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Dal 1886, anno della morte della madre amatissima – che lui per altro, durante una crisi di follia, aveva cercato di strangolare – la vita di Verlaine è tragicamente segnata dalla miseria e dalla malattia.  Ed è proprio sotto il segno della malattia che nasce Mes hôpitaux  (I miei ricoveri), divagante rievocazione di una serie di esperienze ospedaliere vissute tra il 1886 e il 1890. Pubblicato nel 1891, I miei ricoveri  viene ora tradotto per la prima volta in italiano e accorpato, sotto il titolo Miseria nera (traduzione e cura di Michela Landi, Edizioni della Sera, Roma 2017, pp. 200, euro 14), a un altro scritto autobiografico del 1893, Quindici giorni in Olanda. Ne risulta un volume – tradotto, annotato e presentato con estrema cura – che ci familiarizza con la voce dell’ultimo Verlaine; la voce “dall’inimitabile accento di verità”, come scrisse Anatole France, di un poeta al tempo stesso totalmente cinico e profondamente mistico.

La cronaca del viaggio in Olanda, resoconto di un periodo di rara serenità  tra artisti amici,  è ricca di particolari pittoreschi e divertenti, dai paesaggi che i canali, al chiaro di luna, attraversano come “lame di luce”, ai negozi “scintillanti” e alle affollate osterie. Ma la parte  di gran lunga più suggestiva  del volume è certamente I miei ricoveri; si resta stupefatti davanti alla vivacità e allo humour con cui  quest’uomo devastato dalla sifilide, dall’alcoolismo e da gravissime patologie reumatiche, trasforma lo squallore ospedaliero in  una vera e propria fantasmagoria, in un caleidoscopio di mobili frammenti visivi colti con una sensibilità pittorica esacerbata.

Accade così che, con il mutare dello stato d’animo del ricoverato, uno stesso ospedale , a distanza di  qualche mese, si trasformi completamente. Al primo ricovero, l’Hôpital Tenon, allora uno dei più recenti di Parigi, esempio dello stile monumentale del Secondo Impero, appare al poeta come “una nuda reggia dagli alti saloni”. Un anno dopo assumerà  un aspetto ben più  opprimente:

Ed ecco, per la seconda volta, la nuda reggia, ma quanto cambiata, incupita , rispetto alle settimane di apprendistato! Le alte finestre dai lunghi tendaggi bianchi  somigliano ai battenti di una prigione per giganti o di qualche manicomio visto in sogno…

Può accadere che il letto verso cui si dirige il nuovo ricoverato, al suo arrivo sia ancora occupato  da “una forma stretta e allungata, avvolta in un lenzuolo con un nodo sotto il collo”: è il suo predecessore, che verrà portato via  in una sinistra barella coperta, detta la “scatola da domino”. La vita in ospedale  è un familiarizzarsi continuo con la morte. Ed è anche un doloroso esercizio di adattamento alla provvisorietà di tutte le cose: il giovane amico conosciuto durante un ricovero e ritrovato l’anno dopo, da un giorno all’altro non dà più notizie, nessuno sa dove sia finito. Si è perso nel vasto mondo, lasciando dietro di sé il ricordo di un bellissimo viso e di una voce tenorile che cantava con grazia le romanze popolari della vecchia Parigi. La realtà esterna che aspetta chi lascia l’ospedale è spesso così ostile, così spietata e miserabile, da trasformare, nella memoria, il ricovero in una sorta di Eden.  Ed è certamente la nota più straziante di questa “ballata ospedaliera” quella della nostalgia, che risuona in una delle pagine più struggenti:

Sì, forse un giorno ci torneranno in mente come melodie del passato queste conversazioni da letto a letto, da parte a parte della sala, come: “Via, signori, un po’ di silenzio, insomma! Qui non siamo alla Camera dei Deputati. “ (…) Torneranno i sonni interrotti da gridi d’agonia, il vociferare di qualche alcoolizzato, i risvegli con queste notizie: “Il 15 ha tirato le cuoia. – Hai sentito quel porco del 4? Alla faccia sua, quanto accidenti russa!” Ma più di ogni altra cosa ci tornerà in mente, ahimé! sotto forma di utile rimpianto, la calma sobria, la rigida sicurezza, di questi luoghi di dolore, ovvio, ma anche di cure certe e pane per i nostri denti.