
di Mariolina Bertini
Nella prima parte di Rayuela Il gioco del mondo, che si svolge nella Parigi degli anni ’50, tra squattrinati intellettuali bohémiens per lo più latinoamericani, Cortazar fa dire a uno dei personaggi, Gregorovius: “In fondo Parigi è un’immensa metafora”. Invitato a spiegare di che cosa Parigi sia, secondo lui, la metafora, Gregorovius risponde in modo elusivo. Paragona Parigi a un antico, prezioso tappeto sul quale ha giocato da bambino. Era un tappeto che raffigurava la mappa di una città favolosa; al centro, c’era la dimora della regina di Saba. Situare quella mappa nella geografia del mondo reale è impossibile, e altrettanto impossibile è dire di che cosa Parigi sia la metafora. Horacio, il protagonista di Rayuela, si sforza di decifrarla, quella metafora, di cogliere “il senso” della città. Cerca una “chiave” esoterica, la “luce nera” che ossessionava un altro grande indagatore dei segreti di Parigi, il poeta Gérard de Nerval; ma la sua ricerca si perde in un labirinto senza uscita. Il fascino di Parigi, ci suggerisce Cortazar, è sfuggente come la Maga, l’amata inafferrabile che Horacio inseguirà invano, per tutta la vita, da un continente all’altro.
In Paris, s’il vous plaît (Einaudi, Torino 2022, pp. 195, € 18,50) Cortazar non è citato a proposito della Parigi inquietante di Rayuela, dove le bancarelle dei bouquinistes, quando sono chiuse, sembrano bare, e negli squallidi alberghetti con le tende rosse aleggia la memoria di antichi delitti. È citato perché una volta, durante un’intervista, ha pronunciato una frase singolare: “Per me, camminare per Parigi è camminare verso di me”. Progredire nella conoscenza di Parigi significava per lui avvicinarsi al proprio io, progredire nella conoscenza di sé. Forse è un’esperienza comune a molti, quella di “veder finalmente chiaro nel proprio cuore” (parole di Marivaux) nel momento in cui si abbandonano al piacere della flânerie sui quais della Senna o nella luce d’acquario dei passages. Quel che è certo, è che è un’esperienza familiarissima a Eleonora Marangoni, che intorno al suo rapporto con Parigi ha costruito in questo libro una sorta di ironico, elusivo e frammentario romanzo di formazione.
All’origine di questo romanzo c’è Marcel Proust. All’alba del XXI secolo, Eleonora ha vent’anni (è nata nel 1983) e sta per scegliere l’argomento per la sua tesi di laurea in Lettere. Per puro caso, un giorno, tira giù da uno scaffale della biblioteca di famiglia i volumetti impolverati di un’edizione economica di Alla ricerca del tempo perduto. Secondo Proust, è sempre per caso che avvengono nella nostra vita le cose veramente importanti; l’incontro di Eleonora con i sette volumi della Recherche sembra proprio dargli ragione. Perché di colpo per lei entrare a fondo nel mondo di Proust diventa l’unica cosa davvero urgente, davvero necessaria. Senza ancora conoscere il francese, sceglie Proust come argomento della tesi e parte per Parigi; in valigia, ben avvolti nei maglioni per non sciuparli, ci sono i volumi della Ricerca. A Parigi, Eleonora dovrebbe restare sei mesi e resterà otto anni. Su Proust, più tardi, scriverà diversi saggi, indagando il rapporto del romanziere con la pittura italiana, il significato simbolico dei colori nella Ricerca, l’amore di Proust per Venezia. Eppure non diventerà mai una studiosa di Proust nel senso accademico del termine e non fonderà sui suoi saggi una carriera universitaria; Proust non sarà mai per lei un corpo da sezionare con il bisturi della critica, ma una guida viva nell’oltremondo parigino, come Virgilio nel lungo viaggio di Dante verso la “luce intellettual piena d’amore”.
La prima Parigi della nostra autrice è dunque la Parigi di Proust. Nei “bei quartieri” della Rive Droite esplora le diverse strade dove il romanziere ha abitato; riconosce nel giardino degli Champs-Élysées lo sfondo dell’amore infantile di Marcel per Gilberte Swann; al Musée Carnavalet visita l’ultima camera dello scrittore, fedelmente ricostruita: “un ambiente scuro, quasi lugubre – ingombro di fogli e spoglio di tutto il resto, al riparo dalla luce e dal mondo. Quasi un’immagine in negativo della camera fiorita e ariosa nella casa della zia Léonie, maison de campagne dell’infanzia con cui si apre la Recherche”. L’amatissima Recherche però non è, per Eleonora Marangoni, un oggetto di culto. Tant’è vero che ne riporta, alle pagine 16-19, il riassunto “in forma di collezione di frammenti” redatto dal più irriverente degli scrittori francesi, Pierre Bayard. Avendo constatato quanto spesso Proust si metta a divagare, Pierre Bayard ha stilato un elenco delle digressioni presenti nella Ricerca, elenco che finisce per coincidere con una sorta di planimetria del romanzo stesso. Bayard attribuisce identica importanza a testi lunghissimi e a brani di poche righe, e li cita nel disordine più assoluto; per questo la sua planimetria non solo non aiuta il lettore a orientarsi nell’opera, ma gli causa un senso di vertigine e spaesamento.
Lista delle principali digressioni della «Recherche»
– Degli amori veneziani del Narratore
– Dei campanili di Martinville
– Dei diversi modi di entrare in una stanza
– Dei due russi
– Dei limiti dell’intelletto
– Dei posti per il concerto delle sorelle della nonna del Narratore
– Dei punti comuni tra letteratura e pittura…
Questa lista che comprende, se ho contato bene, 118 digressioni, ha un modello preciso: il capitolo LI de La Vita istruzioni per l’uso, in cui Georges Perec presenta – ognuna riassunta in una riga – le 179 storie che si intrecciano nel suo sterminato romanzo. Si può dire chenella lista di Bayard – integralmente riprodotta in Paris, s’il vous plaît – la Recherche è “perecchizzata”: trasformata in una macchina per produrre storie all’infinito e offrirne al lettore l’euforica, illimitata varietà. Non è un caso se questa Recherche giocattolo, smontata e rimontata alla maniera di Perec, ci accoglie sulla soglia di Paris, s’il vous plaît; perché Proust e Perec sono di questo libro gli inscindibili numi tutelari. È stato Proust ad attirare Eleonora a Parigi e ad insegnarle che la nostra percezione soggettiva fa della realtà una fantasmagoria di apparenze sempre ingannevoli. Ma è stato Perec a suggerirle che a Parigi sotto ogni pavé, dietro ogni scala di legno lucido, dietro ogni cespuglio del giardino delle Tuileries si nasconde una storia. Nel capolavoro di Perec La Vita Istruzioni per l’uso gli appartamenti di un condominio immaginario del XVII arrondissement si rivelano un serbatoio inesauribile di narrazioni che si intrecciano; in Paris, s’il vous plaît ci troviamo di fronte a una rivelazione analoga e gli oggetti più comuni e i luoghi più banali, interrogati accortamente, trasformano la città in un mosaico di racconti.
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I ricordi personali di Eleonora ci portano nella sua Parigi degli anni zero di questo secolo. La Parigi dove studia e legge alla biblioteca di Beaubourg, cercando un angolo che le permetta di scorgere dalle grandi vetrate, su un tetto vicino, l’incongruo pino marittimo di un giardino pensile; la Parigi dove ogni giorno deve affrontare sette piani di scale senza ascensore per arrivare al suo minuscolo alloggio; la Parigi dove Chez Jeannette, in rue Saint-Denis, si fumano sigarette sottili, si beve una perrier e poi un ballon di brouilly e intorno ai tavolini all’aperto si discorre all’infinito di Rohmer e di Bolaño. Alla Parigi di questi anni di vie de Bohème si sovrappone a volte una Parigi più recente: quella dove Eleonora torna dopo essersi ritrasferita a Roma, quella che ha conosciuto la tragedia del Bataclan e che dallo choc di quei giorni terribili si è lentamente ripresa. È una città che si trasforma continuamente e che pure resta sempre la stessa, perché non cancella il passato ma ne custodisce con amore la memoria viva. Questa memoria è al centro di Paris s’il vous plaît; è come se per l’autrice i suoi ricordi personali non fossero che una rete per pescare nell’Oceano di Parigi i ricordi della città, le mille storie della sua lunga, romanzesca esistenza. Sono soprattutto le storie tra Otto e Novecento quelle che Eleonora rievoca più volentieri, con il gesto attento di chi tira fuori da un vecchio baule pizzi ingialliti e porcellane leggermente incrinate. C’è la storia dei grandi magazzini della Samaritaine, fondati nel 1870 da una coppia di venditori ambulanti di tessuti divenuti con la ricchezza imprenditori illuminati e collezionisti d’arte; c’è la vita misteriosa e appartata del pittore Caillebotte, che ci ha lasciato le immagini più suggestive dei grandi boulevards del 1880; c’è la spiegazione dell’origine di quelle pesantissime griglie rotonde di ghisa che soltanto a Parigi, ai piedi degli alberi, ne circondano il tronco. Tra le vicende meno note, c’è quella del fotografo Charles Marville, incaricato da Haussmann, nel 1865, di fotografare per un immenso Album du Vieux Paris gli edifici fatiscenti e i vicoli medioevali che proprio per volontà di Haussmann stavano per scomparire. Tra le più divertenti, quella dell’inventore dei bateaux mouche, l’armatore Jean Bruel, che per primo ebbe alla fine degli anni Quaranta l’idea di imbarcare su un battello panoramico i visitatori della città.
«Bruel – ci racconta Eleonora – chiamò i suoi battelli “mouche” semplicemente perché il primo che aveva acquistato era stato costruito a Lione, nell’antico quartiere de La Mouche (oggi chiamato Gerland), ma si divertì a far credere a tutti che il nome venisse da un certo Jean Sebastien Mouche, capo della polizia segreta e collaboratore del barone Haussmann, che aveva creato la flotta di imbarcazioni per facilitare la circolazione nel centro di Parigi. Chiese all’amico giornalista Robert Escarpit di inventare una breve biografia del personaggio, e il 1 aprile 1953, al pont Solferino, tra gli applausi generali, presentò al Ministro dei Trasporti, al Prefetto, alla stampa e al Tout Paris dell’epoca, il busto barbuto del fantomatico capitano (che aveva trovato al mercato delle pulci)».
Sugli aneddoti e sui ricordi di Paris s’il vous plaît il lettore scivola incantato, proprio come i bambini che viaggiano, con gli occhi sgranati, sul bateau mouche. L’incanto, certo, nasce dai mutevoli paesaggi di Parigi, dal suo mito che sfida il passare del tempo; ma nasce anche dalla voce narrante di Eleonora, sommessa e inconfondibile. Una voce nella quale riconosciamo il dono più apprezzato ai tempi di La Fontaine e di Molière: il melanconico sorriso del naturel, della naturalezza, che su tutto diffonde la sua luce discreta.