di Cinzia Bigliosi

Negli ultimi anni la letteratura italiana è stata segnata da rari libri preziosi sul cinema, tra i quali L’età del noir seguito da Cinema noir americano 1960-2000 di Renato Venturelli (2007 e 2020) e Una visita al Bates hotel di Guido Vitiello (2019). La mesta fine del 2023 viene oggi illuminata da una guida al genio quasi perfetto di Billy Wilder (1906-2002). Attraverso una carrellata di ventiquattro schede Ivan Cipressi, erudito e appassionato studioso di cinema, firma Billy Wilder. Un regista quasi perfetto (Ut Orpheus edizioni, 2023). Il “quasi” è d’obbligo quando il termine di paragone è Ernst Lubitsch che per Wilder fu maestro e costante modello di riferimento (noto l’aneddoto per il quale Wilder tenne sempre ben in vista nel proprio ufficio il richiamo «How would Lubitsch?»). Teso nella costante ricerca del tocco alla Lubitsch, del maestro Wilder avrebbe mantenuto la regola aurea della struttura in tre atti, di memoria aristotelica, dove a incipit e sviluppo segue il finale con al suo centro una scelta per i protagonisti improrogabile.

Votato alla scrittura (scelse per sé l’epitaffio “Sono uno scrittore, ma dopotutto nessuno è perfetto”), prima di diventare regista tra Vienna e Berlino Billy Wilder era stato un divertito giornalista dalla penna intrisa dello stesso humor caustico che ne avrebbe segnato l’opera cinematografica. Nei suoi film la carta stampata occupa un posto d’onore, anche quando è colta nei suoi vizi più perversi, con sguardo spietato e visionario, come nel caso di L’asso nella manica (1951), e nel suo ultimo film, Prima pagina (1974). Prima che regista fu un formidabile sceneggiatore; sua la firma di L’ottava moglie di Barbablù e di Ninotchka di Lubitsch, Colpo di fulmine di Howard Hawks e La porta d’oro di Mitchell Leisen, collaborazione all’origine della decisione da tempo accarezzata di divenire regista. Brulicante come le pagine di Jean-Henri Fabre, nell’immaginario di Wilder in principio fu un insetto. Quando nel film di Leisen Charles Boyer si rifiutò di girare la scena del dialogo dai toni secondo lui troppo esistenzialisti con uno scarafaggio, il regista appoggiò la protesta dell’attore a discapito della sceneggiatura che venne tagliata. Wilder, che l’aveva firmata, non la prese bene e da quel momento il solo modo per avere un controllo totale sui propri film gli avrebbe permesso di licenziare e difendere occupandosi della regia una serie di film che, visti oggi attraverso la lente di Cipressi, avrebbero costruito una vera e propria cattedrale dei generi. In primis il noir, il genere cinematografico classico americano che Cipressi definisce un modo di “sentire” il mondo circostante, pieno di insidie e pericoli nascosti molto spesso dietro l’occhiale scuro e il conturbante fumo di una sigaretta di una donna fatale. La “perdita di innocenza dell’America” rappresentata nelle sue pieghe più sordide trova grandi testimoni in tutti quegli scrittori, registi, direttori della fotografia, musicisti in fuga dall’Europa, di frequente di origine ebraica, che si erano rifugiati nel nuovo mondo. Lì, ad accogliere la loro eredità culturale, già intrisa di espressionismo tedesco e realismo francese, vi erano la metropoli, i grattacieli, il capitalismo, con fiumi di denaro e alcol, e l’hard boiled.

L’incontro fu miracoloso e fece brillare le stelle di, per esempio, Fritz Lang, Otto Preminger, Robert Siodmak e Wilder che al noir arriva nel 1944 con la trasposizione di La fiamma del peccato di James Cain. In originale il film si intitola Double Indemnity, segnalando in due semplici parole temi tra i più cari a Wilder: la doppiezza e l’ambiguità di chi bara e osa sbeffeggiare la propria dignità, il peccato più grave secondo Wilder e che nei suoi film avrebbe avuto tragiche conseguenze. È l’inizio della fine quando si cede alla corruzione dell’anima smettendo di essere un irreprensibile Mensch, l’uomo onesto dalla schiena dritta al quale restare fedele per non perdersi e che trova patria in un piccolo, quasi impalpabile dialogo sul ballatoio di L’appartamento (1960) tra il protagonista e un medico che non a caso si chiama Dreyfuss. Nella vita nulla ha davvero importanza come l’integrità morale. Wilder aveva lasciato le macerie che stavano seppellendo l’Europa nazista sotto le quali erano rimasti ad Auschwitz la madre, il patrigno e la nonna e alla nuova patria rivolse, pur con riconoscenza, uno sguardo che non fu mai meno che spietato. Come per esempio quando nel 1950 firmò Sunset boulevard (Viale del tramonto) con la voce narrante che apre il film appartenente al protagonista già morto. Film iconico, crudele radiografia del mondo del cinema che si è lasciato alle spalle il muto con i suoi immensi divi per abbracciare la volgarità di suoni e colori, perfido requiem di un cinema che non esiste più e che si cristallizza nella sola parola pronunciata in una triste partita a bridge da quel dio di Buster Keaton che con sguardo tombale passa, dice un solo, netto “Pass” ponendo così fine a qualsiasi inutile resistenza. Wilder non passò mai la mano, continuò a firmare film che avrebbero segnato la storia del cinema e del linguaggio, come Quando la moglie è in vacanza (1955) e A qualcuno piace caldo (1959), con in entrambi Marylin Monroe, vittima sacrificale dello star system infettato nell’anima che il regista stava segretamente minando nei suoi tic e cliché con sardonica ironia. Anche l’Europa e le sue manie culturali non furono risparmiate, nonostante il nostalgico rimpianto che torna a galla costantemente nella produzione wilderiana. Indimenticabile Shirley McLaine (nella vita figlia di un professore di psicologia), che, di verde vestita nei panni della prostituta in Irma la dolce (1963), trasforma l’alcova di lavoro nel lettino dello psicanalista con il finto inglese che, tra goffe allusioni a “spintarelle” e “serbatoi asciutti,” si dimenticherà di non essere quello che finge. Fughe, movimenti, travestimenti, pericolosi slittamenti etici e di genere: nel cinema di Wilder chi si ferma si perde, si ammala nell’anima, muore ed è forse anche per questo che il suo cinema non si ferma e non può morire.