di Mariolina Bertini

“Un quadro è una specie di apparizione di un angolo di un mondo misterioso, di cui conosciamo alcuni altri frammenti, che sono i quadri dello stesso artista. […] Il paese, del quale le varie opere d’arte sono così altrettante apparizioni frammentarie, è l’anima del poeta, la più profonda di tutte le sue anime, la sua patria vera, ma dove egli non vive che rari momenti.”

Nel 1899, quando il giovane Marcel Proust scrive, in un saggio sul pittore Gustave Moreau, queste parole, l’estetica dominante è quella del simbolismo. L’artista, in questa prospettiva, è il tramite tra il mondo delle cose visibili e quello, superiore, delle cose invisibili; è il mago, il veggente che possiede le chiavi delle corrispondenze, cioè delle analogie rivelatrici che collegano la realtà sensibile all’universo spirituale. Per il futuro autore di Alla ricerca del tempo perduto, dunque, e per molti suoi contemporanei, un quadro non è soltanto una tela o una tavola sulla quale è rappresentata un’immagine per mezzo del colore. È la via d’accesso a una realtà diversa da quella che ci circonda nella vita di tutti i giorni, una realtà che si è rivelata al pittore in un momento di ispirazione e che il suo talento gli ha permesso di condividere con il resto dell’umanità.

È nel corso del XIX secolo che si afferma, nella cultura occidentale, questa visione dell’arte come forma superiore di conoscenza, come missione, come vocazione: è uno degli articoli di fede del credo romantico. Racconti di pittura, la bella raccolta di racconti messa a punto da Christian Delorenzo, e magistralmente introdotta da Riccardo Falcinelli (Einaudi 2022), mette a nostra disposizione una serie di testi che ci permette proprio di seguire passo dopo passo questa affermazione graduale, constatandone anche i rischi, le contraddizioni e le inevitabili zone d’ombra.

Quali sono i pericoli che incombono su chi ha il privilegio di accedere al mondo superiore dell’arte? I primi testi della raccolta sviluppano, in vario modo, proprio questo tema. Il pittore Bertoldo, nel racconto di E.T.A. Hoffmann La chiesa dei gesuiti di G., ha contemplato per un attimo una figura femminile sublime, che gli ha ispirato bellissimi quadri. Si tratta della principessa Angiola T., creatura apparentemente irraggiungibile per un povero pittore. I casi della vita però fanno sì che Bertoldo si trovi a salvare la principessa in circostanze drammatiche, facendo di lei la compagna della sua vita. Ma il finale della vicenda è tutt’altro che lieto: la donna che ispirava il pittore dai cieli dell’arte perde ogni potere quando entra a far parte della sua esistenza. Sotto il pennello di Bertoldo, che tenta di ritrarre Angiola come un tempo, nascono soltanto figure rigide e senza vita, e questo declino del talento porterà lo sventurato artista alla follia.

Il racconto di Hoffmann è del 1816; più di vent’anni dopo, nel 1839, Théophile Gautier ne riprende il tema, per declinarlo non più sul registro tragico, ma con leggerezza e ironia. Il suo protagonista, il parigino Tiburce, in visita a Bruxelles, potrebbe vivere un felice idillio con Gretchen, una deliziosa fanciulla del luogo che, mentre si finge intenta a ricamare, lo osserva dalla finestra. Ma la piccola ricamatrice, immersa nella sua prosaica quotidianità, non riesce ad affascinarlo; Tiburce la ignora, sedotto non da un’altra donna in carne e ossa, ma dalla meravigliosa Maddalena di una crocifissione di Rubens. Nessuna donna reale può competere con il fascino di quella figura cui Rubens ha conferito un’aria di “voluttà dolente”: la realtà non può che uscire sconfitta dal confronto con la perfezione dell’opera d’arte.  Soltanto spostandosi astutamente a sua volta sul terreno dell’arte, e proponendosi a Tiburce come modella, Gretchen riuscirà a conquistare l’amato.

Nel racconto di Gautier come in quello di Hoffmann la sovrannaturale bellezza dell’arte fa impallidire ogni altra bellezza, condanna la realtà all’insignificanza. Balzac, nel Capolavoro sconosciuto (1831), affronta da un altro punto di vista l’antagonismo tra vita e arte. Il suo eroe, il pittore Frenhofer, dipinge e ridipinge in segreto, per anni, un nudo femminile in cui vuole infondere la scintilla della vita. Ma l’opera che nelle sue intenzioni dovrebbe cancellare il confine tra pittura e realtà, facendo di lui l’eguale di un dio creatore, si risolve in un tragico fallimento. Là dove egli crede di vedere realizzata la sua folle ambizione, gli altri non vedono che un ammasso di colori privo di forma, una “muraglia di pittura”.

Molto opportunamente, Christian Delorenzo, che ha incluso nella sua raccolta la prima e più breve stesura del balzachiano Capolavoro sconosciuto, ce ne propone anche la singolarissima riscrittura ad opera di quel grande cultore di Balzac che fu Henry James: La Madonna del futuro (1873). Nella Firenze del 1870 un pittore americano persegue, con la stessa ostinata buona fede di Frenhofer, un progetto utopico: si propone di dipingere una madonna che concentri in sé la bellezza di tutte le madonne dei maestri del passato, da lui venerati. Ritiene di aver trovato la modella giusta, una matronale bellezza del luogo, cui vota un amore cavalleresco e senza speranza. Come Frenhofer, però, nella ricerca della perfezione perde il contatto con la realtà; non si rende conto della fuga degli anni e muore, senza aver dipinto il suo quadro, quando si rende conto che la bellezza della modella, nel frattempo invecchiata, esiste ormai soltanto nella sua memoria.

D’altronde, non è soltanto sul terreno dell’estetica che i rapporti tra arte e vita si rivelano misteriosi, complessi, perturbanti. Nel Ritratto ovale di Edgar Allan Poe (1842) il pittore che fissa sulla tela le sembianze della giovane moglie le sottrae come un vampiro la forza vitale; i colori che vanno ad animare il quadro abbandonano le guance pallide della donna, destinata a morire nel momento in cui l’opera sarà compiuta. Altrettanto malefico si rivela Il ritratto al centro del racconto omonimo di Gogol (1834). È il ritratto di un uomo dagli occhi fiammeggianti, dall’espressione diabolica; esercita uno strano potere sui suoi possessori, realizzando in un primo momento i loro desideri per poi condurli alla rovina. Se per Théophile Gautier il mondo della pittura era una sfera celeste di ineguagliata perfezione, di sublime armonia, per Poe, per Gogol, più tardi per Lovecraft, è una zona di inquietante penombra, attraverso la quale possono penetrare nella vita degli umani influssi nefasti e oscure forze incontrollabili. Quel che accomuna, comunque, in questa raccolta, racconti gotici e parabole estetiche, vicende realistiche (come quelle narrate da Edith Wharton, da Grazia Deledda, da A.S. Byatt) e narrazioni oniriche, è il perenne oscillare dei confini tra mondo reale e mondo rappresentato. In questa oscillazione, in questa incertezza sta il fascino di tutti i “racconti di pittura”. Un fascino riassunto con forza dal testo più poetico del volume, Come Wang-Fô fu salvato di Marguerite Yourcenar (1938). In questa “novella orientale”, dallo stile limpido e piano che ricorda quello delle fiabe di Oscar Wilde, il vecchio pittore vagabondo Wang-Fô è condannato all’accecamento e alla morte dall’imperatore della Cina. Motivo della condanna è l’eccellenza stessa della sua arte. L’imperatore, cresciuto tra i suoi quadri, non ha mai potuto rassegnarsi alla mediocrità del mondo reale, tanto inferiore alla loro struggente bellezza. L’ultimo desiderio del pittore condannato è quello di portare a termine un suo vecchio quadro, rappresentante il mare. E proprio su quel mare, che i suoi pennelli ricreano, Wang-Fô fugge in un’altra realtà, davanti all’imperatore e ai cortigiani increduli. Fugge nella sua fragile barca, sulle piccole onde dipinte, lasciandosi alle spalle il palazzo imperiale dai soffitti di giada. Fugge nel mondo della finzione, dell’arte, della pittura; un mondo dove anche  noi, fortunatamente, possiamo seguirlo, grazie alle pagine che Christian Delorenzo ha raccolto con tanta intelligenza e  tanto amore.

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