cari-jihadisti

Tradurre Philippe Muray

di

Olivier Maillart

(Si aggira per l’Italia una nuova schiera di libri pubblicati dall’editore Miraggi nella neonata collana Tamizdat. Tra i primi titoli in catalogo, Cari jihadisti è sicuramente un piccolo ma prezioso gioiello di quel pensatore ai margini che è stato Philippe Muray (1945-2006): la sua lettera di consolazione ai terroristi che all’indomani dell’attacco dell’11 settembre hanno assaggiato la delusione dell’inanità del loro agire contro una cultura – la nostra – che troppo facilmente smette di piangere le proprie vittime, rappresenta un potente e dissacrante pugno nello stomaco per tutto l’Occidente. Un Occidente che, per definizione, cade e ignora ormai il dialogo, abbracciando la dimenticanza come formula per continuare a vivere la propria agghiacciante indifferenza. Qui di seguito le parole di Olivier Maillart, traduttore, assieme a Francesca Lorandini, di Chers djihadistes… Segnalo, tra l’altro, la pubblicazione in contemporanea della postfazione al volume di Miraggi, firmata da Lakis Proguidis, Philippe Muray c’è!, su Nazione indiana, a cura di Francesco Forlani)

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Nel luglio scorso, ho tradotto a quattro mani con Francesca Lorandini il meraviglioso Chers djihadistes di Philippe Muray in italiano. Lo avevo già letto due volte in questi anni: all’uscita, e poi l’indomani degli attentati del gennaio 2015. Ricordo di averne sentito il bisogno, per sottrarmi all’isteria delle analisi che passavano in loop a reti unificate. Di certo ne capivo la fonte: rabbia, desiderio di capire, spiegare, angoscia, e via dicendo, però tutte mi sembravano alimentare una follia deleteria, con tendenza all’estinzione di una qualsiasi forma di lucidità.

Così c’è stata una terza volta. Il caso ha voluto che l’attentato di Nizza accompagnasse la fine di questo lavoro. Tutto ciò s’intrecciava beninteso, tanto nella lettura del libro che degli eventi terribili che parevano ben lungi dal finire. Tuttavia mi accontenterò semplicemente di condividere con il lettore le reazioni e le impressioni che hanno accompagnato tale lavoro.

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Il libro mi ha colpito molto e in conclusione fatto crescere l’affetto che già nutrivo per Muray (per quanto i suoi ultimi libri mi avessero in definitiva meno sedotto al momento della pubblicazione, che si trattasse di Moderne contre Moderne o di Festivus Festivus, poiché mi parevano cedere a una forma di vaniloquio), riportandomi alla mente uno dei punti deboli da me più amati in Balzac, la lungaggine: Chers djihadistesè un libro indubbiamente commissionato, pubblicato non dal suo storico editore (Les Belles Lettres) ma da un altro (Fayard). La lettura delle pagine del Journal corrispondenti al 2001 certamente offrirà lumi in materia per quanto sia ben chiara l’impressione che la stia facendo lunga. Gli era stato richiesto un libro di piccolo formato, è una manna per lui che inizia ad attirare l’attenzione dei media e non potrà, proprio per questa ragione, limitarsi alla scrittura di un semplice articolo: dovrà tenere sulla distanza, per quanto modesta, che gli è stata richiesta.

La cosa divertente è che la fa lunga non grazie agli strumenti della scrittura romanzesca (come quando Balzac interrompe l’azione per spiegarci la storia di tal personaggio, le regole urbanistiche di tale città, le leggi sociali di certi ambienti, e così via), ma con quelli della saggistica. Il che comporta delle frasi ripetitive all’inverosimile (e talvolta, dunque, complicate da tradurre, non avendo la ripetizione nella lingua italiana lo stesso valore che in francese), queste accumulazioni di avverbi e di connettivi logici, le incise incessanti, le apposizioni, ripetizioni, e via dicendo.

Quando lo si traduce, si ha voglia di tagliare, alleggerire di continuo. A Muray piace l’eccedenza, si sa, però in questo caso pare eccessivo, perfino per lui. Testo non riletto poiché scritto in urgenza? In maniera sbrigativa? O piuttosto si trattava di superare a tutti i costi, frase dopo frase, le cento pagine simboliche che si aspettavano da lui?

Un’altra spiegazione possibile: in quest’opera, Muray cede interamente la parola a un io narrante che incarna l’occidente post-istorico. Questa parola non è la sua, come del resto le maldestraggini che esasperano a un livello inaudito il pur maldestro Muray. Lo stesso per quanto riguarda gli innumerevoli connettivi e altre articolazioni logiche e sintattiche: vi è come un modo di rammentare regolarmente al lettore che si trova di fronte a una (inverosimilmente lunga) lettera aperta fittizia, e che a scriverla non sia Muray in persona – per quanto sia proprio sua la teoria esposta, costringendolo in questo modo a un discorso fatto di più gradi e livelli, e sempre paradossale.

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Altra considerazione: rileggendo il libro d’un getto per prepararmi alla sua traduzione, avevo di certo apprezzato il proposito di fondo ma a conti fatti riso poco, eccetto quando messo di fronte a formule particolarmente strambe. Indubbiamente perché in condizioni di stanchezza, durante i trasporti nei mezzi pubblici e via dicendo. Ed ecco che a riprendere il testo, rigo per rigo, il soffermarmi su ogni frase, non mi ha fatto unicamente notare le debolezze stilistiche del testo ma ridere ancora di più. E siccome dovevo spiegare alcune di quelle battute a Francesca, alla fine mi sono ritrovato a ridere il doppio.

Ho inoltre potuto osservare che mi veniva da ridere ancora di più a fine giornata (le condizioni di stanchezza…): le trovate, allusioni ad altre opere letterarie, le ragioni di certo non mancavano. La traduzione è un esercizio tanto stimolante, bisognevole (traduzioni, trappole per coglioni 1) però in grado di offrire delle ricompense e dei piaceri che gli sono propri, tra cui questo.

Accanto a questo umorismo, ho potuto notare anche, e devo confessare che la cosa mi era sfuggita alla lettura di getto, una compassione autentica di Muray nei confronti delle vittime degli attentati, di questi poveri cristi che si erano visti alla televisione lanciarsi dai piani alti delle due torri nel vano tentativo di salvare la pelle. Muray non si lascia mai andare all’umorismo quando parla di feriti e morti. Come se una tale discreta e sincera compassione lo legasse senza alcuna defezione alla comunità umana, al di là della regressione antropologica che pure vede all’opera.

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Ulteriore piacere: l’intelligenza del testo – e del suo autore. Per me che spreco così spesso il mio tempo su internet a leggere le cazzate degli scrittori reazionari considerati, quand’era ancora in vita, fiancheggiatori di Muray (Richard Millet, Renaud Camus, Michel Houellebecq, Alain Finkielkraut e compagnia bella), è un vero respiro, una boccata d’aria pura e vivificante: quanto diverso da tutti loro! quanta intelligenza! Non un grammo di razzismo o di conservatorismo stupido in quest’ opera. Soprattutto, siamo incessantemente sorpresi dai molteplici imprevisti che ci riserva il suo pensiero – del resto la sua estetica, come nell’arte del giardino inglese, fa giocare un ruolo importante alla sorpresa .

Muray affronta il problema da un’angolatura inedita, non si lascia dettare alcunché dall’attualità mediatica (l’esatto contrario di un Finkielkraut che commenta, da buon reazionario, dalla parte dei conservatori quello che la Dea Attualità gradisce offrirgli in pasto). Perfino l’11 settembre, ovvero l’evento mediatico per eccellenza, masticato, incorniciato…Ci sarebbe voluta un’impresa mica da poco per non cadere nella trappola. Eppure Muray ci riesce. Parte alla ricerca di Halloween, e tante altre cose… Ed è sempre per il suo appoggiarsi alla letteratura che si mostra capace di una tale indipendenza d’animo.

Basti prendere l’esempio del ramadan, evocato da Muray nelle conclusioni. Presso i nostri buoni autori etichettati come reazionari, quando la Città di Parigi decide di festeggiarlo si grida allo scandalo a fronte di un Natale e di una Pasqua sempre dimenticati, minimizzati dalla stessa istituzione: ecco dunque l’ennesima prova della colpevolezza dei socialisti, immondi collaborazionisti che ci consegnano mani e piedi legati all’islamismo putrido e alla “grande sostituzione”2, aventi solo per ultimo fine quello di rimorchiare l’elettorato musulmano. Analisi non esente da una certa pertinenza, del resto, ma un po’ affrettata e soprattutto (questo è il mio criterio per decidere della qualità o meno di un’analisi) che sarei in grado di fare anche da solo.

Muray, quanto a lui, ci vede tutt’altro in questo aneddoto: non è l’islam a fare un solo boccone dell’Occidente. È piuttosto il contrario: è la Gran Festa che inghiotte l’islam. L’Occidente della sedicente apertura all’altro e che amalgama tutto. Aggiungendo un terzo incomodo all’opposizione frontale tra Islam e Occidente (la Grande Festa), Muray decentra il problema. Ha forse torto? Può darsi sottovaluti i problemi che stiamo attraversando? Però affrontandoli da un’altra angolatura, ce lo mostra differentemente, senza mai cedere alle cornici prefabbricate dal non pensiero giornalistico che s’è portato via, da un bel pezzo, il talento dei vari Camus, Millet e compagnia bella.

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In capo a una settimana e mezzo di traduzione, è piombata la notizia: l’agghiacciante attentato di Nizza. E tutta la macchina si è messa in moto, come era giusto che fosse, amplificata dai media e dai social. Non posso evitare allora il turbamento di una tale ripetizione. Tra il libro e l’attualità, si tratta dello stesso desiderio di leggi e di sorveglianza (per difendere «le nostre libertà» ) che si esprime. La guerra totale contro un altro designato come mostro, e per difendere una civiltà di cui nessuno si prende la briga di dare una definizione precisa, ché l’ondata di termini con lui la si confeziona (libertà, laicità, ecc) ha precisamente per missione di mascherare il fatto che sia, se non autodistrutta, quanto meno soggetta da un bel tempo a metamorfosi…

Da cui il rimprovero (che viene già enunciato nel testo, e la cosa non ha fatto che peggiorare da allora come lo provano gli insulti che la gente si rinfaccia a tutt’oggi: utile idiota, islamofobo, denegazionista della realtà, ecc.) d’una solidarietà segreta tra lo stesso Muray e i terroristi islamisti. Da una parte come dall’altra, si percepisce una forma d’odio dell’Occidente, certo…ma non si tratta dello stesso odio. I jihadisti si sbagliano quando credono di attaccare una civiltà razionale (e gli occidentali quando credono di difenderla). Dunque, certamente, da un fronte come dall’altro, si è dalla parte del male, del residuo, della parte maledetta che il mondo moderno, delirante, festivo ha ben l’intenzione di sradicare definitivamente (o di far finta di sradicare, visto che si tratta di nemici ben addestrati per proibire ogni forma di critica…) per vivere felicemente la sua regressione antropologica. Ma questo avvicinamento non può che essere parziale. Laddove si ferma il terrorismo comincia la letteratura.

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Per concludere: Chers djihadistes… è una sorta di apostille a Dopo la storia, del 1999. Philippe Muray non si prende la briga di sviluppare delle idee e ragionamenti che aveva appena pubblicato in alcune centinaia di pagine. Il testo è dunque ellittico, avanza rapidamente, mantiene come acquisito un certo numero di paradossi che gli italiani faranno forse un po’fatica ad accettare e apprezzare.

Per giunta, Muray deve battersi su un fronte per lui pericoloso: l’11 settembre spinge un gran numero di commentatori a decantare il ritorno della Storia, dal momento che c’è la guerra, l’Altro (dopo i comunisti, gli islamisti), ecc. Muray dimostra (in modo del tutto convincente, devo ammetterlo) che le cose non stanno affatto così. Che ci troviamo di fronte a un simulacro d’opposizione. Che non vi è per niente un rapporto di forze eguali in condizione di riportare al tempo delle lotte storiche. Sbagliato, riprova un’altra volta! Si credeva che la Storia fosse di ritorno (e la serie di attentati in Francia, Stato islamico, ecc. tendono a farcelo credere ancora oggi) ma non è affatto così, secondo Muray. Leggere oggi (in francese come in italiano) Chers djihadistessignifica confrontarsi con questa cattiva notizia : il ritorno della Storia non è dietro l’angolo.

Tradotto dal francese da Francesco Forlani

1 Gioco di parole con il celebre slogan sessantottino coniato da Jean Paul Sartre: «Élections, pièges à con»

2 Qui si riprende l’espressione di Renaud Camus, che definisce il mutamento geopolitico in atto come la «sostituzione» delle popolazioni europee d’origine da parte delle popolazioni d’immigrati (africana, araba, di culto musulmano)