image001

di Stefano Trucco

Nel 1992, poco prima di morire, Serge Daney, l’ultimo grande critico cinematografico dei Cahiers du Cinema, notò l’importanza di un evento abbastanza dimenticato, la trasmissione, da parte del network televisivo americano NBC, della fiction (o come allora si diceva ancora, sceneggiato) ‘Holocaust’.

“Incapaci di ‘trattare’ una storia che dopotutto non era loro, i produttori americani l’avevano provvisoriamente abbandonata agli artisti europei. Ma avevano su di essa, come su tutta la storia, diritto di prelazione e prima o poi la macchina tele-hollywoodiana avrebbe osato raccontare la ‘nostra’ storia. L’avrebbe fatto col maggior riguardo possibile ma non senza vendercela come una storia americana tra le tante. Holocaust avrebbe quindi raccontato la sciagura che si abbatte su una famiglia ebrea fino a separarla e distruggerla: con comparse troppo grasse, performances d’attore, umanitarismo a iosa, scene d’azione e melodramma. E compatimento”.

Da quel momento, l’Olocausto entra nel mondo della fiction e diventa il cuore nero di un intero genere, un genere come tutti gli altri o quasi.

Fino ad allora, come fa notare Daney, i film americani si tengono alla larga dall’Olocausto. Film sulla guerra, tanti, e con i nazisti ovviamente malvagi. Non si nascondeva certo la persecuzione degli ebrei, ma il genocidio in sé era off limits: lo si sfiorava in film come ‘Il diario di Anna Frank’ (George Stevens, 1959) e ‘L’uomo del banco dei pegni’ (Sidney Lumet, 1964). Non si ‘entrava dentro’ i campi. Maggior libertà espressiva (fino a un certo punto) era concessa ai cineasti d’avanguardia europei: da ‘Notte e Nebbia’ (Alain Resnais, 1955) a ‘Kapò’ (Gillo Pontecorvo, 1959).

 

E questo era altrettanto vero per la narrativa. I decenni successivi all’Olocausto sono off limits alla fiction. È il tempo della testimonianza, dei Primo Levi e dei Jean Amery, oltre che Anna Frank, ovviamente, e all’oggi dimenticato ma al tempo popolarissimo Ka-Tzetnik 135663 (Oggi, dopo che ce l’hanno spiegato sia Philip Roth che Marco Belpoliti, consideriamo Levi uno scrittore a tutti gli effetti, valutandone il merito letterario e non solo la testimonianza: ma per decenni era stato un testimone cui capitava di saper scrivere bene). A questi vanno aggiunti i testimoni del Gulag, Solženicyn e Salamov in testa, oppure l’allora famosissimo Arthur Koestler, nei cui libri lo stalinismo era disvelato con tanta potenza e sottigliezza da perdere contatto con la realtà. E naturalmente tutti gli storici e i filosofi e giornalisti che avevano tentato di spiegare come fosse stato possibile.

I narratori puri e semplici non potevano ancora varcare quella soglia. Ci ricorda ancora Daney come un carrello di macchina di Pontecorvo in ‘Kapò’ fosse stato ferocemente accusato di ‘estetizzare’ la Shoa.

Dicevamo di come il Western fosse passato dall’attualità al mito rimanendo sempre anche intrattenimento. Ciò dipendeva anche dal fatto che le vicende del genere accadevano ‘Altrove’.

Era un Altrove relativamente vicino in cui si poteva pure andare, volendo, ma la gran parte degli Americani se ne rimanevano a casa loro, all’Est e al Sud e leggevano per divertirsi le storie di cowboy e indiani su riviste dozzinali, storie che erano in parte vere e in parte montate a arte. Quando poi si decise che il West era ‘chiuso’, si poté ancor di più sguazzare nella leggenda, dato che si poteva ancora viaggiare nel Montana o in Texas, dove la gente andava ancora a cavallo, ma non si poteva più andare nel Wild, Wild West, mai più.

Con la Seconda Guerra Mondiale era diverso. Era stata vissuta da persone ancora vive, e non certo come intrattenimento. Anche in quegli stati che non erano stati coinvolti o, se coinvolti, non erano stato invasi o bombardati, in primis gli Stati Uniti, che detenevano le chiavi dell’immaginario, ci si muoveva con cautela. Film di guerra patriottici sì, e tanti (e pure molto più sobri ed equilibrati di quelli della Prima Guerra Mondiale, in cui gli Junker prussiani erano stati rappresentati molto più selvaggiamente dei nazisti trent’anni dopo) ma certe zone erano, come dicevo, off limits.

Pensate a un film come Der Letzte Akt, una produzione austro-tedesca del 1955 sugli ultimi giorni di Hitler nel bunker, diretta dal vecchio maestro dell’espressionismo Georg Wilhelm Pabst, il primo film tedesco in cui Hitler appare come ‘personaggio’. Guardandolo oggi è difficile non pensare che gli attori, tedeschi e austriaci, erano tutta gente che aveva fatto la guerra e per quel che ne sapevamo potevano essere stati delle SS o quasi certamente soldati della Whermacht.

image006

Così, per poter fare della fiction sulla tragedia principale del XX secolo, si doveva aspettare che i sopravvissuti diventassero minoranza, così che accadde a partire dagli anni Ottanta circa. Altri fattori storici influirono: la cattura, il processo e l’esecuzione di Adolf Eichmann (1961), il responsabile delle deportazioni verso i campi di sterminio, come pure il ruolo di Israele nella politica mediorientale e mondiale focalizzano l’interesse sulla Shoa e la portano al centro della discussione storico-filosofica come non era accaduto nei quindici anni successivi alla fine della guerra; dopo il 1968 e la dissoluzione del blocco comunista nel 1989 le due questioni cruciali che fino ad allora avevano strutturato il discorso culturale, la Guerra Atomica e la Rivoluzione, perdono forza e divengono marginali. Un evento effettivamente avvenuto, l’Olocausto Ebraico, prende il posto, come esempio del Male Assoluto, di un evento che ha fortunatamente mancato la sua entrata in scena, l’Olocausto Atomico (che se avesse dato retta al regista e fosse entrato, non saremmo qui a parlarne). Allo stesso modo, il Lager, stavolta accompagnato dal Gulag, prende il posto dell’altro evento mancato, la Rivoluzione, mostrandone il volto oscuro e predestinato a cui l’unica alternativa è la civiltà liberale. Inoltre, il fatto che non vi sia stata una Terza Guerra Mondiale consacra, fra le altre cose, il ruolo decisivo della Seconda come ultima grande narrazione epica e come repertorio di lezioni e esempi.

Così, a partire da quell’ormai dimenticato sceneggiato tivù sull’Olocausto che da tempo non viene più trasmesso, c’è lo spazio culturale e immaginario per la creazione e lo sfruttamento di un nuovo genere.

Al centro ci sono, naturalmente, Hitler, il Nazismo e l’Olocausto, che possono essere descritti in mille modi diversi, concentrandosi sulla psicologia individuale come su quella di massa. L’evoluzione della dittatura sovietica fa da controcanto e sviluppa tutta una serie di motivi suoi (per esempio gli ex rivoluzionari che si autoaccusano di crimini assurdi per il bene della rivoluzione che li manda a morire: non c’è stato nulla di simile nel Reich). Poi il ‘prima’: Weimar, cioè come sia stato possibile giungere a tanto oppure la lezione di come muore una democrazia. La Prima Guerra Mondiale entra stabilmente a far parte dell’arco narrativo, anche se semplificata e spesso ridotta all’esperienza straziante della guerra di trincea, oltre che al ruolo che vi giocarono, più giovani, i protagonisti della Seconda. In Italia poi c’è il racconto del fascismo e della sua fine, che entrano a far parte dell’identità nazionale, con l’avvertenza di enfatizzare il fascismo trionfante degli anni Trenta o quello in crisi degli anni di guerra e quasi mai quello delle origini che conquista il potere. Poi ci sono scene locali, che completano l’affresco: l’Inghilterra degli omicidi nelle ville di campagna e della vita dei monarchi; la Parigi delle avanguardie artistiche; gli Stati Uniti della Grande Depressione e della criminalità organizzata. E tutta una serie di personaggi tipici e storie esemplari e cappelli e soprabiti e auto e moralità e scorci urbani e nebbie e canzoni e appelli al dovere e mezzi di trasporto e date (1914, 1917, 1929, 1933, 1939, 1943, 1945…) e in linea generale, una serie di fatti che, fino a un certo punto, possono essere dati per scontati, cioè che si possa contare sul fatto che il grosso del pubblico li conosca, magari un minimo semplificati. Insomma, un genere, come il Western, che può essere modulato su vari registri, il tragico, il drammatico, il comico, il politico, il romantico, il fantastico, l’avventuroso, il satirico, l’horror – ma con un tono generale più sobrio e realistico del Western – almeno finché un film comico sull’Olocausto in cui il campo di sterminio viene liberato dagli americani perché farlo liberare dai russi pareva brutto non fece vincere al suo autore l’Oscar come Miglior Attore nel 1999. Più di venticinque anni prima, un concetto simile mise fine alla carriera di un altro popolarissimo attore comico americano – Jerry Lewis, il cui film The day the clown cried su un clown a Auschwitz che accompagna i bambini verso le camere a gas non fu nemmeno completato e se lo fosse stato non sarebbe stato distribuito.

image008

Si vuole mettere in guardia dal razzismo e sostenere l’accoglienza dei migranti? I campi di concentramento sono l’apologo più facilmente a disposizione. Si vuole giustificare l’ennesima avventura militare dai dubbi motivi? Basta citare il patto di Monaco del 1938, e non c’è più bisogno di altri argomenti razionali. Oppure, se si vogliono criticare le dette avventure militari non ci si pensa due volte a paragonarle all’Olocausto. Si deve dimostrare quanto sia sbagliato l’intervento pubblico nell’economia? Stalin basta e avanza, ma nel caso ci sono anche Hitler e Mussolini (che si possono pure usare per dimostrare che Roosevelt ha fatto correre un terribile rischio alla democrazia americana). Si vuole criticare la politica economica della Germania? Ma ovvio, è l’ennesimo tentativo ‘nazista’ di conquistare l’Europa. L’ideologia è una brutta cosa? E lì si aprono le cataratte del cielo…

Concetti profondi che tentano di spiegare quel che avvenne finiscono per essere banalizzati e spuntarsi. Hannah Arendt parlò di ‘banalità del male’ proprio scrivendo di Adolf Eichmann, partendo dal contrasto fra quel che avevo fatto e la modestia e convenzionalità piccolo borghese dell’imputato. Poco a poco, si finì per usare l’espressione ‘banalità del male’ ogni volta che si voleva dire qualcosa di apparentemente profondo ma in realtà non si sapeva cosa. Quando nel 2006 lo scrittore franco-americano Benjamin Littel scrisse il suo romanzo sull’Olocausto, Le Benevele, si parlò di ‘banalità del male’ malgrado il protagonista, Max Aue, ufficiale delle SS, fosse un omosessuale incestuoso e forse matricida – ben diverso da quell’Eichmann che, con milioni di morti sulla coscienza, trovava ‘disgustosa’ la Lolita di Nabokov. La banalizzazione della banalità, come disse qualcuno (io, forse).

(e comunque ci avete mai pensato a cosa vuol dire essere tedeschi e crescere vedendo e leggendo film e serie e libri e fumetti e videogame in cui si è sempre i cattivi? Un’esperienza che è stata risparmiata a noi italiani, per motivi non particolarmente onorevoli).

Ovviamente rimangono dei limiti. Vi sono giochi da tavolo su tutte le battaglie e campagne della Seconda Guerra Mondiale ma nessuno sull’Olocausto e anche l’Auschwitz in mattoncini Lego è opera di un artista concettuale polacco.

Finì per succedere, come stiamo vedendo, che gli esempi, anche giusti, si usurano. Ma qui vogliamo parlare di letteratura, cosa che (spero) faremo nella prossima puntata.

image009