di Mariolina Bertini

A vent’anni, durante i miei vagabondaggi, mi piaceva l’idea che il concetto di casa potesse essere fluido, relativo, uno spazio mentale. Casa, amavo ripetere, era per me il fatto stesso di fare e disfare le valigie, di sistemare i libri sugli scaffali di una capanna in Messico, o di un monolocale di Manhattan, o di un ostello ad Amsterdam. (…) Era la coperta colorata che avevo comprato a Pushkar e che portavo sempre con me, infilata nello zaino: ovunque la stendessi diventava subito casa. Casa era ormai uno spazio liminale e intermedio: tra le identità, le culture, le lingue — ed ero felice di rivendicarlo, di sentirmi diversa.

È questa “l’arte di partire” cui allude il titolo del libro di Ayelet Tsabari, ora tradotto da Cecilia Mutti per la Nuova Editrice Berti di Parma.  Ayelet Tsabari è una narratrice israeliana che, emigrata in Canada, scrive in inglese. L’arte di partire di cui ci parla è l’arte di scivolare senza legami, senza abitudini e senza costrizioni da un paese all’altro, da un mondo all’altro. Un’arte che la Ayelet ventenne, nel 1993, identifica con la libertà. I soldi sono sempre pochi, i lavori precari, instabili come le amicizie e gli amori, ma c’è qualcosa di inebriante negli scenari di una vita in costante movimento: dai “campi di peperoncini rosso sangue” dell’India ai locali di tendenza della ventosa  Vancouver; dalle spiagge della Thailandia, dove il mare è “venato di rosso e di viola”, agli angoli segreti di Goa, che nascondono un lago “orlato di cristalli”. È davvero così libera, però, la vita errabonda di Ayelet e dei suoi amici? In realtà ubbidisce a imperativi tirannici quanto quelli che regolano l’esistenza del più abitudinario dei contabili: non fermarsi troppo a lungo in nessun posto, non affezionarsi davvero a nessuno, non lasciarsi prendere da una qualche passione che richieda impegno e continuità. L’arte di partire, finisce per comprendere Ayelet, è soprattutto un’arte della fuga, e non nel senso musicale del termine. È l’arte di fuggire dai ricordi strazianti e dalle esperienze dolorose dei primi anni di vita, per rifugiarsi in una condizione di stordimento, favorita dai continui spostamenti e dall’abuso di acool, di fumo, di acidi. L’antidoto all’arte di partire è l’antichissima arte della memoria, e sarà proprio l’arte della memoria a cambiare la prospettiva di Ayelet sulla vita e ad aiutarla a ritrovare la sua prima vocazione, quella della scrittura.

Ma prima di essere un’arte, da perfezionare e coltivare amorosamente, la memoria è dolore. Quando Ayelet frequenta la quarta elementare, nel 1982, in Israele, il padre la incoraggia a leggere i grandi romanzi del passato e a scrivere; le promette, come specialissimo regalo, di far stampare i suoi racconti in un libro “vero”. Non potrà mantenere la promessa perché, dopo un primo infarto, una seconda crisi cardiaca lo ucciderà nella primavera successiva. Il momento della sua morte segna per sempre Ayelet:

Quell’istante, cristallizzato nella mia memoria tra le nebbie del dolore, sarebbe diventato il bivio del mio futuro, dividendolo in due: quello che avrebbe potuto essere se mio padre fosse sopravvissuto, quello che è successo perché non ce l’ha fatta. Crescendo, da allora, ho sempre e solo cercato di vivere più forte che potevo, per superare l’enormità di quell’istante e ridimensionarlo.

L’arte di partire è dunque l’arte di prendere le distanze da una sofferenza insostenibile, avvertita come un’atroce ingiustizia. Ma c’è un’altra realtà, più estesa, collettiva, che spinge la giovane Ayelet a fuggire il più lontano possibile: è la condizione umiliante in cui vive in Israele, negli anni ’80, la minoranza degli ebrei di origine yemenita, di cui fa parte la sua famiglia. Nell’Israele di oggi la musica e la cucina degli ebrei yemeniti sono molto apprezzate e incluse entusiasticamente nel patrimonio culturale comune, ma ai tempi dell’infanzia e dell’adolescenza di Ayelet le cose andavano diversamente. A paragone degli ebrei immigrati dall’Europa, gli ebrei yemeniti erano allora considerati – scrive Ayelet – “dei primitivi, dei selvaggi”. Li penalizzava l’aspetto fisico simile a quello degli arabi; erano accusati di fare troppi figli; un diffuso pregiudizio etichettava le loro ragazze come volgari di aspetto e sessualmente promiscue. A questo razzismo strisciante, Ayelet reagisce nell’adolescenza cercando di negare, di cancellare le proprie origini: la cultura hippie le offre un modo di confondersi tra i coetanei dissimulando ogni traccia della sua etnia di provenienza. L’arte di partire, praticata con convinzione tra i venti e i trent’anni, è in fondo il perfezionamento di questa dissimulazione adolescenziale: a ogni spostamento il passato ancestrale sembra più remoto e l’incalzare tumultuoso delle esperienze recenti lo confina nell’oblio. Tutto cambia, però, quando a Vancouver Ayelet incontra Sean, il compagno canadese che diventerà il padre di sua figlia. Doppiato il capo dei trent’anni, l’irrequieta viaggiatrice sperimenta una stabilità affettiva che le era sconosciuta. In questa vita nova la memoria riprende i suoi spazi e rivela tutto il proprio valore: non è soltanto una fonte di strazio e di rimpianto, ma una straordinaria ricchezza da esplorare in tutte le sue infinite potenzialità.

L’arte di partire aveva tagliato i fili che potevano unire Ayelet al mondo delle sue origini: alla madre, alla nonna, alla città di Petah Tikva (nome che significa ”porta della speranza”) dove era cresciuta, in un sobborgo abitato prevalentemente da ebrei di origine yemenita. L’arte della memoria, riscoperta a Vancouver alla luce della nostalgia, quei fili li riannoda, lentamente e faticosamente. Le pagine dedicate al ruolo della cucina yemenita in questa riconquista del passato sono tra le più originali e affascinanti del libro. Nella sua adolescenza ribelle, Ayelet non aveva mai capito perché la madre, dopo la scomparsa del padre, dedicasse apparentemente più attenzione alla cucina e ai lavori domestici che ai figli.

Tagliava le verdure con intento omicida, e quando lanciava le cotolette nell’olio bollente, emettevano sfrigolii simili a lamenti. Spariva in cucina per ore, diventando un tutt’uno con gli elettrodomestici. Il cibo rimpiazzava le parole; la cucina divenne il suo linguaggio.

La lontananza, spaziale e temporale, aiuta la figlia, ormai stabilita a Vancouver, a decifrare quel comportamento della madre. Una decifrazione che va di pari passo con la riscoperta delle ricette yemenite: il pane a strati per lo Shabbat che deve cuocere in forno una notte intera, la salsa piccante a base di coriandolo, la zuppa tradizionale di pollo, verdure e spezie.  Quando la madre di Ayelet accetta finalmente di condividere con la figlia, che è tornata a trovarla in Israele, la sua sapienza culinaria, cade la barriera che le aveva separate per anni e la scrittrice si rende conto di aver sempre frainteso gli atteggiamenti materni:

Da bambina, non mi sentivo la benvenuta in cucina. Pensavo che la mamma non mi volesse spiegare nulla per continuare a sentirsi indispensabile. A ognuno i suoi sfoghi creativi: io e i miei fratelli dipingevamo, scrivevamo, suonavamo musica. L’arte culinaria era il modo in cui esprimeva il suo talento, il suo genio: se l’avesse condiviso con me, cosa le sarebbe rimasto?

Solo molti anni dopo, mi sono resa conto che avevo torto.  Come gran parte degli adolescenti, ero così concentrata su me stessa e presa dal mio dolore che non riuscivo a comprendere l’entità della sua tragedia e del suo successo. Aveva perso il marito a soli quarantun anni, era sola con sei figli da crescere. (…) Non era sua intenzione scacciarci dalla cucina, quanto piuttosto cercare un rifugio lì. In una casa piena di bambini e ragazzi, la cucina sembrava un’isola felice, il suo santuario, un guscio, e doveva proteggere i confini di quel territorio se voleva andare avanti e mantenersi equilibrata e sana di mente.

Nella casa di Vancouver di Ayelet e Sean, di lì a poco, aleggerà il profumo della zuppa yemenita, gradevolissima nei gelidi inverni canadesi, e quello dell’Ugat Shmarim, il dolce farcito al cioccolato dall’esterno lucido e croccante: per Ayelet, come per il narratore della Ricerca proustiana, è nei sapori dell’infanzia che si nasconde la chiave del Tempo ritrovato.

Grazie all’arte della memoria, anche la figura del padre emerge dall’aura di lutto che la circondava e ne oscurava la vera fisionomia.  L’arte di partire ripercorre la sua storia: le origini modeste, la vocazione poetica, la professione di avvocato esercitata con una generosità disinteressata che lo fa amare dai suoi concittadini. Ayelet si appassiona alla ricostruzione della sua biografia, cura un volume collettivo in suo onore, traduce in inglese le sue poesie; quel padre morto così giovane diventa per lei, grazie all’amore comune per la scrittura, una figura quasi fraterna. Altre figure affiorano, man mano che la scrittrice raccoglie racconti e documenti sul passato della sua famiglia: la bisnonna materna Shama, approdata in Palestina nel 1912, dopo un viaggio drammatico che l’ha costretta ad affidare a una sorella le figlie gemelle, nate da un primo matrimonio; la nonna data in sposa a dodici anni a un uomo sconosciuto… Mille storie dimenticate chiedono di essere riportate alla luce, storie che per Ayelet diventano fonte di ispirazione. Il senso nuovo che a vent’anni voleva dare alla parola “casa” ora si è finalmente precisato e coincide con il senso del suo lavoro, del suo compito, della sua vocazione:

Casa è raccogliere storie, metterle su carta, raccontarle. Scrivere è casa, e mi tiene ben ancorata a terra, mi sostiene, mi nutre. La mia casa è la pagina bianca. Il solo posto dove voglio sempre tornare.