
di Mariolina Bertini
Agli occhi della mia generazione – sono nata nel 1947 – pochi scrittori hanno rappresentato meglio di Gadda e di Montale la perfetta antitesi dello stile fascista, della sua retorica assertiva e magniloquente, del suo classicismo marmoreo e imperturbabile, mai sfiorato dalla tentazione dell’ironia. Anche le generazioni precedenti, d’altronde, avevano spesso condiviso quella nostra impressione. Giorgio Zampa ha ricordato quanti giovani mandati a combattere in Grecia, in Libia, in Russia avessero nello zaino le poesie delle Occasioni pubblicate su riviste e giornali:
Nella biografia immaginaria che quelle poesie proponevano, nel disegno di un destino sconfitto ma non distrutto, i forzati dell’ottimismo educati nella retorica, nell’esteriorità, nell’aggressività, videro un modello di virtù opposte. Quello che più li colpì fu la capacità di rinuncia, di rispondere al male con il silenzio; soprattutto la possibilità di cavare un senso dalla realtà, di affidare a una facoltà diminuita e asservita, quella poetica, il miracolo di conferire una ragione alla vita, di mutare forse il corso di un destino.
Non meno opposta alla teatralità celebrativa delle grandi parate coreografiche del ventennio ci appariva la scrittura di Gadda, con il suo humour dispettoso, in grado di far affiorare genialmente il comico involontario della più pomposa e ufficiale seriosità. Il trascorrere degli anni non ha invalidato, credo, questa contrapposizione che nel secolo passato appariva, a me e ai miei coetanei, autoevidente. Eppure, lo studio ravvicinato della biografia dei due scrittori ha messo in luce una verità fattuale che con quell’evidenza pare in conflitto: tanto Gadda quanto, più tiepidamente e più brevemente, Montale, hanno guardato al fascismo in ascesa come a una garanzia contro “torbidi peggiori” (l’espressione è della sorella di Montale, Marianna), come all’unica possibile difesa dai pericoli della barbarie bolscevica.
Il bel volume di Pier Giorgio Zunino (Gadda, Montale e il fascismo, Laterza, Bari-Roma 2023, pp. 401, 28 €) è un utilissimo strumento per chi voglia immergersi nella realtà vissuta dal romanziere e dal poeta tra la Prima guerra mondiale e l’inizio della Seconda; aiuta a comprendere il loro percorso da una posizione favorevole o quasi favorevole al fascismo al deciso ripudio del regime ormai alleato con la Germania hitleriana. Indagine biografica e interpretazione dei testi letterari procedono di pari passo e contribuiscono in eguale misura alla ricostruzione di una serie di tappe, di passaggi, di mutazioni che sarebbe difficile capire senza una costante messa a fuoco dello sfondo storico-politico.
Tra gli itinerari così diversi del tormentato Gadda e dello scettico Montale il punto di maggior prossimità si situa alla fine della guerra del ’15-’18. Per entrambi, infatti, l’iniziale benevolenza nei confronti del fascismo è radicata nell’esperienza bellica. Il “senso sacrale della patria”, che aveva alimentato l’interventismo di Gadda e trasformato per lui in martirio la resa di Caporetto e la successiva prigionia, è profondamente offeso, nel 1919-’20, dagli atteggiamenti ostili di molti socialisti nei confronti degli ufficiali. Un uomo come lui, nota Zunino, “uscito dalla guerra segnato da un gran senso di smarrimento e di delusione, era il destinatario naturale del messaggio profondo del fascismo”. Anche Montale, pur meno provato di Gadda dalle vicende belliche, nell’agosto del 1922 non esita a manifestare la sua solidarietà a un ex-commilitone fascistissimo, il giornalista Francesco Meriano, rimasto ferito in uno scontro con i “rossi”. “Sono fiero di un amico come te – gli scrive – sempre pronto a portare la parola e il braccio in difesa di cause sacrosante”. Né la violenza squadristica né la marcia su Roma inducono il romanziere e il poeta a prendere le distanze dal fascismo in ascesa, visto come l’unica barriera contro l’onda distruttrice del socialismo rivoluzionario.
Il momento del disinganno arriva prima per Montale che per Gadda. Già nel luglio del 1923, in una lettera a Sergio Solmi, manda un messaggio indiretto al comune amico Meriano tagliando i ponti simultaneamente con il fascismo e con il mondo delle avanguardie artistiche: “Bisogna che Meriano si rassegni – scrive – a pensarmi non più futurista o fascista o imperialista o socio di Dada o via dicendo. La rivoluzione sono disposto a farla tutti i giorni dentro di me; ma fuori preferisco non bere olio di ricino o buscare legnate”. Per Gadda, che nel 1921 prende la tessera del partito fascista, il cammino che conduce al dubbio e al sospetto nei confronti dei “fratelli in camicia nera” è molto più lungo, difficile e tortuoso. Vi svolge certo qualche ruolo il rapporto con il filosofo antifascista Piero Martinetti, con cui Gadda entra in contatto nel 1925, quando progetta di conseguire una seconda laurea in filosofia. Ma le tracce di un riposizionamento etico e politico affiorano soprattutto in due testi che redige alla fine degli anni Venti, e che allora restano inediti e segreti: la Meditazione milanese e il romanzo breve La meccanica. Nella Meditazione, di contro alle rigide semplificazioni dell’ideologia fascista, si affaccia quella visione della realtà come groviglio di cause concomitanti che sarà al centro del Pasticciaccio; nella Meccanica l’eroe è un operaio socialista in buona fede, che andrà a morire coraggiosamente in una guerra alla quale non crede, mentre i suoi antagonisti sono borghesi pavidi, ipocriti e corrotti. Non che Gadda approdi, sul finire degli anni Venti, a un deciso ed esplicito antifascismo: due miti glielo impediscono, quello della Grande Guerra e quello del lavoro italiano nel mondo, che darà ai suoi occhi giustificazione e plausibilità all’impresa coloniale del governo fascista. Però, tra mille contraddizioni e oscillazioni, è cominciato il percorso che nel 1939 lo porterà a definire fascisti e nazisti “branco di carnefici autopatentati”.
A differenza di Gadda, Montale non prese mai la tessera del partito fascista, e proprio questo determinò, nel 1938, il suo licenziamento dalla direzione del Gabinetto Vieusseux. Tuttavia, come dimostra Zunino in una ricerca che vaglia con finezza indizi e sfumature, i suoi rapporti con il mondo fascista non furono privi di ambiguità né di inevitabili cedimenti. Durante gli anni della direzione del Vieusseux, dal ’30 al ’38, si trovò molte volte nella necessità di cercare presso membri autorevoli dell’establishment favori e protezione per sé e per l’istituto di cui era a capo. Quando cominciò a coltivare la speranza di emigrare negli Stati Uniti, per raggiungere l’amata Irma Brandeis, non esitò a corteggiare Prezzolini e i vertici fascistissimi della Casa Italiana della Columbia University. Infine, cercando di scongiurare il licenziamento dal Vieusseux, tentò il ricorso a Galeazzo Ciano e perfino a Mussolini in persona. Anche per lui, come per Gadda, il passaggio inequivocabile all’opposizione sarà occasionato dall’alleanza del fascismo con la Germania nazista: i versi della Primavera hitleriana ne offrono la definitiva testimonianza. E racchiudono, nell’affermazione che “nessuno è incolpevole”, anche una sorta di confessione, da parte del poeta, delle proprie incertezze e oscillazioni passate. Così i due diversi zigzaganti percorsi di Gadda e Montale attraverso gli anni della dittatura, alla fine approdano a uno stesso esito, quello di “Intravedere il baratro verso cui l’Italia si stava incamminando”.
Ciò che fu decisivo – conclude Zunino – nell’inaridire prima e tagliare poi le radici fascistiche di Gadda e Montale fu la mala compagnia a cui Mussolini aveva finito per legare l’Italia. I tedeschi e quei loro leader emanavano davvero vibrazioni intense di una ferocia primigenia e conclamavano un residuo di devastanti miti che rendevano incombenti nuovi sacrifici umani e rinnovati spargimenti di sangue. Quando poi lo status quo, in Europa e non in qualche periferica landa africana, iniziò a essere eroso nel 1938 il giudizio sul fascismo si dovette fare in loro via via sempre più carico di ombre. La imminente guerra portò da ultimo la necessità di scelte radicali.