La grande beune bertini verri blog

di Mariolina Bertini

È soltanto un frammento, La Grande Beune (ed. orig. 1996, trad. di Giuseppe Girimonti Greco, Adelphi, 2020). L’incipit di un romanzo gravido di oscura violenza, destinata forse a sfociare in una tragedia provinciale alla Simenon, di quelle che maturano in silenzio tra i boschi fradici di pioggia e le cupe osterie di paese dalle pareti color sangue di bue. Il titolo del romanzo avrebbe dovuto essere L’origine del mondo, in omaggio al quadro di Courbet che rappresenta un nudo femminile, di cui non distinguiamo il volto, con il sesso in primo piano. Anche per il protagonista de La Grande Beune il mondo sembra cominciare e finire in un corpo di donna che lo ossessiona: quello della procace Yvonne. Come in un film di Fellini, Yvonne è la tabaccaia del villaggio, intorno alle cui forme generose, alle cui gambe inguainate di nylon, gravitano le fantasie dei maschi locali. Siamo nella provincia profonda, nel cuore del Périgord, nel 1951.

Il protagonista-narratore è un maestro al suo primo incarico nel borgo immaginario di Castelnau. È un po’ smarrito in quella regione ancora selvaggia, dove gli abitanti sembrano dedicarsi alla caccia e alla pesca con lo stesso accanimento feroce dei loro progenitori ritratti nelle pitture preistoriche della vicina grotta di Lascaux. Se fossimo in un romanzo di Simenon, l’ossessione erotica del giovane forestiero  sullo sfondo dell’enigmatica comunità locale, chiusa sui suoi segreti, occuperebbe il centro del racconto, in attesa dell’inevitabile scioglimento drammatico. Ma siamo in un racconto di Michon, come ci ricorda ad ogni riga la scrittura immaginosa e divagante, attraversata da lampi visionari. E quello che domina è dunque il tema centrale di tutta l’opera di Michon: la continuità ineluttabile che lega il presente al passato, che nelle nostre vite segnate dalla “cultura” e dal “progresso” fa rinascere in altra forma le “vite minuscole” dei contadini e dei vagabondi sepolti nell’oblio.

Castelnau sorge in riva a due fiumi, la Grande Beune e la Petite Beune; tutt’intorno si estendono colline rocciose disseminate di grotte. Perfino i bambini della scuola elementare sanno calarsi in quelle grotte alla ricerca di selci taglienti lavorate nel paleolitico, micidiali armi usate dai loro lontani antenati per la caccia e per la guerra. La ferocia dei cacciatori di bisonti immortalati sulle pareti di Lascaux continua ad impregnare la terra sabbiosa della regione, il fango  trasportato dai due fiumi. E qualcosa di quella violenza arcaica e immemoriale rivive anche nell’ossessione del protagonista per la carne di Yvonne, preda continuamente fantasticata e posseduta in sogno.  Una delle scene più impressionanti del racconto ce lo dice con particolare efficacia.

È una scena che, ancora una volta, ha a che fare con la caccia. Sin dal Medioevo, nella zona di Castelnau, si rispetta un’usanza che è quasi un rito: quando viene uccisa una volpe, animale nocivo, i bambini del luogo ne festeggiano la morte portandone in giro il corpo e mostrandolo agli abitanti del villaggio, che li compensano con qualche piccolo dono. Il narratore, che è all’oscuro di questa usanza, durante una passeggiata nel bosco si imbatte in una strana processione di nani incappucciati. Sono in realtà alcuni suoi allievi che portano in giro, sospesa a un bastone, la carcassa di una volpe. In una sorta di corto circuito tra la crudeltà dell’antico rituale e la sua ossessione per Yvonne, il protagonista si abbandona a una fantasticheria di macabro sadismo, prima di correre via e di scontrarsi proprio con l’oggetto del suo sogno ad occhi aperti.

Mi trovavo in un fabliau osceno. Una scure invisibile scuoteva un albero a viva forza. I boschi si riempirono del grido lamentoso dei lupi che si ingozzavano di una bella vittima che ci è cara; quel bastone posato di traverso di spalla in spalla mi parve adatto ad altre prede: sotto fredde calze di nylon che la posizione del corpo faceva scivolare giù, credetti di  vedervi legato stretto, al posto del pelame rossiccio della volpe, quello, nerissimo e crudo, che schiumava tra le cosce carnose di quella strega. Adesso correvo proprio, avevo una scusa per farlo; i giunchi si spezzavano sotto i miei piedi; l’aria nelle orecchie mi stordiva; uscita dal bosco per un minuscolo viottolo, diritta e forse terribile come Ysengrin il conestabile, feroce come la sua lupa, lei era là, a due passi da me ritta in piedi, tanto che nella corsa avrei potuto finirle addosso. Mi parve gigantesca. Mi fermai di botto.

Il riferimento a Ysengrin, il lupo del Roman de Renart, evoca il Medioevo. Come strati geologici sovrapposti, età remote della  storia umana coesistono nella fiabesca Castelnau de La Grande Beune, e soprattutto coesistono negli impulsi e nei fantasmi che  tormentano il  narratore; quel che emerge dalla notte profonda del nostro inconscio, suggerisce Michon, non è meno violento e disperato di quel che muoveva, nelle più arcaiche foreste, i cacciatori di lupi e di bisonti.

Siamo partiti segnalando l’analogia tra l’aneddoto provinciale de La Grande Beune e certi intrecci di Simenon; ma il respiro mitico della narrazione di Michon è lontano dalle atmosfere simenoniane, così come la scrittura espressionista dell’autore di Vite minuscole è lontanissima dalla prosa asciutta del creatore di Maigret. Una constatazione che ci porta a rendere omaggio al traduttore di questo racconto, Giuseppe Girimonti Greco; traduttore anche di Simenon, si dimostra egualmente a suo agio nel rendere alla perfezione lo stile di questi due prosatori antitetici e fascinosi.