di Mariolina Bertini

Dopo tanti combatimenti, tanti dolori, tanto sangue, al 30 ottobre 1917 mi anno circondato i Germanico e noi dopo tanti sforzi mi è tocato abbassare le armi. Allora io e il mio compagno Fiorotto siamo messi a piangere perché si pensava alla vita che mi toccherà passare sotto queste mani e poi invece subito dopo mi anno messo per 4 e abbiamo incominciato a caminare verso Udine, strada facendo abbiamo mangiato i viveri di riserva che erano abbandonati nel carreggio lungo le vie allora noi mi era passato unpo la rabia e incerto qual modo si scherzava tra di compagni e si diceva ormai abbiamo salva la ghirba.

Così comincia il testo contenuto in un piccolo quaderno la cui prima pagina, scritta in caratteri corsivi molto accurati, è concepita come una sorta di frontespizio:

In questo libretto resta

scritta la storia di tutta la

vita di prigionia che passò

il Granatiere Giuriati

Giuseppe durante

L’ottobre novembre Dicembre

e tutto l’hanno 1918

    Giuriati Giuseppe

Vita di prigionia!

Delle tre autobiografie di soldati semplici, tutti della provincia veneta, che Dario Borso ha raccolto in Ostaggi d’italia. Tre viaggi obbligati nella storia (pp.225, € 15,50, Exòrma, Roma 2021) – la prima relativa alla rotta di Adua, la seconda a Caporetto e la terza all’otto settembre – quella del granatiere di Caporetto Giuseppe Giuriati è la più ampia ed è anche l’unica di cui Borso è riuscito a ripristinare, grazie a un’accurata ricerca documentaria, la forma originale, spontanea e prossima al parlato in modo davvero impressionante.  Contadino con una formazione scolastica minima, Giuriati aveva tenuto una sorta di diario dalla sua chiamata alle armi, nel marzo del 1917, sino al congedo definitivo, cioè al 31 dicembre 1919. Tornato a casa, aveva trascritto su un quadernetto il suo diario di prigionia e su un secondo quadernetto, più tardi, nel 1933, il suo diario di guerra, particolarmente interessante per il racconto della rotta di Caporetto. Sicuramente prezioso per gli storici, il diario di Giuriati è anche a suo modo un testo letterario che immerge il lettore di oggi nel clima bellico. La ritirata sotto la pioggia dei soldati digiuni, il 29 settembre del ‘17, ha uno sfondo apocalittico:

Quella sera si incominciava vedere tutto il fronte in fiamme era tutti i barachamenti incendiati e i depositi di monizioni che scopiava, poi contrordine niente bruciare gli zaini allora zaino in spalla e si ritiramo fino a Palmanova, per la strada si vedeva carri rovesciati automobili e camion e tutto il careggio fermo e i cannoni slogiati dietro le rive insumma la strada era impedita adio Italia.

Alla confusione degli ordini contraddittori, alla fatica insostenibile (“erimo stanchi di caminare senza mangiare ne dormire”) si aggiungono inquietanti episodi di “fuoco amico”:

E noi dicevimo è gli austriaci che spara e il comandante di bataglione diceva no. Intanto i feriti e i morti incominciò e lui continuava gridare cessate il fuoco vigliachi, noialtri erimo fermi e lui continuava che siamo Itagliani siamo il secondo Regg.to che si ritiriamo siamo i vostri fratelli e voi mi ammazzate.

Il momento della cattura da parte del nemico è un momento di strazio, nel quale né Giuriati né il suo compagno Fiorotto riescono a trattenere le lacrime. È però anche un momento di sollievo per aver “salvato la ghirba” (cioè la pelle) nei giorni dello sbandamento generale di un esercito ormai all’estremo. Seguono quattordici mesi di lavori forzati tra diversi campi di prigionia (Darmstadt, Irons, Meschede): costante la tortura della fame, cui si aggiungono i pidocchi, la diarrea, la debolezza estrema, i maltrattamenti. La fine dell’incubo arriva nel novembre del ’18, con la firma di quello che Giuriati chiama l’amnistizio:

Poi si sente dire che l’amnistizio è firmato il giorno 11 allora il mio cuore si ha comosso e mi mise a piangere dal’allegria e tutto ad un tratto si sente tutta quella gente che era nel campo che gridava dall’allegria tutti asieme erimo Italiani, Francesi, Inglesi, Russi, Americani, Rumeni, portoghesi, Belgi, Arabi ecc. infine di tutte le razze che era forma d’uomo e tutti assieme si gridava eviva, la guera è finita speriamo presto liberarse da queste teribile e tristi tere maledette Adio ciao.

La voce di Giuseppe Giuriati, così fedelmente restituita dalla trascrizione di Dario Borso, mi è parso meritasse, con la sua straordinaria freschezza, uno spazio particolarmente ampio. Ora è tempo però di collocarla nel contesto di Ostaggi d’italia e di spiegare qual è il filo rosso che la lega alle altre due autobiografie comprese in questo piccolo, affascinante volume. È un filo rosso che ci porta allo scrittore Giovanni Comisso (1895-1969). Comisso infatti di questi tre  testi è stato il primo editor; ha pubblicato nel 1932 le memorie del prigioniero di Adua, nel 1934 quelle del granatiere di Caporetto e nel 1949 quelle del marinaio Luigi Pavanello (che adottò però come nom de plume il cognome materno, Figallo). Insieme ai tre soldati-narratori, il romanziere trevigiano è dunque un altro importante personaggio di Ostaggi d’Italia e dalle pagine di Borso impariamo a conoscere meglio la sua sfaccettata personalità: la passione per l’avventura, che lo conduce a Fiume con D’Annunzio e poi in giro per il mondo come inviato speciale, la simpatia genuina per gli “umili” della sua terra, il vitalistico nazionalismo, il genio instancabile di talent scout (cui dobbiamo, ad esempio, la pubblicazione de Il cielo è rosso di Giuseppe Berto).

Nel 1931 Comisso entra nella cerchia dei collaboratori fissi della rivista longanesiana “L’Italiano”, dal significativo sottotitolo “Foglio quindicinale della rivoluzione fascista”. Dopo l’impresa di Fiume è entrato sin dalla fondazione nel PNF ed è in perfetta sintonia con l’ideologia antiborghese, ispirata al culto delle tradizioni popolari, soprattutto rurali, di cui “L’Italiano” è espressione. È responsabile della rubrica Misteri d’italia. Le persone comuni scrivono ai potenti e nel dicembre del 1932 pubblica proprio la testimonianza di una “persona comune”: il soldato semplice Mariano Callegari, prigioniero degli abissini dopo la battaglia di Adua e finito, dopo una rocambolesca fuga, alla corte di Menelik II, prima di essere rispedito a casa. Trascritto integralmente da Comisso, in un italiano quasi privo di improprietà, il racconto autobiografico di Callegari non ha l’energica scorrettezza formale di quello di Giuriati, di cui Borso è riuscito a risalire alla stesura originaria. Ma è un’efficace narrazione d’avventura nella quale affiorano, per la gioia di Comisso, il coraggio e l’intraprendenza propri, a suo parere, del popolo contadino del Bellunese. Callegari, di professione tagliapietre, durante la sua fuga di villaggio in villaggio, si improvvisa erborista:

Durante il viaggio fummo trattati molte volte e creduti dei dottori. Se qualcuno era ammalato ci chiamavano per le capanne e noi si cercava  di aiutare quei disgraziati  e procurarli assistenza. Qualche volta con delle erbe preparavamo dei decotti senza però sapere se facevano bene o male. In questo modo ci si poteva guadagnarsi qualche manciata di orzo.

Alla corte di Menelik II, ad Addis Abeba, riesce invece a farsi apprezzare per le sue vere capacità professionali, e gli viene affidata la costruzione di una scalinata del palazzo reale e di una “chiesetta”. Agli occhi di Comisso, Callegari e Giuriati, con quella che oggi verrebbe definita la loro resilienza, rappresentano l’anima popolare nella sua forma più genuina; offrono al suo nazionalismo non esempi convenzionali di eroismo magniloquente, ma figure realmente eroiche,  radicate in un’arcaica e sanguigna cultura contadina. Nel trascrivere i ricordi del granatiere di Caporetto, Comisso non esita a correggerli e a integrarli per farli ancor meglio coincidere con il proprio ideale. Fortunatamente, Dario Borso è riuscito in questo caso a risalire ai manoscritti autentici e a restituirci la vera voce di Giuseppe Giuriati sottratta ad ogni patriottica manipolazione.

Nessuna traccia di eroismo, invece, né autentico né posticcio, nell’autobiografia di Luigi Pavanello (alias Figallo), il marinaio che l’8 settembre sorprende nell’isola di Pilos. A differenza di Callegari e di Giuriati, Pavanello ha uno stretto legame di famigliarità con Comisso: è stato amico del suo giovane amante Guido, ucciso dai partigiani durante la guerra, ed è poi entrato al suo servizio come segretario e autista. “Senza lavoro e di pochissima cultura – lo descrive Borso – prorompente di vitalità, affabulatore nato, in una parola: un picaro”. Appartengono infatti evidentemente alla narrativa picaresca i ricordi della sua prigionia nella zona di Danzica, tra la lotta costante con la fame e una serie innumerevole di avventure erotiche: non a caso il testo vide la luce presso Longanesi nel 1949 con il titolo Una donna al giorno. Impossibile accertare quale sia stata la parte di Comisso nella stesura; a lui fa risalire molto plausibilmente Dario Borso alcuni episodi ricalcati sulle memorie di Giacomo Casanova. Il narratore- protagonista, comunque, è nel suo cinismo zingaresco una figura a suo modo memorabile e il suo addio alla Polonia chiude le storie dei tre Ostaggi d’italia su una nota melanconica non priva di fascino:

Ero triste di lasciare quella casa, quelle donne e quella terra che forse non avrei più visto nella mia vita. Camminando ripensavo a tutte le avventure, belle e tristi, sempre accompagnato dal battito del mio cuore di vent’anni: erano state la mia giovinezza e sentivo che con quella partenza una parte della mia vita moriva. Il destino aveva voluto farmi vivere da prigioniero in una terra lontana dalla mia patria, ma non era stato ingrato: bene o male, con la mia forza d’amare e con la mia chitarra, mi ero sempre tratto da ogni pasticcio.