sentiero dove i ragni fanno i loro nidi o, piuttosto,
delle tane, dei tunnel tappezzati d’un cemento d’erba secca; […] le tane hanno una porticina, pure di quella poltiglia secca d’erba, una porticina tonda che si può aprire e chiudere (p.23).
In una di queste minuscole tane Pin ha nascosto la pistola. Torna, dunque, in cerca della pistola e ancor più della familiarità rassicurante dei suoi paesaggi notturni, ma è travolto ugualmente dall’angoscia e, camminando lungo la sponda del beudo, scoppia in un pianto dirotto.
Ma il pianto già lo raggiunge, e annuvola le pupille e inzuppa le vele delle palpebre; prima pioviggina silenzioso, poi scroscia dirotto con un martellare di singhiozzi su per la gola. Mentre il ragazzo cammina così piangendo, una grande ombra d’uomo sorge incontro a lui nel beudo. Pin si ferma; e si ferma anche l’uomo (p. 52).
È un’apparizione importante, come le parole poche e solenni ci fanno capire: la grande ombra che sorge, il muto arrestarsi di entrambi. Delle tante svolte della storia è infatti questa la più secca e decisiva. L’omone che si distacca dall’ombra, «armato di mitra, con una mantellina arrotolata a tracolla» (p. 53), è un partigiano che scende a notte dai monti per certe sue missioni isolate («Vai ad ammazzare un uomo, adesso?» «No. Ritorno») e, dopo un breve dialogo, intenerito dal bambino solo e piangente, lo porta con sé verso l’accampamento dei suoi.
Ora camminano per un campo d’olivi. […] L’uomo lo ha preso per mano: è una mano grandissima, calda e soffice, sembra fatta di pane (p. 54)
Il caldo-e-soffice si contrappone all’aspro-e-ruvido in un confronto davvero esemplare. Per la prima volta Pin si è imbattuto in un costume d’uomo che non sembra troppo sgradevole da indossare.
Seguiranno varie avventure. Il Cugino – questo il nome di battaglia dell’omone – è un partigiano sui generis, solitario, roso da un misterioso risentimento, che cova con furia pacata, verso tutte le donne, e poco incline alle azioni di gruppo. Non c’è quasi mai. Pin vive i suoi giorni in un distaccamento di partigiani quanto mai variopinto, creato dal commissario Kim mettendo insieme tutti gli elementi peggiori perché non contagiassero quelli fidati. È un Lumpenproletariat non meno aspro e ruvido di quello dei compagni d’osteria, i cui componenti si sono dati alla macchia sotto l’effetto degli impulsi più vari: alcuni, come il cuoco Mancino, per confusa passione politica, altri dopo aver disertato dai fascisti, altri ancora, come il livido Pelle, per maniacale ossessione di violenza e di armi. Pin resta attratto ora da questo ora da quello, e sistematicamente deluso. Mette a frutto i suoi talenti: canta, prende in giro i compagni, cerca il gioco e la complicità degli adulti, ma si scontra sempre con l’ambiguità distante e incomprensibile degli uomini, con «questa loro furia d’uccidere [che hanno] negli occhi» (p. 132).
Alla fine fugge anche di là e ritorna sconsolato ai suoi luoghi, ai suoi nidi di ragno, alla sua solitaria disperazione.
Pin cammina piangendo per i beudi. Prima piange in silenzio, poi scoppia in singhiozzi. Non c’è nessuno che gli venga incontro, ora. Nessuno? Una grande ombra umana si profila alla svolta del beudo (p. 144).
Quasi per magia, il Cugino sorge una seconda volta dalla notte per curvarsi sul bambino in lacrime. L’apparizione riesce a Pin così straordinariamente gradita da indurlo a far partecipe l’omone del segreto che non aveva mai svelato a nessuno: i nidi di ragno. Il Cugino sembra molto interessato. Si accoccolano davanti a una tana e accostano all’imboccatura un fiammifero acceso per guardare nel tunnel. Pin, come quasi tutti i bambini, è crudele con le bestie:
si diverte a disfare le porte delle tane e a infilzare i ragni sugli stecchi, anche a prendere i grilli e a guardarli da vicino sulla loro assurda faccia di cavallo verde, e poi tagliarli a pezzi e fare strani mosaici con le zampe su una pietra liscia (p. 24).
Adesso vorrebbe che l’omone gettasse il fiammifero acceso dentro una delle tane già in parte divelte da un’incursione di Pelle per vedere se il ragno ne esce o ci crepa. Ma il Cugino si oppone, con pacata fermezza: «Perché, povera bestia? […] Non vedi quanti danni hanno già avuto?» (p. 145). Alla fine, dopo un ultimo episodio enigmatico che possiamo qui trascurare, l’omone e il bambino, forti della promessa di ritornare al sentiero dei nidi di ragno «a dare un’occhiata ogni mese», si allontanano « nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano » (p. 147).
Piegato alla violenza dalla violenza degli uomini e, insieme, da un antico tradimento di donna del quale ancora soffre e ribolle (p. 66), il Cugino non sarà forse un uomo pienamente risolto, ma certo è una figura maschile accettabile, nella cui «grande ombra umana» Pin potrà crescere senza ribrezzo e paura. Soprattutto il Cugino, con il suo lato oscuro di misoginia inacidita come con quello chiaro di paterna attenzione per Pin e di umana pietà per i ragni, sorge qui anche per noi alla svolta del beudo, con provvidenziale tempismo, ad additarci la complessità del nodo che vorremmo indagare e dove s’intrecciano almeno tre fili, a un capo di ciascuno dei quali sta l’uomo e all’altro, rispettivamente, la donna, il bambino e la bestia. Sarebbe ipocrita pensare che la diversa espressione e gradazione della mascolinità dipenda soltanto dalla modulazione del rapporto col (e della distanza dal) primo di questi tre termini: basta a dimostrarlo, e ampiamente, la maggiore percentuale di componente animale che le convenzioni sono disposte ad accettare nell’uomo rispetto alla donna, per non dire del sapore selvaggio (quando non apertamente bestiale) di certe prove richieste al giovane maschio nei riti del passaggio d’età.
Un uomo è dunque un complicato gioco d’equilibrio (che per ciascuno si assesta e oscilla intorno a punti di equilibrio diversi) tra maschile e femminile, maturo e infantile, umano e bestiale. Una questione tutt’altro che semplice.