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Non mi ricordo esattamente quando l’ho preso dallo scaffale della libreria di mio padre, ma so che all’inizio del ginnasio lo conoscevo già incredibilmente bene. Dovevo averlo letto per la prima volta verso i tredici anni; a quei tempi ero una lettrice compulsiva di fumetti, di gialli e di fantascienza, di piccole donne, richiami della foresta, moschettieri e orfani dickensiani, ed è probabile che quel libro dalla copertina bianca, con un’immagine inspiegabile sotto il titolo (era Bulgakov quell’uomo dal naso ricurvo e le sopracciglia aggrottate, era suo quel ritratto che pareva consumato dal tempo, quel viso dai contorni dissolti là dove la tela sembrava aver assorbito il colore? E chi lo aveva sfregiato tracciando quei graffiti insoliti e suggestivi?) fosse uno dei primi libri ‘adulti’ ad attirare la mia attenzione. È stato un colpo di fulmine, un amore totale fin dalle prime righe; vedevo i due cittadini Berlioz e Bezdomnyj passeggiare per il viale costeggiato dai tigli, incontrare il misterioso straniero che con sinistra allegria predice l’avvento di una stagione di sciagure; vedevo diavoli dalle personalità artistiche, intellettuali impazziti e una donna che recupera la propria umanità solo quando tradisce la morale borghese; e vedevo ogni svolta nella trama, ogni personaggio, ogni descrizione saldarsi ai miei occhi in una visione del mondo che ero pronta ad abbracciare, subito. Volevo credere ciecamente a quella giustizia capovolta, portata avanti dal Male in persona per esasperazione, perché l’ignavia e la corruzione degli umani urta i nervi perfino nell’aldilà. E la narrazione del sovrannaturale in un libro ‘adulto’, per me bambina convinta che il fantastico fosse solo l’evoluzione della fiaba, e quindi inverosimile e falso, e quindi ‘da bambini’, mi aveva meravigliato e colpito nel profondo. Voleva dire che le due principali categorie dell’essere, i grandi e i piccoli, avevano qualcosa in comune.

Solo più tardi mi resi conto che l’incontro con Il Maestro e Margherita aveva significato per me il primo approccio con il romanzo. L’epica trascendente dei miti greci o biblici, concatenazioni di eventi immobili nel tempo, assoluti, senza un prima e un dopo, veniva sostituita dalla consapevolezza di una trasformazione irrimediabile, l’esperienza di un cambiamento che deprivava e arricchiva nello stesso momento. Non ero più la stessa, quel racconto mi segnava come aveva segnato i suoi protagonisti, mi obbligava a un confronto senza scampo con ciò che ero stata. Nella mia esperienza intellettuale aveva fatto irruzione una forza incontenibile che mi avrebbe spinto a cercare narrazioni ancora più complesse, più ricche e più deprivanti. Un desiderio quasi tangibile di sapere quali e quante realtà si stendevano oltre quelle immagini, l’ansia di esplorarle tutte. Impossibile sottrarsi e impossibile rifugiarsi dietro concetti semplificati. Un romanzo aveva smesso di essere solo un romanzo: era diventato vita di altri, e quindi anche mia.

Stratificato, leggibile su piani diversi, dove il confine tra simbolo e segno è tanto più labile quanto più si cerca di definirlo, il romanzo racconta tre vicende: l’arrivo del diavolo a Mosca e gli eventi catastrofici che ne conseguono, la storia di Pilato e Hanozri e la storia dei due amanti, il Maestro e Margherita. Tre filoni che si snodano e si uniscono poco alla volta, per giungere a un finale apocalittico, dove la rivelazione diventa anche una resa dei conti. Però attenzione, questo diavolo indimenticabile non arriva a Mosca per distruggere, piuttosto per irridere. Il suo scopo non è trascinare all’inferno la pletora di scrittorucoli di regime, la maggioranza silenziosa di cittadini aggravati dagli appartamenti condivisi e ossessionati dal miraggio della ricchezza, pronti alla minima delazione; no, questo diavolo arriva per dispensare castighi memorabili e a volte esilaranti, per mettere in scena la verità in un teatro, contrapposta alla finzione che si allestisce quotidianamente nella realtà. Woland non è il diavolo del Dottor Faustus di Thomas Mann, dimesso e repulsivo, non va dal Maestro per aiutarlo a superare una crisi creativa, ma arriva per deridere e punire la viltà. La storia di Pilato, funzionario di Stato pavido e tormentato è la narrazione letteraria (il prodotto artistico) di questa missione. Nell’inevitabile condanna di Jeshua Hanozri, infatti, non pesa tanto il tradimento di Giuda di Kiriat, trattato alla stregua di una insignificante e crudele delazione, pari a qualunque altra che avveniva quotidianamente in tutta l’Unione sovietica, ma l’arroganza disperata del procuratore romano, intrappolato in una provincia lontana di cui teme la ferocia e l’estraneità. Pilato si pente immediatamente della decisione di condannare a morte Hanozri e cerca di rimediare con soluzioni parziali e vane, ma soprattutto tardive. La scomparsa del corpo dalla tomba e la morte di Giuda alimentano così il mito millenario del Cristo ma non lasciano scampo a Pilato, che si strugge nella speranza del perdono. E allo stesso modo il Maestro, intellettuale, scrittore che ambisce alla pubblicazione, poeta in cerca di pubblico, viene confinato nella provincia lontana della sua pazzia, altrettanto feroce ed estranea, e colpevolmente si arrende. Al suo opposto, tanto più simile ai diavoli che non teme affatto, c’è Margherita, pronta prima di tutto a salvare se stessa non solo rinunciando ma rinnegando il suo status privilegiato, e riservandosi il piacere della vendetta verso il consesso dei critici che ha distrutto il Maestro. Sono gli amanti che avranno diritto alla giustizia e al riposo, non alla luce.

Altri due sono i personaggi fondamentali di questo romanzo. La città di Mosca, diversissima dalla Mosca di adesso, invece di stendersi come un sontuoso scenario all’apocalisse assume un corpo, ha una voce e un respiro, è costantemente piena di musica – una radio, l’orchestra in un locale, e la meravigliosa sequenza della via crucis di Ivan Bezdomnyj verso il ristorante Griboedov, nella quale, dopo l’inspiegabile bagno nel fiume e il furto dei vestiti, indossa quello che trova, si appunta un’icona sul petto e cammina scalzo nei vicoli dell’Arbat, “tormentato in modo indicibile dall’onnipresente orchestra, col cui accompagnamento un basso cantava gravemente il suo amore per Tat’jana”. È la musica che fa da contrappunto alla pazzia, o piuttosto è la musica che emerge come una dimensione sovrannaturale, né più né meno come quella che si apre per far entrare Woland.

L’altro personaggio è il manoscritto. Quello del Maestro, bruciato e recuperato dalla stufa, poi ricreato magicamente da Woland, e in generale l’opera d’arte scritta. È per un manoscritto che il Maestro perde se stesso, è per un manoscritto che viene condannato alla pazzia. Non è la poesia a morire per mancanza di pubblico, ma il poeta; e la conseguenza quasi naturale è quella per cui ‘senza documenti non esiste neppure la persona’. Ed è per questo che il diavolo e la sua corte invadono la città, tengono d’occhio il mondo intero e dispensano giustizia: perché il loro scopo è lasciare gli umani incatenati ai loro ceppi, ignorare la palude in cui si dibattono e mostrare una volta, una sola, il contrasto tra la vita biologica e la vita etica. Un bagno purificatore a cui poi deve seguire, inevitabilmente, il tuffo nel flusso impuro del quotidiano.

Non cito qui le altre edizioni del capolavoro di Bulgakov, a cura di altri editori e di altri, bravissimi, traduttori, perché il mio libro tanto amato è quello dalla copertina bianca e nera: Einaudi, 1967 (1. Edizione Gli Struzzi n.1, 1970), traduzione di Vera Dridso. Ma ve le consiglio tutte.

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Serena Daniele è nata a Napoli, cresciuta a Roma e vive a Milano, in attesa di spostarsi ancora più a Nord. È laureata in Lingua e Letteratura Russa, è stata bibliotecaria, insegnante e traduttrice, ha viaggiato troppo poco per i suoi gusti. Lavora in editoria dal 1995, prima per la rivista Linea d’ombra, poi per la Adriano Salani Editore e attualmente per NN Editore. Ama le serie tv, il cinema e diversi generi di musica. Ha perfino pubblicato, con Piemme, due libri per bambini.