
Che ci piaccia o meno, è stato scientificamente dimostrato (forse) che le pulsioni razziste soggiornano, come cellule degenerate, dentro il nostro cervello. Sono un cancro ancestrale – probabilmente in una vita preistorica avevano un senso, come i più cruenti istinti ferini – che già qualche anno fa (ma vale la pena rispolverare la notizia) alcuni ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca (in team con l’Università di Urbino e con l’Ospedale Niguarda di Milano) hanno isolato attraverso un esperimento i cui risultati sono stati pubblicati, nel settembre del 2016, sulla rivista scientifica Neuroscience.
Immaginatevi, dunque, 25 persone di pelle bianca (13 femmine e 12 maschi) distese, una alla volta, in uno di quei tunnel per la risonanza magnetica. A queste persone – le cavie dell’esperimento – sono stati somministrati dei brevi video (qualche secondo) i cui protagonisti sono attori di origine caucasica (quindi di pelle chiara) o africana (quindi di pelle scura); gli attori vengono prima inquadrati a mezzo busto, per consentire al cervello di immagazzinare e consolidare l’informazione, poi l’inquadratura zooma sulle mani di questi individui, mani che vengono toccate da due oggetti: un ago (in realtà finto), associato alla sensazione del dolore, e una gomma, associata, questa volta, a un tipo di contatto neutro. L’idea è infatti quella di valutare il coinvolgimento (emotivo?) dell’osservatore in ciò che sta accadendo, misurando, attraverso la risonanza magnetica funzionale, l’intensità del livello di attivazione di alcune aree del cervello. In altre parole, il fine è quello di verificare se la capacità di partecipare al dolore altrui dipenda o meno da fattori cosiddetti razziali.
Che il coinvolgimento emotivo esista è fuori di dubbio, che l’empatia faccia parte del nostro bagaglio genetico anche. Ma i ricercatori della Bicocca dicono pure, e lo dimostrano, che esiste uno scarto istintivo tra l’una e l’altra reazione registrata nelle persone coinvolte dall’indagine: i venti attori ripresi nei filmati (bianchi, neri, maschi e femmine) producono risposte diverse rilevabili dall’attività cerebrale delle persone distese nella macchina per la risonanza; cioè accade che esista istintivamente una maggiore empatia nei confronti di individui che cataloghiamo come facenti parte del nostro gruppo etnico. È possibile visualizzare il dolore e l’empatia che genera attraverso la lettura che la risonanza fa della pain matrix, ovvero l’area cerebrale deputata a riconoscere il dolore, a codificarne la localizzazione, l’intensità, la durata e la relazione emozionale, sia in prima persona sia in maniera riflessa; ovviamente e purtroppo, questa reazione riflessa è più intensa quando l’attore colpito dall’ago è di pelle chiara (peraltro, sarebbe interessante ripetere l’esperimento con individui di pelle scura).
Da questo triste punto di partenza (che i ricercatori dicono essere acquisito già da precedenti studi), ci si è però mossi in una direzione confortante; gli scienziati della Bicocca hanno munito le loro ‘cavie’ di un piccolo dispositivo a tasti attraverso il quale dare un voto al dolore che vedevano rappresentato nei video. E lì, per fortuna, l’innato pregiudizio razzista messo in evidenza dalla risonanza veniva ‘domato’ dal giudizio culturale. Si creava cioè una risposta ‘politicamente corretta’ generata da un’altra parte del nostro cervello, quello della corteccia prefrontale, là dove sono collocate le aree cerebrali deputate al controllo razionale del comportamento. Non solo, i ricercatori sono anche riusciti a misurare il tempo impiegato per dare questa risposta politicamente corretta: 100 millisecondi su 800, un niente, diremmo noi, e invece pare sia un tempo lunghissimo per gli standard del nostro cervello.
Tutto ciò significa diverse cose: prima di tutto che, se vuoi superare il tuo razzismo istintivo, devi volerlo. Così come il rimanere razzisti è frutto di una nostra disgraziata decisione. Ma significa pure che esiste un margine di miglioramento, che a livello individuale e sociale si possono elaborare strategie per contenere l’istinto e consolidare quella risposta razionale che consente giudizi socialmente più sani e giusti; che, addirittura, si potrebbe (si dovrebbe) sognare un’evoluzione della specie in cui quell’istinto primitivo venga sostituito da uno nuovo.
E qui, ovviamente, entra in scena l’educazione culturale. In un’Italia (in un mondo) in cui i razzismi, le xenofobie, le intolleranze, le politiche che escludono e creano diseguaglianze si moltiplicano a macchia d’olio, c’è da chiedersi dove si stia sbagliando o dove si sia sbagliato. Sicuramente occorre lavorare sulla Memoria, ma bisogna farlo tenendo conto dei punti deboli di questo approccio.
Valentina Pisanty, ad esempio, interrogandosi (in un articolo pubblicato su novecento.org nel gennaio del 2020) sull’evidente frattura tra attività commemorative legate alla Shoah e il moltiplicarsi di episodi di razzismo e intolleranza proprio là dove le politiche della memoria sono state avviate con maggiore intensità, giunge alla conclusione che l’equazione semplicistica Per Non Dimenticare = Mai Più non funziona; e non funziona poiché la retorica universalistica della Memoria, così come è strutturata oggi (cioè sulla formula del Mai Più, pensata “in funzione della lotta per la sopravvivenza di un gruppo specifico”), è nata da una rivendicazione particolaristica (quella del rabbino ortodosso Meir Kahane, leader del partito dell’ultradestra israeliana Kach). Il problema – spiega Valentina Pisanty – risiede nel fatto che una Memoria particolare non può diventare Universale. La Memoria è infatti, per sua natura, la memoria di un singolo o, tutt’al più, di un gruppo. Rivendicare diritti universali sulla Memoria significa scegliere, significa escludere, significa selezionare le memorie più adatte a veicolare contenuti eccezionali, col rischio, però, da una parte di banalizzare la memoria per renderla accessibile a tutti, dall’altra di piegare questi contenuti eccezionali alle esigenze di narrazioni specifiche, autocelebrative o, addirittura, apologetiche, assolutorie, se non a vere e proprie rimozioni.
Partendo, così, da questo giudizio di Valentina Pisanty, aggiungiamo che la Memoria (un certo tipo di Memoria) non è l’unico e neppure, forse, il più efficace antidoto al razzismo e all’intolleranza (di ogni genere). Occorre infatti ridefinire il concetto di Memoria e inglobare lo stesso in quello più ampio di Cultura.
La Memoria, prima di tutto, non può mai essere semplificata (risultare cioè stolida e immodificabile) né piegata alle esigenze di autonarrazioni di bandiera; in ciò deve trovare il suo principale alleato nella più sincera e onesta ricerca storiografica. Ma soprattutto la Memoria non dovrebbe mai essere offerta sotto forma di slogan (essi, prima o dopo, tendono a diventare la caricatura di se stessi), di formule, di equivalenze che finiscono per sminuire non solo la memoria stessa, ma addirittura chi di quella memoria è stato il costruttore e chi di quella memoria è oggi il fruitore. La Memoria non può essere Fede cieca ma deve generare Conoscenza, deve potersi offrire nei suoi molteplici strati (strati fittamente sovrapposti, come quelli della realtà-carciofo di calviniana e gaddiana tradizione), deve persuadere grazie alla potente giustezza dei suoi contenuti, deve arrivare al cuore di chi desidera perpetuarla perché prima l’ha fatta propria.
In qualità di insegnante non posso non constatare quanto questo percorso sia arduo da portare a compimento; ma è certo il mancato acquisto di tale qualità della Memoria ad aver condotto, negli ultimi anni, alla recrudescenza di fenomeni razzisti e di una più generale intolleranza.
Dirò ancora: forse ha fatto danni maggiori la Memoria smerciata sotto forma di slogan, di messaggi preconfezionati e senza spessore che non un più sincero analfabetismo storico; io credo che gli oppositori alla Memoria siano, oltre che individui ignoranti (in senso etimologico), individui per qualche ragione infastiditi da un modo di fare Memoria che non sono riusciti a far proprio perché, troppo spesso, questo modo ha consegnato al destinatario una Memoria svuotata della sua complessità. Se il mondo si distrae dal proprio passato, la Memoria deve faticare ancor di più per farsi sentire.
E parliamo ancora del fastidio di chi riceve lo slogan che pubblicizza la Memoria. È un fastidio generato dal fatto che, attraverso lo slogan, la Memoria sembra non solo incentivata ma imposta. Ora – lo ripeto da insegnante – la Memoria non può mai essere inflitta dall’esterno; nella sua sacrosanta missione essa si deve fare cultura, deve essere solida, stratificata, costruita con pazienza (perciò è fondamentale la scuola); si tratta di un processo lento, irto di difficoltà e di insidie, precario, suscettibile agli scossoni, alle ricadute, bisognoso di amore e di lunghe attese.
Se vogliamo che la Memoria e, con essa, la costruzione culturale di una coscienza antirazzista vada a colmare, prima o poi, quel gap genetico di cui si è detto all’inizio di questo scritto, occorre lavorare con calma, e spingere piano piano verso il centro dell’immaginario collettivo l’idea che l’intolleranza è cosa di cui vergognarsi. E tale cultura va costruita, per così dire, dall’interno; non può cristallizzarsi in banali formule né esse possono costituire il mezzo attraverso cui conquistare nuovi adepti; al contrario, occorrerà partire dall’edificazione di un sapere da cui discenda una più densa e profonda empatia; e ciò, quando vengono a mancare gli stimoli culturali tra le mura domestiche, non potrà che farlo la scuola o certi altri (troppo pochi?) attori sociali.
Sempre, però, facendo attenzione a non cadere nella trappola di quelle voci politiche (chiamale Salvini o Meloni o altri mattacchioni!) che di quell’intolleranza, di quella xenofobia che ci sta dentro (come i peggiori istinti animali) fanno una bandiera che sventolando scricchiola nelle orecchie di chi non ha avuto la possibilità, nella vita, di ascoltare musica migliore. E si è trovato ad avere in corpo quel maledetto cancro.